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Oliverio, la Calabria se ne ricorderà

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Le prime parole da presidente

Regionali Calabria, il neogovernatore Oliverio: “Lotta alla ‘ndrangheta ovunque”

“In Calabria si cambierà musica. Tutti devono sapere che la discrezionalità, le clientele, i favoritismi, i protezionismi, saranno cacciati via dal palazzo della Regione e dalla struttura dell’ente”
Mario Oliverio è il nuovo presidente della regione Calabria, eletto con oltre il 60% dei consensi. ”E’ stato un risultato straordinario – ha detto Oliverio – ed il consenso largo che i calabresi ci hanno tributato rappresenta un grande atto di fiducia”.

“Con Renzi – ha aggiunto il neo governatore – ci siamo gia dati appuntamento per il 28 novembre e cercheremo di terminare un nucleo di questioni prioritarie sulle quali bisognera lavorare per rimettere in piedi questa regione”. “Spero – ha aggiunto – che per quella data sia avvenuta la proclamazione per assumere pienamente i poteri che mi sono stati conferiti dal vasto consenso riscontrato in questa bellissima giornata”.

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Clan degli Zingari, blitz nel cosentino: 20 arresti per estorsioni e traffico di droga

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27 novembre 2014, 07:54

20 provvedimenti cautelari sono in corso di esecuzione nei confronti di soggetti considerati organici al gruppo criminale degli “zingari”, attivo nell’area urbana di Cosenza, Rende e Paola. L’operazione è coordinata dalla Procura Distrettuale Antimafia di Catanzaro ed è eseguita dalla Squadra Mobile e dal Nucleo investigativo dei carabinieri cosentini. Gli indagati, 13 a cura della polizia di stato e 7 dell’arma dei carabinieri, sono accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e traffico di droga.

Tra i destinatari delle misure vi sarebbe anche Maurizio Rango, considerato il reggente della cosca dei “Rango-Zingari”, e già stato sottoposto a fermo martedì scorso con l’accusa di concorso in omicidio pluriaggravato, porto e detenzione illegale di armi e occultamento di cadavere (reati aggravati dalle metodologie mafiose) per l’omicidio di Luca Bruni, 37enne sparito il 3 gennaio del 2012. Omicidio che, per gli investigatori, avrebbe sancito un presunto “patto federativo” a Cosenza con la cosca degli “italiani”, il cui reggente sarebbe Mario Gatto, arrestato nella scorsa settimana.

Clan degli Zingari, un altro arresto: si costituisce Ettore Sottile

Ettore Sottile, 26enne che era sfuggito all’arresto nel corso dell’operazione che, giovedì scorso, ha portato all’esecuzione di 20 provvedimenti cautelari, si è costituito presso il Comando provinciale dei carabinieri. Sottile, come dicevamo, si era sottratto al blitz che il 27 novembre ha colpito soggetti ritenuti esponenti della cosca degli “zingari”, attiva a Cosenza, Rende e Paola, ed accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e traffico di droga.

Secondo gli inquirenti, il clan imponeva il suo controllo sulla zona attraverso estorsioni e utilizzando armi per acquisire la gestione di attività economiche, appalti pubblici, l’occupazione abusiva di alloggi dell’Aterp. Venerdì scorso anche altri due soggetti coinvolti nell’indagine, Celestino Bevilacqua, 53 anni, e Antonio Abbruzzese, 39 anni, si erano costituiti presso il comando provinciale dell’Arma.

‘Ndrangheta: clan degli zingari, in 2 si costituiscono a Cosenza

Celestino Bevilacqua, 53 anni, e Antonio Abbruzzese, 39 anni, entrambe sfuggiti alla cattura nel blitz effettuato ieri dalla polizia e dai carabinieri di Cosenza e che ha portato all’esecuzine di di 20 provvedimenti cautelari nei confronti di soggetti considerati organici al gruppo criminale degli “zingari” (attivo nell’area urbana di Cosenza, Rende e Paola), sono stati arrestati stamani dopo che si sono costituiti presso il comando provinciale dell’Arma (Bevilacqua si è presentato ieri nel tardo pomeriggio e Abbruzzese nella tarda serata). Nel corso della stessa operazione sono stati denunciati anche due giovani, un 21enne, B.C., già noto alle forze dell’ordine, ed un 20enne, V.F. Durante delle perquisizioni sono stati infatti trovati in loro possesso delle munizioni di vario calibro.

Clan degli Zingari progettavano un attentato al pm Bruni?

Avrebbero progettato di assassinare il pm della Dda di Catanzaro Pierpaolo Bruni. Questa la convinzione degli inquirenti che stamani hanno coordinato l’esecuzione di 20 ordinanze di arresto nei confronti di presunti appartenenti al clan degli Zingari; accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e traffico di droga. La Procura non contesta direttamente agli arrestati fatti specifici in tal senso ma crede che la cosca avesse pensato di attentare alla vita del magistrato: episodio denunciato da un detenuto alla polizia penitenziaria e che ha raccontato come il piano criminoso fosse stato ordito dalle cosche del Crotonese, del Cosentino e del Lametino a seguito delle numerose inchieste coordinate sul territorio dallo stesso Bruni.

Un’associazione a delinquere, di stampo mafioso, dunque, quella degli Zingari, che operava tra Cosenza ed il Tirreno cosentino e che, sempre secondo le indagini, avrebbe imposto il proprio controllo sulla zona perpetrando estorsioni e utilizzando armi per acquisire la gestione e il controllo di attività economiche, appalti pubblici, addirittura l’occupazione abusiva di alloggi popolari dell’Aterp per poi rivenderli a ignari acquirenti. Un affittuario, per esempio, fu minacciato di morte affinché l’asciasse l’abitazione. Tra i destinatari dell’ordinanza, c’è anche Maurizio Rango, ritenuto il reggente della cosca e già fermato martedì scorso con l’accusa di concorso in omicidio pluriaggravato ai danni di Luca Bruni, 37enne scomparso dal gennaio del 2012.

Accertate almeno una ventina di estorsioni ad imprenditori e commercianti di Cosenza e Paola che venivano minacciati e fatti oggetto di incendi, danneggiamenti e anche percosse. Episodi, in molti casi, immortalati dalle telecamere piazzate dagli investigatori. Secondo gli inquirenti tra gli arrestati ci sono anche gli autori di un attentato, nel 2013, ai danni di una pizzeria del capoluogo, quando vennero esplosi colpi d’arma contro un dipendente dell’attività; o delle altre quattro intimazioni subite dal titolare di un negozio di autoricambi: durante una di queste fu rubata un’auto e incendiata proprio davanti all’attività. Anche i parcheggiatori abusivi erano costretti a pagare il pizzo venendo obbligati ad inserire uomini di loro fiducia retribuiti con 50 euro al giorno ciascuno. Finanche l’episodio di una delle vittime che, per costringerla a pagare il racket – ispirandosi forse alla filmografia, spiegano gli investigatori – venne portata davanti al boss Franzo Abruzzese, latitante all’epoca dei fatti ed ora in carcere.

IN QUATTRO SFUGGITI ALL’ARRESTO E L’OMBRA DI UNA “TALPA”

15:48 | Quattro persone sono sfuggite all’arresto nel corso dell’operazione di stamani aprendo lo scenario di una possibile fuga di notizie e dunque della presenza di una “talpa” così come annunciato da un pentito che aveva anche rivelato il progetto di attentato a Pierpaolo Bruni. “La fuga di notizie – tranquillizza però il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri – può essere ricondotta al fatto che erano noti i collaboratori che stavano facendo dichiarazioni”, Bombardieri ha anche negato che la presunta talpa possa essere tra le forze dell’ordine.

LOMBARDO: I NOMADI HANNO SOSTITUITO I CLAN

“L’operazione di oggi registra l’evoluzione delle cosche cosentine e dopo l’operazione ‘Tela del ragno’ e altre, i clan Cicero, Lanzino e Perna sono stati sostituiti, a Cosenza, dal clan Rango e dagli zingari, visto che Maurizio Rango ha sposato una nipote di Giovanni Abbruzzese, realizzando una unione personale e attirando a sé anche gli uomini del clan Bruni”. È quanto ha spiegato Vincenzo Antonio Lombardo, procuratore capo della Dda, nel corso della conferenza stampa di stamani. “Non si pensi che sconfiggere un clan voglia dire sconfiggere tutta la ‘ndrangheta”, ha affermato inoltre il magistrato.

http://www.cn24tv.it/tag/clan-degli-zingari.html

130 anni sugli Ascone di Rosarno: per la prima volta riconosciuti come cosca

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di Claudio Cordova – Gli applausi ironici, misti a insulti, rivolti dagli imputati al termine della lettura del dispositivo all’indirizzo del pubblico ministero Roberto Di Palma sono il segno più tangibile della vittoria della Procura di Reggio Calabria sulla famiglia Ascone di Rosarno. Il Gup di Reggio Calabria, Antonio Scortecci, ha infatti accolto totalmente l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Di Palma, comminando pene molto dure nei confronti degli imputati del procedimento “All inside 3″, che vedeva alla sbarra i membri della famiglia Ascone, da anni attiva a Rosarno, appena un gradino sotto le storiche famiglie di ‘ndrangheta dei Pesce e dei Bellocco. Se i primi tronconi del processo “All inside” avevano messo nel mirino il clan Pesce di Rosarno, il terzo filone ha analizzato le dinamiche criminali che ruotano attorno al gruppo degli Ascone. Tutti gli imputati rispondevano del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, ad esclusione di Giuseppe Bonarrigo e di Orlando Galatà.

E sono diciassette le condanne disposte dal Gup Scortecci sui diciotto imputati portati a giudizio dal pm di Palma. Condanne dure, nonostante il rito abbreviato consideri lo “sconto” di un terzo della pena. Si va da un minimo di quattro anni a un massimo di dodici anni e otto mesi di reclusione, per un totale di oltre 130 anni di carcere.

Da sempre è stata considerata una famiglia satellite o comunque all’ombra dei più potenti clan di Rosarno, i Pesce e i Bellocco. Adesso l’operazione “All inside 3″ prova a definire – per la prima volta dal punto di vista giudiziario – il gruppo degli Ascone come cosca di ‘ndrangheta.

E in primo grado ci riesce con successo.

La requisitoria del pm Di Palma, si era protratta per circa sei ore, contestualizzando il periodo in cui si incastreranno le indagini della Dda di Reggio Calabria. Fatti che prendono le mosse dagli omicidi dei fratelli Cannizzaro e dall’omicidio Sabatino. Dinamiche che hanno spinto gli inquirenti a investigare il contesto criminale di Rosarno, arrivando ad arrestare numerosissime persone. E anche oggi, prima della lunga camera di consiglio, è stato confronto serrato in aula, con le repliche dello stesso pm Di Palma alle arringhe difensive e le controrepliche degli avvocati, cui spettava l’ultima parola.

Il nodo del contendere è proprio quel capo A della rubrica: l’associazione mafiosa, l’esistenza, quindi, di un clan di ‘ndrangheta staccato dai Pesce e dai Bellocco, quello degli Ascone, appunto.

Un’indagine nata nel 2006 a seguito dell’omicidio di Domenico Sabatino, ritenuto organico ai Pesce. Dinamiche criminali, equilibri precari sempre pronti a cambiare. Secondo le indagini, infatti, i Pesce ei Bellocco costituiscono tuttora i due poli intorno ai quali gravitano altre cosche, ad esse collegate sia da legami di parentela che da cointeressenze affaristiche. È emerso che non si tratta di poli contrapposti, ma ognuno dei due sodalizi costituisce baricentro di interessi di tipo economico e criminale e, anche in presenza di sovrapposizione di interessi, le due articolazioni territoriali della ‘ndrangheta si sono adoperate per evitare che si creassero fratture ed anzi sono intervenute per ricomporre gli attriti creatisi tra le cosche satelliti. In quest’ottica si inquadrerebbe il ruolo degli Ascone e dei Sabatino. La contrapposizione tra queste due famiglie avrebbe anche indotto i Pesce a effettuare le azioni di fuoco nei confronti degli Ascone, a loro volta vicini ai Bellocco. La faida con i Pesce scoppierà nell’agosto 2007, anche se ad aprire la mattanza sarà l’omicidio dei fratelli Maurizio e Domenico Cannizzaro, ritenuti vicini ai Bellocco e agli Ascone e uccisi nel febbraio 1999. Tali uccisioni scateneranno una lunga serie di eventi sanguinosi, dall’attentato a Cosma Preiti, vicino ai Pesce, all’uccisione di D’Agostino ed al tentato omicidio di Francesco Giovinazzo, culminando poi nell’agguato a Domenico Sabatino e nel tentato omicidio ai danni di Vincenzo Ascone, sul lungomare di Nicotera. Domenico Sabatino verrà freddato nell’ottobre 2006.

Insomma, secondo gli inquirenti, la scia di sangue sarebbe stata una vera e propria faida di ‘ndrangheta, effettuata da persone pienamente inserite nell’associazione mafiosa. I termini utilizzati, emersi nel corso delle intercettazioni, sono inequivocabili: si parla del “battesimo” di Vincenzo Ascone, si delineano le figure apicali caratterizzate da capacità decisionale, con specifico riferimento a Domenico Bellocco, Antonio Ascone e ad suoi figli Michele e Vincenzo; vengono indicate le alleanze tra le famiglie (e i relativi legami di parentela e/o di comparatico), vengono circoscritti i territori assoggettati al loro controllo, emerge la spartizione degli interessi economici sul territorio. In tal senso, infatti, l’indagine avrebbe permesso anche di scoprire le principali attività illecite degli Ascone: dal traffico di sostanze stupefacenti, fino al reinvestimento nell’acquisto di mezzi di trasporto (una circostanza, quest’ultima, che il Gup non ha riconosciuto).

Ancora una volta, peraltro, emergerà il ruolo delle donne, Carmela Fiumara, in particolare. La donna – madre di Vincenzo Ascone – si sarebbe lamentata del fatto che il figlio fosse disarmato al momento dell’agguato subito a Nicotera, la seconda – secondo le intercettazioni – avrebbe minacciato di pentirsi, raccontando tutto agli inquirenti, qualora non venisse vendicata la morte del figlio, Domenico Ascone, ucciso a Rosarno il 14 agosto 2007.

Nel dettaglio, il Gup Scortecci ha disposto 17 condanne su 18 imputati, assolvendo il solo Orlando Galatà, che comunque non rispondeva di associazione per delinquere di stampo mafioso. Ecco il dettaglio delle condanne: Alessandro Ascone (7 anni 9 mesi e 10 giorni), Antonio Ascone (10 anni), Francesco Ascone (9 anni), Gioacchino Ascone (7 anni e 4 mesi), Michele Ascone (10 anni e 4 mesi), Salvatore Ascone (11 anni e 8), Vincenzo Ascone (12 anni e 8 mesi), Giuseppe Bonarrigo (4 anni), Damiano Consiglio (7 anni e 4 mesi), Carmela Fiumara (7 anni), Francesco Fiumara (7 anni), Vincenzo Fiumara (6 anni e 4 mesi), Damiano Furuli (8 anni), Rocco Furuli (6 anni e 4 mesi), Angelo Giordano (7 anni e 4 mesi), Aldo Nasso (8 anni e 8 mesi), Rocco Scarcella (7 anni).

http://ildispaccio.it/primo-piano/61539-130-anni-sugli-ascone-di-rosarno-per-la-prima-volta-riconosciuti-come-cosca

Mafia capitale

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Mafia, appalti e tangenti: 37 arresti a Roma. Indagato Alemanno, in carcere anche ex Nar

Maxi-operazione di carabinieri e Finanza. Il ministro Alfano: «L’inchiesta è solida». A capo della cosca Massimo Carmianti, il “Nero” di “Romanzo criminale”. Sequestrati beni per 200 milioni di euro. Nei guai politici locali e consiglieri regionali
grazia longo
roma

Un collaudato e redditizio patto di ferro tra mafia e politica a Roma, non a caso definito dagli inquirenti «Mafia capitale». L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per associazione mafiosa e, per lo stesso reato, in manette è finito, tra gli altri, l’ex terrorista nero Massimo Carminati, «il Nero» di Romanzo Criminale (personaggio di spicco nella banda della Magliana è accusato anche dell’omicidio Pecorelli) interpretato al cinema da Riccardo Scamarcio. Saltano subito all’occhio questi due nomi nella maxi operazione della Procura e dei carabinieri del Ros di Roma, con Massimo Carminati ritenuto al vertice dell’associazione mafiosa. La prima, in assoluto, di connotazione esclusivamente romana.

 

I NOMI ECCELLENTI

Nel complesso gli arrestati sono 37, tra cui anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini, oltre a una serie di «eccellenti» indagati. Ma l’aspetto più inquietante è la scoperta di un sistema mafioso per l’aggiudicazione di appalti pubblici con il coinvolgimento di funzionari e politici del Comune di Roma e della Regione Lazio. I Ros hanno perquisito il Campidoglio, la Regione e diverse abitazioni private tra cui quella dell’ex sindaco Alemanno. Hanno ricevuto un avviso di garanzia anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell’Assemblea capitolina Mirko Coratti.

 

COME AGIVA LA “CUPOLA” DELLA CAPITALE

È stato, insomma, individuato un sodalizio mafioso da anni radicato nella capitale con diffuse infiltrazioni nel mondo imprenditoriale per ottenere appalti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate, anche per quanto riguarda i campi nomadi e i centri di accoglienza per gli immigrati. I reati ipotizzati sono associazione di stampo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati ancora. L’indagine è coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall’aggiunto Michele Prestipino e dai sostituto Paolo Ielo e Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli. Contestualmente all’operazione «Mafia capitale», la Guardia di Finanza sta procedendo al sequestro di beni per oltre 200 milioni di euro, in applicazione di un decreto firmato dal Tribunale di Roma.

 

IL CAPO ERA CARMINATI

Intercettazioni telefoniche, pedinamenti e una proficua e altamente professionale attività investigativa ha consentito di smascherare uno scandalo tra mafia e politica di dimensioni inimmaginabili. Che risale, peraltro, a molti anni fa. Si legge infatti nell’ordinanza del gip Flavia Costantini: «E’ difficile stabilire esattamente il tipo di collegamento tra l’odierna organizzazione mafiosa riconducibile a Massimo Carminati e il substrato criminale romano degli anni ottanta, nel quale essa certamente affonda le sue radici. Esistono indiscutibili corrispondenze sul piano soggettivo e sul piano oggettivo». E ancora: «Sul piano soggettivo Mafia Capitale si è strutturata prevalentemente attorno alla figura di Massimo Carminati, il quale ha mantenuto e mantiene stretti legami con soggetti che hanno fatto parte della Banda della Magliana o che comunque le gravitavano intorno».

 

PIGNATONE: “OMERTA’ E ASSOGGETTAMENTO”

Mafia e politica che hanno fruttato fior di quattrini. Tutto grazie – come si legge nell’ordinanza – «al riferimento alla forza di intimidazione del vincolo associativo deve intendersi che l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione, sino ad estendere intorno a sè un alone permanente di intimidazione diffusa, tale che si mantenga vivo anche a prescindere da singoli atti di intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato». L’inchiesta Mafia Capitale del procuratore Giuseppe Pignatone viene ben riassunta dal gip nell’ordinanza: «Le indagini svolte hanno consentito di acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza di una organizzazione criminale di stampo mafioso operante nel territorio della città di Roma, la quale si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano per commettere delitti e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di appalti e servizi pubblici».

 

L’EX SINDACO: “DIMOSTRERO’ LA MIA ESTRANEITA’”

In un comunicato Gianni Alemanno si difende e respinge le accuse: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». «Sono sicuro – conclude – che il lavoro della Magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti».

 

ALFANO: “INCHIESTA SOLIDA”

«Ho grande stima e considerazione per il procuratore capo di Roma che ha grande spessore competenza equilibrio, quindi sono convinto della solidità dell’inchiesta» commenta il ministro dell’Interno Angelino Alfano a «Di martedì» su La7 aggiungendo: «Su persone che conosco, come Alemanno, mi auguro riesca a dimostrare la sua estraneità così come ha detto». «Se l’inchiesta è fondata – ha aggiunto Alfano – ci sono cialtroni che non smettono di rubare; inutile fare le leggi se si continua a rubare, non si deve rubare!», ha tuonato il ministro.

Ecco l’elenco degli ordini di custodia cautelare emessi dal gip di Roma Flavia Costantini.

In carcere:

Massimo CARMINATI

Riccardo BRUGIA

Roberto LACOPO

Matteo CALVIO

Fabio GAUDENZI

Raffaele BRACCI

Cristiano GUARNERA

Giuseppe IETTO

Agostino GAGLIANONE

Salvatore BUZZI

Fabrizio Franco TESTA

Carlo PUCCI

Riccardo MANCINI

Franco PANZIRONI

Sandro COLTELLACCI

Nadia CERRITO

Giovanni FISCON

Claudio CALDARELLI

Carlo Maria GUARANY

Emanuela BUGITTI

Alessandra GARRONE

Paolo DI NINNO

Pierina CHIARAVALLE

Giuseppe MOGLIANI

Giovanni LACOPO

Claudio TURELLA

Emilio GAMMUTO

Giovanni DE CARLO

Luca ODEVAINE

Ai domiciliari:

Patrizia CARACUZZI

Emanuela SALVATORI

Sergio MENICHELLI

Franco CANCELLI

Marco PLACIDI

Raniero LUCCI

Rossana CALISTRI

Mario SCHINA

Rifiutata dal gip Costantini la richiesta della procura di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che rimangono tuttavia indagati.

http://www.lastampa.it/2014/12/02/italia/cronache/arresti-a-roma-perquisizioni-in-regione-lazio-e-in-campidoglio-hFPiXQWs3jnmp1aItLxQ3L/pagina.html

Mafia Capitale: mazzette e saluti romani, la cupola degli amici di Gianni Alemanno

Panzironi, Mancini e Pucci sono figure di spicco del cerchio magico dell’ex sindaco. Ma il sistema criminale tratteggiato dagli inquirenti include Eugenio Patanè, consigliere regionale del Pd, Mirko Coratti, attuale presidente dell’assemblea capitolina, ma anche Luca Odevaine, ex vice capo segreteria del sindaco Veltroni

L’hanno chiamata Mafia Capitale. Gli inquirenti parlano di una “organizzazione criminale di stampo mafioso operante nel territorio della città di Roma, la quale si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano per commettere delitti e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di appalti e servizi pubblici“. Una “organizzazione criminale” i cui contorni si sovrappongono e si confondono con quelli del cerchio magico che tra il 2008 e il 2013 ha amministrato la Capitale. L’humus è quello della destra e dell’estrema destra capitoline e i nomi sono sempre gli stessi, appartengono al sistema solare che ruota attorno a Gianni Alemanno: una lunga serie di volti e nomi già noti alle cronache, legati all’ex sindaco e che da anni si spartisce il potere a Roma.

L’eco di Parentopoli risuona ancora nei palazzi romani, così come quello del suo deus ex machina. Nell’ambiente lo chiamano “Tanca”: Franco Panzironi è stato amministratore delegato dell’Ama, l’Azienda municipale per l’ambiente di Roma, dal 5 agosto 2008 a 4 agosto 2011 ed è stato rinviato a giudizio il 7 dicembre 2012 con altre 7 persone per oltre 841 assunzioni irregolari avvenuto presso l’azienda per lo smaltimento dei rifiuti del comune di Roma tra il 2008 e il 2009. Nell’operazione “Mondo di mezzo” figura tra gli arrestati cui gli inquirenti contestano il 416 bis. Secondo i pm, il suo ruolo sarebbe stato quello fare da ponte con l’Ama e con tutti gli appalti assegnati dall’azienda romana dei rifiuti.

Lo stesso reati contestato a Riccardo Mancini. Appartenente alla cerchia più stretta della cerchia di Alemanno, da sempre legato all’estrema destra romana e in particolare a quella dell’Eur, da amminstratore delegato di Eur Spa è stato rinviato a giudizio il 24 ottobre  per una presunta mazzetta da 600mila euro versata da Breda Menarinibus (Gruppo Finmeccanica) per aggiudicarsi la fornitura di 45 filobus bus al Comune di Roma. Arrestato il 25 marzo 2013, Mancini nel maggio successivo ”ha provveduto a restituire alla persona offesa, Breda Menarini Bus, la somma di 80 mila euro – della quale aveva ammesso la indebita percezione”, scriveva il gip Stefano Aprile il 10 maggio 2013 nell’ordinanza che concedeva all’ex ad dell’Ente Eur gli arresti domiciliari, e il 3 luglio tornava libero dopo 90 giorni trascorsi tra il carcere e i domiciliari nella sua villa di Sabaudia.

Appendice fisica di Mancini è Carlo Pucci, ex ristoratore, assistente personale dell’onorevole Vincenzo Piso (oggi Ncd) tra il 1997 e il 2010, che con l’arrivo dell’amico a Eur Spa diventa prima “Direttore commerciale e valorizzazioni immobiliari” dell’ente  e dal 24 ottobre 2014 – si legge sul suo curriculum pubblicato sul sito dell’ente- viene promosso a “Direttore progetti speciali e servizi interni”. Secondo gli inquirenti, in compagnia di Panzironi Pucci fornisce “uno stabile contributo per l’aggiudicazione di appalti pubblici e per lo sblocco di pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione”.

Un cerchio che si allarga anche alle fila di quelli che sui banchi del consiglio comunale e del consiglio regionale sono gli avversari politici, ma che al di fuori del palazzo diventano amici. Perché tra le oltre 100 persone iscritte nel registro degli indagati dagli inquirenti romani figurano anche due consiglieri della Pisana: Luca Gramazio capogruppo in Regione per Forza Italia, ed Eugenio Patanè, consigliere regionale Pd ed ex presidente romano dei democratici: i loro uffici sono stati oggetto di perquisizione questa mattina. Ma i militari del Ros sono entrati questa mattina in Campidoglio per perquisire l’ufficio di Mirko Coratti (Pd), attuale presidente dell’Assemblea capitolina. Rapporti trasversali che vanno oltre l’appartenenza politica: tra gli arrestati c’è anche Luca Odevaine, oggi già capo della polizia provinciale e vice capo della segreteria del sindaco Walter Veltroni. Ma il perno del sistema, secondo i pm, sarebbe Salvatore Buzzi, numero uno della cooperativa “29 giugno”, appartenente all’universo Legacoop.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/02/mafia-capitale-mazzette-saluti-romani-cupola-degli-amici-alemanno/1245548/

Roma, verso nuovi arresti. Carminati era pronto a fuggire all’estero

Un interrogatorio durato poco più di dieci minuti. Massimo Carminati si è avvalso della facoltà di non rispondere. Giusto il tempo di incontrare il gip Flavia Costantini che ha firmato il suo arresto, e i pubblici ministeri Paolo Ielo e Luca Tescaroli, che da quattro anni indagano su mafia e politica.

Il “Cecato” indossa jeans e maglione, ha il solito atteggiamento da boss. «Era d’obbligo che prima o poi ci dovessimo incontrare – sono le uniche parole che rivolge agli inquirenti – So’ quattro anni che c’ho il Ros dietro». L’interrogatorio preferisce non farlo, del resto è il suo modo di difendersi. Ma le ragioni, questa volta, stanno anche nel fatto che l’ordinanza di custodia cautelare gli è stata notificata nel pomeriggio di martedì, e che né lui né il suo avvocato storico, Giosuè Naso, hanno avuto modo di leggerla attentamente.

IL FERMO
L’operazione “Mondo di mezzo” è cominciata con un paio di giorni di anticipo per Carminati. Gli investigatori avevano avuto indicazione che potesse fuggire all’estero e, nonostante avessero pronta l’ordinanza di arresto, sono stati costretti a intervenire in tutta fretta. Una trentina di uomini del Ros si sono presentati nella sua casa di Sacrofano domenica pomeriggio, per effettuare una perquisizione: cercavano armi da guerra. E così hanno usato metal detector, setacciato il terreno. Alla fine hanno emesso un decreto di fermo che ieri però è stato annullato dal gip di Tivoli, anche perché nel frattempo a Carminati era stato notificato il provvedimento restrittivo. Probabilmente dietro l’intervento d’urgenza ci sono state anche le nuove indicazioni su investimenti e interessi che l’ex Nar ha mostrato verso le Bahamas e altri paesi stranieri. Inoltre, pare che stesse addirittura per comprare una casa nel quartiere più cool di Londra, Notting Hill, lasciando intendere, quindi, che era arrivato il momento di abbandonare l’Italia.

Ieri mattina si sono svolti anche gli interrogatori per altri dodici dei ventotto arrestati nella mega inchiesta. E tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, a cominciare da Riccardo Brugia, considerato il braccio armato dell’ex Nar, per finire a Fabrizio Franco Testa, a Matteo Calvio, a Luca Odevaine, ad Agostino Gaglianone, e allo stesso Salvatore Buzzi, factotum e “compagno di merende” dell’ex terrorista nero. Solo uno di loro ha scelto di parlare, l’ex ad di Ama, Franco Panzironi. Assistito dall’avvocato Pasquale Bartolo, ha comunque negato di essere stato al libro paga del presunto clan mafioso. «Io non sono un mafioso – ha dichiarato al giudice – I finanziamenti ricevuti dalla Fondazione Nuova Italia, di cui è presidente Gianni Alemanno, e giudicati sospetti, sono un fatto normale». Per la procura, invece, quel denaro è riconducibile alla cupola affaristica gestita da Carminati. E nei prossimi giorni potrebbero esserci nuovi arresti.

LE INDAGINI
Che la situazione fosse a rischio e che la giustizia gli stesse sempre di più con il fiato sul collo, Carminati ne aveva contezza già da tempo. I reparti del Ros dei carabinieri, comandati dai colonnelli Roberto Casagrande e Stefano Russo, lo hanno accerchiato giorno dopo giorno, riuscendo anche a superare quel muro di protezioni che il boss ha sempre avuto.

Carminati bonificava gli ambienti da cimici e microspie con una frequenza maniacale, servendosi molto spesso anche del disturbatore “Jammer”. Ma i militari sono praticamente sempre riusciti a superare il blocco e a registrare migliaia di dialoghi compromettenti. Il “Cecato” l’aveva capito che l’aria si stava facendo brutta, tanto che al suo amico Brugia dice: «Ce stanno a comincià a dimostrà che stanno a fà carte false per qua, per inculà la gente eh, ce se vonno inculà…non è più come una volta».

http://www.ilmessaggero.it/ROMA/CRONACA/roma_carminati_pronto_fuggire_mafia/notizie/1048375.shtml

Reggio Calabria, ex assessore Plutino condannato a 12 anni per ‘ndrangheta

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Secondo i pm l’uomo di fiducia dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti, era membro e referente politico della famiglia mafiosa Caridi

A poco più di due anni dello scioglimento del Comune di Reggio Calabria arriva l’ennesima sentenza nei confronti di un politico calabrese per mafia. Dopo diverse ore di camera di consiglio, ieri sera tardi (mercoledì 3 dicembre) in aula bunker si è concluso con pesanti condanne il processo “Alta tensione 2“. Il tribunale ha accolto le richieste del pm Stefano Musolino e ha inflitto 12 anni a Giuseppe Plutino, l’ex consigliere e assessore all’Ambiente del Comune di Reggio Calabria. Il politico, uomo di fiducia dell’ex sindaco e governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, è stato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso.

Per la Direzione distrettuale antimafia, infatti, Plutino è uno dei componenti della famiglia mafiosa Caridi federata con la più importante cosca Libri. In sostanza, stando all’accusa, l’ex assessore forniva un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo alla cosca Caridi come referente politico del sodalizio, destinatario delle preferenze elettorali, ricevute sia dagli affiliati, sia da parte di terzi ma raccolti in suo favore dagli esponenti della famiglia mafiosa nel corso di varie consultazioni elettorali, con particolare riferimento a quelle per l’elezione del Consiglio comunale di Reggio Calabria del maggio 2011, anche mediante sistemi di alterazione della libera competizione elettorale e di controllo della libertà di voto”. Plutino, infatti, è cugino di Domenico e Filippo Condemi (condannati rispettivamente a 22 anni e 6 mesi e 10 anni di carcere), considerati boss nel quartiere San Giorgio Extra, nella periferia sud di Reggio.

L’operazione “Alta tensione 2″ ha fatto luce anche su una tentata estorsione ai danni del consigliere regionale Giovanni Nucera (oggi anche lui indagato per corruzione elettorale) che sarebbe stato pressato da Plutino e dai Condemi i quali avrebbero voluto imporre l’assunzione di un parente nella struttura del politico. Nel corso del processo, il capo di imputazione contestato a Plutino è stato modificato da concorso esterno ad associazione mafiosa. Le indagini hanno dimostrato come l’ex assessore del centrodestra fosse stato “il referente della cosca Caridi-Borghetto-Zindato all’interno delle istituzioni”. “È cresciuto politicamente attraverso queste dinamiche – ha ricordato il sostituto della Dda Musolino durante la requisitoria – La‘ndrangheta aveva bisogno di infiltrarsi nelle istituzioni e tramite Plutino questo è avvenuto”.

Nella sue repliche alle arringhe degli avvocati, il pm ha parlato di ‘ndrangheta “fluida” capace di infiltrarsi nelle istituzioni e ha sottolineato che “le cosche vogliono essere riconosciute come sistema di potere”. Il processo gli ha dato ragione e quasi tutti gli imputati che hanno scelto il rito ordinario sono stati condannati a bene pesantissime.
Il Tribunale, infatti, ha assolto solo il boss Pasquale Libri (accusato di un’estorsione) e il poliziotto Bruno Doldo, processato per rivelazione del segreto d’ufficio e per il quale il pm Musolino aveva chiesto 4 anni di carcere. Nei suoi confronti era stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare revocata dopo qualche mese di carcere. Al termine del processo di primo grado non ha retto l’impianto accusatorio che indicava l’ex agente della Digos come l’informatore della cosca Condemi circa le indagini della Procura.

‘Ndrangheta e potere. Ma anche tanti soldi. Stamattina (giovedì 4 dicembre) la Guardia di Finanza di Reggio e lo Scico di Roma hanno sequestrato beni per 3 milioni e mezzo di euro alla cosca gallico di Palmi. L’operazione, denominata “Caput mundi“, vede come destinatari i pregiudicati Francesco Frisina e il nipote Alessandro Mazzullo, ritenuto uno dei rampolli emergenti della cosca Gallico. Stando all’inchiesta delle Fiamme Gialle, dopo essersi trasferiti a Roma i due avevano portato a termine alcune operazioni finanziarie finalizzate all’acquisizione di immobili e alla gestione di attività commerciali della capitale. Tutti beni oggi che lo Stato ha strappato alla ‘ndrangheta.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/04/reggio-calabria-ex-assessore-plutino-condannato-12-anni-per-ndrangheta/1249821/

‘Ndrangheta, 5 arresti nel Reggino

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05/12/2014

Cinque persone sono state arrestate dai carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Reggio Calabria perché ritenute elementi di vertice delle cosche di ‘ndrangheta che operano a Giffone e Grotteria.

Cinque persone sono state arrestate dai carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Reggio Calabria perché ritenute elementi di vertice delle cosche di ‘ndrangheta che operano a Giffone e Grotteria. In esecuzione di un’ordinanza del gip, i carabinieri hanno arrestato per associazione mafiosa, Giuseppe Larosa, di 49 anni, Pasquale Valente (52), Salvatore Bruzzese (62), Antonio Mandaglio (67) e Vincenzo Carlino (60). I primi tre erano stati sottoposti a fermo il 18 novembre scorso su disposizione della Dda reggina nell’ambito delle indagini che, lo stesso giorno, avevano portato all’arresto in Lombardia di 40 presunti affiliati alle cosche. Per Larosa e Valente, il gip di Palmi aveva convalidato il fermo e rimesso gli atti a quello di Reggio, mentre per Bruzzese il gip di Locri aveva ordinato la liberazione. Le indagini sono state incentrate su intercettazioni, riprese video e sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e sono scaturite dalle risultanze acquisite nel corso dell’attività della Dda e del Ros di Milano nell’inchiesta “Insubria” nel corso della quale è stata anche filmata, per la prima volta, la cerimonia di affiliazione.

Secondo l’accusa, Larosa, conosciuto come “Peppe la mucca”, era un Mammasantissima ed aveva un ruolo di vertice nel Locale di Giffone al quale sono subordinate le Locali individuate nella Brianza comasca di Cermenate e Fino Mornasco, e quella di Calolziocorte, nel lecchese. La cosca di Giffone, secondo quanto emerso dall’ inchiesta “Helvetia” del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Reggio dei carabinieri dell’agosto scorso, è collegata anche con altre strutture calabresi, quali la Locale di Fabrizia (Vibo Valentia) e con la dipendente Società di Frauenfeld (Svizzera). Anche Valente, panettiere incensurato, secondo l’accusa, ricopriva un ruolo di rilievo nella Locale di Giffone con la dote della Santa, ed era in stretto contatto con Larosa al pari di Mandaglio, macellaio, che aveva un ruolo di vertice nel sodalizio tanto da essere ritenuto fedele espressione sul territorio di Larosa e interfaccia autorevole per risolvere problemi sullo svolgimento di attività economiche, specie del settore boschivo. L’uomo, per gli investigatori, era in possesso almeno della dote del “trequartino”. Bruzzese, conosciuto come “Salineri”, è considerato il reggente della struttura criminale di Grotteria. Le conclusioni del gip di Locri riguardo la sua posizione, non sono state condivise dal gip di Reggio anche alla luce di ulteriori approfondimenti eseguiti dal Ros dopo la sua scarcerazione. E’ suo fratello Raffaele, da anni in Lombardia, a indicarlo con un ruolo di primo piano nella ‘ndrangheta. Secondo le indagini, infine, è risultato appartenere alla Locale di Grotteria anche Carlino, già condannato per omicidio e armi, commerciante, che avrebbe avuto il compito di curare i rapporti con i referenti di altre articolazioni in Lombardia, prendendo anche parte attiva a riti di affiliazione e a cerimonie di conferimento di “cariche” e “doti” di ‘ndrangheta. (ANSA)

‘Ndrangheta, confiscati beni della cosca Gallico a Roma

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Operazione della guardia di finanza. Numerosi gli investimenti e gli interessi economici nella capitale soprattutto nel settore della ristorazione: dal “Bar Chigi” ad “Antiche Mura”

La Guardia di finanza ha confiscato a Roma beni per un valore di tre milioni e mezzo di euro riconducibili ad esponenti di spicco della cosca di ‘ndrangheta dei Gallico di Palmi, egemone nella Piana di Gioia Tauro.
L’operazione che ha condotto alla confisca, denominata “Caput mundi”, è stata condotta dal Comando provinciale di Reggio Calabria delle Fiamme gialle insieme allo Scico di Roma, con il coordinamento della Dda reggina.

La confisca è arrivata dopo i provvedimenti emessi dalla sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Reggio. I beni, riferisce la Guardia di finanza, costituivano un ingente patrimonio, immobiliare e societario accumulato dagli esponenti della cosca a fronte di un’esigua capacità reddituale. Secondo quanto è emerso dalle indagini, i Gallico avevano fatto cospicui investimenti a Roma che avevano permesso loro di accumulare un rilevante patrimonio, confermando, in tal modo, l’esistenza di più di un interesse economico della cosca nella capitale.

I beni confiscati consistono in unità immobiliari, quote societarie, terreni e rapporti finanziari bancari, postali ed assicurativi per un totale di 3,5 milioni di euro. Tra questi quote sociali e l’intero patrimonio aziendale della “MACC 4 S.r.l.”, specializzata nell’acquisto, vendita e gestione di bar, ristoranti, pizzerie, rosticcerie e proprietaria del bar “Antiche Mura”; quote della società “Colonna antonina 2004 S.r.l.”, titolare – sino al novembre 2009 – del “Bar Chigi” in via della Colonna Antonina, due immobili di cui un villino di pregio a Roma, via di Boccea; vasti appezzamenti di terreno agricolo, coltivati ad uliveto, per un’estensione di oltre 12 mila metri quadri.

Destinatari del provvedimento giudiziario sono i pregiudicati Francesco Frisina, figlio di Domenico, già affiliato alla cosca e ucciso nel 1979 nell’ambito della guerra di ‘ndrangheta che sino al 1990 aveva visto coinvolte le cosche “Condello” e “Gallico” e che ha provocato più di 50 vittime, e il nipote Alessandro Mazzullo, figlio del pregiudicato Giuseppe, ritenuto uno dei “rampolli” emergenti della Cosca Gallico, al quale è stato attribuito il ruolo di intestatario fittizio dell’associazione criminale a Roma.

L’esito delle indagini, avviate nel 2009, ha evidenziato come l’organizzazione criminale, proprio grazie a Frisina e Mazzullo e ai loro legami con esponenti della cosca degli Alvaro, già da tempo operativi nella capitale, avesse delocalizzato il proprio centro di interessi dalla Calabria a Roma. E proprio nella capitale, Frisina e Mazzullo avevano realizzato una serie di operazioni finanziarie, finalizzate all’acquisizione, diretta o indiretta, di diversi immobili, nonché alla gestione di varie attività commerciali, soprattutto nel settore della ristorazione, grazie al reimpiego dei proventi illeciti delle cosche calabresi.

http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/12/04/news/_ndrangheta_-102088471/

Dall’astensione all’“altra ‘ndrangheta”. Ecco quant’è malata l’Emilia oggi

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Nella regione rossa in crisi d’identità i clan non sparano, ma soffocano l’economia e cercano di inflitrarsi nelle istituzioni. E una vasta zona grigia li difende. Dal caso Brescello ai contatti con la politica. Con il sospetto che il voto locale sia stato condizionato dalle cosche

di Giovanni Tizian

Peppone e don Camillo potevano litigare su tutto, ma c’era un momento sacro per entrambi: il voto. Invece la loro Brescello ora è diventata una delle capitali dell’astensione. Ai seggi per le regionali infatti si è presentato solo il 27 per cento degli elettori, mentre nel 2010 erano stati il 60 per cento. Ma il paesone bagnato dal Po, appollaiato nel cuore della Valpadana, è un ottimo osservatorio per capire il male che si è lentamente diffuso in queste terre, corrodendo il consenso del popolo rosso fino a spegnerne l’entusiasmo o spingerlo nelle braccia della Lega di Matteo Salvini.

Il modello emiliano costruito grazie al benessere in mezzo secolo dai sindaci comunisti alla Gino Cervi d’intesa con i prelati democristiani alla Fernandel si è sgretolato. E sulle sue macerie ha messo radici l’impero della ’ndrangheta emiliana, che contribuisce ad alimentare sfiducia e sospetti verso la politica locale.

È una realtà criminale cresciuta negli affari, tanti business protetti dalla fitta nebbia che da queste parti rende ogni cosa invisibile. Gli investigatori la chiamano “l’altra ’ndrangheta” per distinguerla dalle cosche calabresi e da quelle che si sono imposte in Lombardia.

In Emilia non spara, ogni tanto appicca un rogo dal sapore di ultimatum, ma è soprattutto una holding, che lentamente soffoca l’economia e cerca di contaminare le istituzioni. E ha sede legale proprio a Brescello, con magazzini e centri operativi nelle province di Piacenza, Parma, Modena, Mantova e Verona. Un mostro con artigli affilati che ha arraffato aziende di costruzione, di trasporto, di videogiochi. Ha riciclato montagne di quattrini. E offre una gamma di servizi perfetta per questi tempi di crisi: dal prestito di denaro al recupero crediti, garantendo manodopera a basso costo e soluzioni rapide per lo smaltimento rifiuti. Dopo il terremoto del 2012 si è ritagliata una fetta rilevante della ricostruzione (vedi box a pag. 50). E tutto fa capo a Cutro, comune del Crotonese che ha assunto un peso sempre maggiore nelle dinamiche della mafia calabrese.

L’infiltrazione è silenziosa ma devastante. Qui le cosche non conquistano, seducono. Puntano alla «conquista delle menti dei cittadini emiliani», come ha scritto la procura nazionale antimafia nell’ultima relazione. La sintesi perfetta del quadro disegnato dalle inchieste penali, che proprio per questo procedono a fatica. «Trovo maggiore difficoltà a fare indagini in Emilia Romagna che in Sicilia perché è più difficile distinguere il buono dal cattivo che qui si intrecciano», ha detto due anni fa il procuratore di Bologna Roberto Alfonso. Un’estesa zona grigia dove lecito e illecito convivono pacificamente. Il minimo comune denominatore di questa metamorfosi è il denaro. Ne hanno tanto: in pochi mesi carabinieri e Dia hanno sequestrato 13 milioni. La fitta trama di relazioni serve ai clan per incassare di più e per consolidare le fondamenta dell’impero. Le complicità con gli imprenditori locali permettono ai padrini di entrare nel mercato e ai loro nuovi soci di non affogare nei debiti. Ma come accade al Sud, il tavolo della spartizione richiede un terzo interlocutore: gli appoggi politici per accaparrarsi appalti e subappalti.

La fede di Graziano Delrio è granitica. Il braccio destro del presidente del Consiglio è un fervente cattolico. Ma c’è una festa religiosa che gli sta creando più di un imbarazzo politico: la processione del Santissimo crocifisso a Cutro, provincia di Crotone. Un rito avvenuto nel pieno della campagna elettorale del 2009 quando l’allora sindaco di Reggio Emilia correva per un nuovo mandato. In città e in tutto il circondario la comunità d’origine cutrese è talmente numerosa da pesare anche alle urne e quella spedizione in Calabria poteva avere un impatto nel voto. Delrio, all’epoca numero due dell’Anci, non è stato il solo a impegnarsi in questa trasferta: tutti gli altri candidati della zona hanno deciso di presentarsi al cospetto del Santissimo.
Ma in certe terre i simboli contano più delle parole: la processione dei primi cittadini emiliani è stata interpretata come un segno tangibile di riconoscenza da tutta la comunità calabrese. Anche da quelle persone che in Emilia alimentano i peggiori traffici. La questione è finita all’attenzione della procura antimafia di Bologna, che ha convocato come testimoni gli illustri partecipanti. Anche Delrio è stato sentito come “persona informata dei fatti”.

La sua deposizione è ancora segreta, ma le impressioni degli investigatori che hanno partecipato al colloquio confermano la grande difficoltà di fare luce nella nebbia padana. Gli inquirenti sono rimasti colpiti dalla bassa percezione mostrata dall’attuale sottosegretario di Palazzo Chigi, apparso ignaro delle dinamiche che la ’ndrangheta del Terzo Millennio ha messo in atto nel “cuore rosso” d’Italia. Per Delrio quel pellegrinaggio è stato solo un omaggio agli emigranti onesti che con il loro duro lavoro hanno partecipato alla costruzione del modello emiliano.

Opposta è la visione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, che poche settimane fa, proprio a Reggio Emilia, ha dichiarato pubblicamente: «Se un candidato vuole rivolgersi ai calabresi, può parlare a quelli che vivono in Emilia. Se vai in Calabria vuol dire sapere che è là che si decide l’elezione, vuol dire che è da lì che deve venire il via libera al tuo sostegno elettorale». Non tutti i vertici del Pd hanno partecipato alla trasferta. Sonia Masini, che in quel 2009 era candidata alla Provincia, ha detto no: «Perché avrei dovuto? Chi mi vuole votare può farlo senza bisogno che io vada a Cutro. Ero candidata in Emilia, mica in Calabria» ha spiegato a “l’Espresso”. Anche la Masini è stata sentita in procura. Dopo dieci anni alla guida dell’ente locale, la sua carriera politica per il momento si è interrotta: il partito ha preferito non puntare su di lei alle regionali, scegliendo – questa la versione ufficiale – volti nuovi e più giovani, da protocollo renziano.

I magistrati hanno voluto ascoltare altre figure chiave dell’entourage dell’allora sindaco Delrio. Come Maria Sergio, dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e ora passata a quello di Modena, originaria di Cutro e sposata con l’attuale sindaco pd della città del tricolore, Luca Vecchi. Un settore strategico quello dell’Urbanistica. E proprio la commissione consiliare Territorio e ambiente per molto tempo è stata presieduta da un altro fedelissimo di Delrio: Salvatore Scarpino. Un punto di riferimento per il sottosegretario nella comunità cutrese, l’unico che ha ottenuto dal partito una deroga per ricandidarsi al terzo mandato in Consiglio comunale. Lui, dicono i ben informati, è il regista della trasferta calabrese. Scarpino oltre a essere un esperto di urbanistica è anche dirigente all’Agenzia delle Entrate di Bologna.

’NDRANGHETA A CHI?
La confusione tra legalità e ombre ha il suo epicentro a Brescello. L’erede di Peppone è Marcello Coffrini, diventato sindaco con i voti del Partito democratico. D’altronde ha avuto un grande maestro: suo padre infatti ha guidato la giunta per quasi vent’anni. Per il giovane Coffrini il boss calabrese Francesco Grande Aracri è «un personaggio tranquillo, composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello», come ha risposto al collettivo di giornalisti Cortocircuito autori di una video inchiesta rilanciata dalla Gazzetta di Reggio. Un profilo da libro “Cuore” insomma. Che però dà l’idea della grande strategia di mimetizzazione della ’ndrina, dominata secondo gli inquirenti proprio da Francesco Grande Aracri e dal fratello, il potente padrino Nicolino, detto “Manuzza”. La famiglia d’onore è tra i trenta clan più ricchi della ’ndrangheta. Il cuore a Cutro, il polmone economico a Brescello, da dove irradia la sua influenza fino a Verona e Mantova, restando però ben piantata lungo la via Emilia, da Modena a Piacenza.

Una presenza che non fa paura e non crea neppure imbarazzo: il sindaco Coffrini ha reagito con insofferenza alle polemiche nate dalle sue dichiarazioni su Grande Aracri. Qui il clan fa girare i soldi. E lo dimostrano le aziende sospettate dagli investigatori di rapporti con la cosca: due fanno parte della galassia di Confindustria Reggio Emilia. Forse per questo il sindaco di Brescello non è solo nel suo appoggio alla famiglia di Cutro. Anche una parte della cittadinanza difende Grande Aracri e le sue aziende che danno lavoro. C’è persino chi rispolvera motivazioni che neppure al Sud vengono più accettate, sostenendo che «in fondo la mafia è nata per togliere ai ricchi e dare ai poveri». Pure il parroco don Evandro Gherardi si è schierato con Coffrini: durante la processione cittadina ha affermato orgoglioso che Brescello non è mafiosa. Don e sindaco finalmente d’accordo. Ignorando le parole messe a verbale già nel 2007 dal pentito Angelo Cortese: «Brescello rappresenta Cutro, qui vive tutta la famiglia Grande Aracri, e quindi simbolicamente è importante; non che Reggio Emilia sia da meno, ma simbolicamente è Brescello il punto di riferimento».

«Quanto è accaduto in quel paese è sintomatico della pervasività della ’ndrangheta emiliana», racconta a “l’Espresso” un investigatore, che aggiunge: «ma i politici che la pensano in quel modo, o peggio che hanno avuto rapporti e si relazionano con il volto pulito della ’ndrangheta emiliana sono numerosi». La procura nazionale antimafia in un’audizione alla Commissione parlamentare ha segnalato un elemento inquietante: «Nel territorio emiliano i contatti con la politica esistono, sono esistiti nel 2007, quando ci furono le elezioni amministrative, e non escludo che ci siano stati anche con riferimento alle elezioni amministrative del 2012». Da quanto risulta a “l’Espresso” la provincia interessata dal sospetto di voto di scambio sarebbe quella di Parma. In particolare nella città ducale i movimenti opachi avrebbero riguardato un gruppo di emissari del clan Grande Aracri e alcuni esponenti del Pdl che si sarebbero mossi per far eleggere nel 2007 il berlusconiano Pietro Vignali, diventato sindaco e poi travolto da un’inchiesta per corruzione. Una notizia sepolta in una vecchia indagine della procura antimafia di Catanzaro, che non ha più avuto sviluppi.

UNA CENA CONTRO IL PREFETTO
Cristallizzata invece in alcuni rapporti dei carabinieri inviati alla prefettura di Reggio Emilia è la cena tra un cartello di imprenditori legato al clan Grande Aracri e tre politici del Pdl. L’incontro avvenuto nel 2012 era stato organizzato nel ristorante Antichi Sapori, di proprietà di Pasquale Brescia, molto in confidenza con questo entourage di uomini d’affari. Alla cena erano presenti Nicolino Sarcone, «referente della cosca a Reggio Emilia e comuni limitrofi» si legge nei documenti inviati al Prefetto, il fratello Gianluigi e Alfonso Diletto, nipote del fratello del boss “Manuzza”. Tra i commensali politici invece viene notato Giuseppe Pagliani: avvocato ed esponente di spicco di Forza Italia in città. Tra un piatto tipico e un bicchiere di vino la discussione è andata a finire sulla frenetica attività della prefettura: le interdittive che stavano lasciando fuori dagli appalti numerose aziende perché indicate come vicine ai Grande Aracri.

Una delle imprese colpite è di Giuseppe Iaquinta. E quella sera era presente pure lui. Il costruttore che ha creato un piccolo impero tra Reggio e Mantova è il padre di Vincenzo Iaquinta, l’attaccante della Juve dei record e della nazionale campione del mondo. La passione per il calcio è talmente radicata in casa che due mesi fa sembrava concretizzarsi la scalata di Iaquinta senior al Mantova calcio. Poi non se ne fece più nulla. Nel frattempo papà Iaquinta si è affidato all’avvocato Carlo Taormina: ha denunciato l’ex prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro per abuso d’ufficio. E ha chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di essere sentito per la «opportuna valutazione anche politica del prefetto di Reggio Emilia».

I nomi di Pagliani e Gianluigi Sarcone, invece, ritornano in un’altra vicenda. Sono stati ospiti nel talk show di un’emittente locale per parlare ancora una volta degli effetti dei provvedimenti della prefettura. A condurre il programma era il giornalista Marco Gibertini. Era l’11 ottobre 2012. Oggi il conduttore è agli arresti domiciliari per la maxi operazione della procura di Reggio Emilia su un giro di evasione e riciclaggio. E agli inquirenti non sfugge una certa familiarità del giornalista con un imprenditore considerato espressione del clan emiliano, coinvolto nella stessa indagine. Mentre Gianluigi Sarcone si sta difendendo in tribunale perché la Direzione investigativa di Firenze ha messo i sigilli alle sue aziende. Invece il rapporto dei carabinieri su Pagliani non ha intaccato la sua carriere politica: la Lega Nord lo ha sempre difeso nel consiglio comunale e nelle consultazioni regionali di domenica l’esponente berlusconiano ha sfiorato l’elezione, ottenendo un record personale di 2.634 preferenze nella lista che sosteneva il leghista Alan Fabbri, l’araldo di Salvini in terra d’Emilia.

http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/12/02/news/dall-astensione-alla-ndrangheta-quant-e-malata-l-emilia-1.190026


‘Ndrine al nord, il capo dei vigili abdica ai boss: “Aria pesante non si lavora sereni”

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Nelle carte dell’inchiesta Arcobaleno della Dda di Milano emerge il caso del comune comasco di Cadorago, dove per togliere la multa al bar riconducibile ai clan si attiva l’intera macchina amministrativa. Storia di mafia e politica, di collusioni e rapporti nel profondo nord d’Italia

In Lombardia oggi c’è una linea geografica che rappresenta l’ultimo avamposto della ‘ndrangheta. Corre a semicerchio da Appiano Gentile a Guanzate, tocca Cadorago, si allunga a Bulgorello. Sale a nord, attraversa Fino Mornasco, Como, la Svizzera. Un complicato tracciato lungo il quale s’incontrano storie di efferati omicidi e di collusioni tra mafia e politica. Succede in piccoli comuni, dove capita di avere come vicino di casa l’assessore o il boss, e dove la banalità del quotidiano, così come succede in Calabria, radica la mafia ben più dell’infiltrazione nel grande appalto pubblico. L’allarme mediatico, però, resta nascosto tra quelle righe (e sono migliaia) che non raccontano né di Expo né di parlamentari romani. Eppure è in queste storie locali che sempre più spesso le istituzioni abdicano alla mafia.

Succede a Cadorago, settemila anime, Alta Brianza, profondo nord. Il copione è esemplare: nel 2010 il bar Bulldog di Caslino al Piano, che gli investigatori ritengono riconducibile a Bartolomeo Iaconis (‘ndraghetista certificato tale con sentenza definitiva a metà anni Novanta), tiene aperto oltre l’orario di chiusura, i carabinieri di Lomazzo multano i titolari, i quali si rivolgono all’assessore di riferimento per non pagare. Risultato: si attiva l’intera macchina amministrativa, coinvolgendo sindaco, assessore, funzionari comunali. Davanti a tutto questo, ecco il commento sconsolato del capo dei vigili: “ Non ho un buon rapporto con il sindaco in quanto lui e la sua giunta mi hanno praticamente estromesso dalle reale e concrete funzioni comunemente ricoperte dal Comandante della Polizia Locale”.

L’incipit squaderna sul tavolo personaggi, ruoli, rapporti. Indagano i carabinieri di Como che dal 2009 assieme all’allora pm antimafia Mario Venditti intercettano la ‘ndrangheta di Fino Mornasco, tracciando competenze e contatti con la politica. E’ l’inchiesta Arcobaleno sulla quale da luglio pende una richiesta di archiviazione. Il fascicolo, però, recentemente è tornato d’attualità dopo l’operazione Insubria che il 18 novembre 2014 ha chiuso il cerchio attorno a 40 presunti mafiosi affiliati a tre locali di ‘ndrangheta: Cermenate, Fino Mornasco e Calolziocorte. Due inchieste. Stesso contesto. Con Insubria che traccia il solco mafioso mentre Arcobaleno elenca nomi di politici in contatto con i clan. Politici che se non hanno, ad oggi, responsabilità penali, dovranno comunque rendere conto davanti ai loro elettori per i tanti rapporti certificati da decine di intercettazioni.

Ecco allora il comandante dei Vigili. Si chiama Marco Radaelli e il 30 settembre 2010 viene sentito a sommarie informazioni dai carabinieri. “Nel territorio di Cadorago – racconta – c’è un’aria molto pesante ed è impossibile lavorare con la giusta serenità. Accade rarissimamente che un cittadino si rivolga a noi per confidarci delle situazioni anomale. Da quando sono arrivato alla polizia locale di Cadorago tutti i miei colleghi mi facevano subito notare i vari personaggi pregiudicati calabresi che usciti dal carcere si presentavano a Cadorago e da cui stare attenti. Nel territorio c’è una situazione di calma apparente e in centro è difficile trovare uno sbandato o spacciatori (…) . La metà della popolazione ha precedenti penali (…). Cito la presenza per le vie del paese di Michelangelo Chindamo uscito da poco dal carcere e di cui tutti parlano come un pezzo grosso della ‘ndrangheta”. Michelangelo Chindamo risulterà tra gli arrestati dell’inchiesta Insubria.

Sembra l’Aspromonte, invece è l’Alta Brianza. Radaelli prosegue. Fa nomi, descrive rapporti. Si tratta di personaggi pregiudicati citati nell’indagine Arcobaleno che,  va detto, ancora non ha dimostrato in pieno le loro responsabilità penali. Ecco allora le parole del capo dei vigili: “Di Bartolomeo Iaconis conosco i precedenti penali (…). Conosco meglio il suo socio Alessandro Tagliente perché si vede più spesso nei pressi della piazza Largo Clerici, dove ha sede il mio comando, il comune ed il bar Bulldog. Frequenta anche l’amministrazione comunale in virtù della sua funzione di Presidente della Società sportiva Zampiero Calcio. So che tra l’assessore Angelo Clerici e Tagliente c’è un buon rapporto di amicizia”.

Bartolomeo Iaconis nei primi anni Novanta viene arrestato nel blitz I fiori della notte di San Vito, a lui i magistrati assegnano il ruolo di capo società della locale di Fino Mornasco, per associazione mafiosa sconterà 14 anni. Nell’indagine Arcobaleno, sui cui pesa richiesta di archiviazione, viene descritto dai carabinieri “con la capacità di fare sistema, di entrare in rapporti di scambio con una serie di personaggi che permettono (…) di trarre vantaggi sempre nuovi”. E il nome di Iaconis, detto Bartolino, pur non indagato, compare nell’indagine Insubria. Ne parlano Giuseppe Puglisi (capo della locale di Cermenate con carica di Quartino) e Domenico Spanò affiliato a Fino Mornasco. Chiede Spanò: “Iaconis è il capo di tutta la Lombardia? E’ responsabile Bartolino?”. Puglisi smentisce. Spanò riprende: “Allora gli hanno dato qualche dote che tu non sai, Bartolino è superiore a voi”. Ribadiamo, che pur condannato per mafia, Iaconis non risulta indagato nell’ultima inchiesta. E nonostante questo, annota il giudice Simone Luerti, più volte la sua presenza è stata richiesta alle “mangiate” dei vari affiliati.

“La famiglia Tagliente – scrivono i carabinieri di Como – è notissima nel campo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. I fratelli Alessandro e Sergio, sono da sempre stati indicati quali trafficanti di stupefacenti legati a Michelangelo Chindamo”. Di più: “Alessandro Tagliente (citato nelle informative Arcobaleno, ndr), da sempre uomo di fiducia di Iaconis e suo socio in affari influiva sulle decisioni delle amministrazioni comunali (…) mettendo (…) a disposizione (…) il proprio tessuto relazionale costituito da uomini politici, pubblici ufficiali, imprenditori”.

Tra i politici c’è Angelo Clerici, attualmente capo gruppo di minoranza, all’epoca assessore alla Sicurezza. Clerici, citato più volte nell’inchiesta Arcobaleno, si attiva per far togliere la multa al bar Bulldog gestito dalla moglie di Alessandro Tagliente. Di lui scrivono i carabinieri: “Si è reso disponibile a intercedere, per conto di Elisabetta Rusconi, con il sindaco di Cadorago per sistemare una contravvenzione comminata dai carabinieri di Lomazzo al Bar Bulldog (…) . Il sindaco, su richiesta dello stesso Clerici, ha voluto predisporre (…) una delibera fittizia con effetto retroattivo con la quale giustificare l’apertura del locale e aiutare quindi i gestori dell’esercizio commerciale, molto noti nella comunità come pregiudicati, a non pagare la contravvenzione”. E così lo stesso Clerici a colloquio con l’allora vice segretario comunale dice: “Mi ha detto di sì il sindaco. Ha detto che noi l’autorizzazione la facciamo risultare in quella data”. La conferma arriva dalla funzionaria del comune Domenica Lugarà che sentita dai carabinieri dice: “Il sindaco Franco Pagani mi ha convocata nel suo ufficio alla presenza della titolare dell’esercizio commerciale suddetto al fine di chiarire quali fossero gli orari di apertura e chiusura vigenti in quel periodo dell’anno”.

Quotidianità, si diceva. Questa è la ‘ndrangheta che giorno dopo giorno si sta mangiando la Lombardia. Anche grazie alla politica che, pur immune da responsabilità penali come in questo caso, non si fa scrupoli a intrattenere rapporti con i clan. E così succede che il 24 agosto 2008 Angelo Clerici telefoni a Bartolomeo Iaconis per gli auguri. “Ho detto sentiamo Bartolo che fa l’onomastico”. L’uomo condannato per ‘ndrangheta ricambia e invita l’allora assessore alla cresima di suoi figlio. E’ il 13 febbraio 2010. Aggiunge particolari l’ex maresciallo Paolo Belligi sentito nel 2010 dai carabinieri: “Sono membro dell’osservatorio della sicurezza del comune di Cadorago, e l’assessore alla sicurezza è Angelo Clerici” che “abita a pochi passi dal Bulldog (…) ed è amico intimo dei titolari (…). Tutti a Cadorago sanno che Bartolomeo Iaconis è soggetto importante della criminalità organizzata”. Il boss, poi, si chiama per tutto. Anche per un consiglio nell’acquisto dell’auto alla Fino Motori di proprietà di Luca Cairoli attuale presidente del consiglio comunale a Fino Mornasco. Risponde Iaconis: “Gli dici (a Cairoli, ndr) mi ha detto Bartolino di venire qua da te per farmi fare un preventivo (…) lo conosco bene, siamo amici”. Benvenuti al nord.

Articolo aggiornato alle 01.45 dell’ 11 dicembre 2014

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/10/storia-ndrine-nord-capo-dei-vigili-abdica-boss-cadorago-ce-unaria-pesante-difficile-lavorare/1246381/

Mafia Capitale, spuntano appalti alla ‘ndrangheta. In manette uomini in contatto col clan Mancuso

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L’inchiesta su infiltrazioni criminali e corruzione a Roma si estende fino al Sud. Le coop capitoline facevano affari in Calabria al centro immigrati con la “protezione” delle ‘ndrine, in cambio i vibonesi si infiltravano negli appalti romani

ROMA – Due nuovi arresti nell’ambito dell’inchiesta mafia capitale: colpiti gli uomini che assicuravano i contatti con la ‘ndrangheta. Questa mattina il Ros ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip del Tribunale di Roma su richiesta della locale procura distrettuale antimafia, nei confronti di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, entrambi indagati per associazione di tipo mafioso nell’ambito dell’operazione “Mondo di Mezzo”.

VIDEO: L’INTERCETTAZIONE PER I RAPPORTI TRA BUZZI E I MANCUSO

Un ulteriore soggetto, indagato a piede libero e destinatario di informazione di garanzia, è stato sottoposto a perquisizione. Secondo le accuse i due assicuravano il collegamento tra alcune cooperative gestite dalla “consorteria” romana e le ‘ndrine calabresi. Gli interventi sono stati eseguiti nelle province di Roma, Latina e Vibo Valentia.

LA SCHEDA: IL PROCURATORE PIGNATONE DOPO REGGIO SCUOTE ANCHE ROMA

Le indagini hanno documentato come gli indagati, organici all’organizzazione denominata Mafia Capitale, abbiano assicurato il collegamento tra alcune cooperative gestite da Salvatore Buzzi, sotto il controllo di Massimo Carminati, e la cosca Mancuso di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Quella dei Mancuso è la cosca di matrice ‘ndranghetista egemone nel vibonese. Ed al centro dell’inchiesta c’è anche la gestione di un centro di accoglienza attivato in un villaggio a 4 stelle in provincia di Catanzaro. Un affare, così come ricostruito dal “Quotidiano” nell’edizione del 9 dicembre scorso, diretto dalla cooperativa “29 giugno” di Salvatore Buzzi, arrestato a Roma (LEGGI).

‘NDRANGHETA DA ESPORTAZIONE/1: I TENTACOLI ANCHE IN UMBRIA

‘NDRANGHETA DA ESPORTAZIONE/2: OTTO ARRESTI TRA ITALIA E USA

GLI AFFARI IN CALABRIA E GLI APPALTI CAPITOLINI – Secondo le accuse, sono emersi gli interessi comuni del sodalizio mafioso romano e di quello calabrese. In particolare, dal luglio 2014, Buzzi, con l’assenso di Carminati, avrebbe affidato la gestione dell’appalto per la pulizia del mercato Esquilino di Roma a Giovanni Campennì, imprenditore di riferimento dei Mancuso, mediante la creazione di una Onlus denominata Cooperativa Santo Stefano. L’attività di indagine ha documentato come già nel 2009 Rotolo e Ruggiero si fossero recati in Calabria, su richiesta del Buzzi, allo scopo di accreditarsi con la cosca Mancuso, tramite esponenti della cosca Piromalli di Gioia Tauro, in relazione all’esigenza di ricollocare gli immigrati in esubero presso il Cpt di Crotone.

Gli elementi raccolti dalle indagini hanno quindi documentato come Ruggiero e Rotolo abbiano fornito uno stabile contributo alle attività di mafia capitale, avvalendosi dei rapporti privilegiati instaurati con qualificati esponenti della ‘ndrangheta, in un rapporto tra le due organizzazioni mafiose che, a fronte della protezione offerta in Calabria alle cooperative controllate da Mafia Capitale, ha consentito l’inserimento della cosca Mancuso, rappresentata dal Campennì, nella gestione dell’appalto pubblico in Roma

L’INTERCETTAZIONE DI CARMINATI - «…siccome stanno aumentando i pasti mi ha detto ‘facci entrare anche la ‘ndranghetà». Lo dice Massimo Carminati in un’intercettazione del 26 maggio scorso, parlando con Paolo Di Ninno, commercialista di Salvatore Buzzi in carcere per associazione mafiosa, e Claudio Bolla, stretto
collaboratore del ras delle cooperative sociali. «Caso mai ti butto dentro una fatturina – aggiunge Carminati- sto mese per il mese prossimo…e poi con il fatto della
sovrafatturazione, quando aumentano i pasti capito…5 sacchi in più». Di Ninno risponde: «Tutto chiaro». E Carminati: «Si è tutto perfetto». Il presunto boss di Mafia Capitale secondo gli investigatori si preoccupava di trarre utili dagli affari delle cooperative di Buzzi.

In un’altra conversazione intercettata Buzzi dichiara: «…perché Claudio è cosi… ma è tremendo… ma nemmeno Sandro: gli ho visto fare una volta una trattativa con la ‘ndrangheta… ‘ce fai sparà gli ho detto… ce fai sparà…’ ndranghetisti… atrattà sui 5 lire… gl’ho detto ‘scusa chiudi chiudì, glie facevo chiudi e questo rompeva il cazzo… ce sparano sto giro… in piena Calabria!».

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/732179/Mafia-Capitale–spuntano-intrecci-con.html#.VImXujr7OzM.facebook

‘Ndrangheta al Nord, Tar conferma lo scioglimento del Comune di Sedriano

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Respinto il ricorso degli ex amministratori di centrodestra legati al sindaco Celeste, arrestato in un’operazione antimafia che aprì la strada al primo commissariamento per infiltrazioni criminali in Lombardia. I giudici amministrativi di Roma confermano il “sistema” individuato dalle indagini

Doccia gelata per l’ex sindaco Pdl Alfredo Celeste: il Tar del Lazio conferma lo scioglimento per mafia del Comune di Sedriano, primo caso in Lombardia. La sentenza del Tribunale conferma il sistema criminale di stampo mafioso che secondo le indagini per anni, sino al commissariamento su ordine del Ministero dell’Interno dell’ottobre 2013, ha influenzato l’attività amministrativa nella gestione delle casse cittadine. I primi sintomi di illegalità, per gli inquirenti, si notano già nel 2004 quando il paese era governato dal centrosinistra.

A presentare il ricorso al Tar, nel dicembre 2013, era stata la maggioranza consigliare di centrodestra: l’ex vicesindaco Adelio Achille Pivetta, gli ex assessori Silvia Rita Camilla Scolastico e Massimiliana Marazzini e gli ex consiglieri Gennario Rusciano e Silvia Stella Fagnani, moglie del medico chirurgo Silvio Marco Scalambra arrestato assieme a Celeste e al presunto boss Eugenio Costantino nell’ottobre 2012. Accusando prefettura, magistratura e Ministero dell’Interno di eccesso di potere per – a dir loro – travisamento dei fatti, nel documento indirizzato al Tar del Lazio gli ex consiglieri, assessori e vicesindaco chiedevano l’annullamento del decreto del Presidente della Repubblica con cui a ottobre dello stesso anno era stato disposto lo scioglimento del Consiglio comunale di Sedriano. Chiedevano inoltre alle autorità di essere garantiste nei confronti delle questioni sedrianesi che legavano gli Uffici a imprese inquinate.

“A Sedriano la mafia non esiste, abbiamo eliminato le prostitute dalle strade. Il mio sindaco è una brava persona”, commenta per mesi il vicesindaco Pivetta, estromesso dalla sezione locale della Lega Nord per non aver preso le distanze dall’operato della Giunta. La maggioranza consigliare, infatti, non ha mai preso le distanze da Celeste, coinvolto – si legge nella sentenza del Tar – in promesse e legami di amicizia assieme al presunto boss Costantino e al medico chirurgo Scalambra, moglie della consigliera Fagnani e supporter del sindaco, arrestato per aver offerto a politici del milanese pacchetti di voti provenienti delle cosche. Il Tar del Lazio non solo conferma lo scioglimento di Sedriano, ribadisce l’inquietante sistema criminale che per anni ha inquinato la gestione del comune di poco più di 11mila abitanti alle porte di Milano.

Lo scioglimento si basa, sottolinea il Tar nella sentenza, sulla frequentazione del sindaco e di altri membri dell’amministrazione comunale con soggetti definiti ‘controindicati’. “Tu sei il mio modello, io guardo a te e ho invidia, non c’è niente da fare”, dice l’ex sindaco Celeste, intercettato, a Costantino, la cui figlia Teresa dalla primavera 2009 è consigliera comunale. Per gli inquirenti Costantino, imprenditore di Compro oro e referente politico locale, sarebbe un procacciatore d’affari delle cosche Morabito e Mancuso, famiglie di ‘ndrangheta egemoni nel territorio sedrianese, trait d’union fra la criminalità organizzata e l’ex assessore regionale alla Casa Domenico Zambetti, arrestato e attualmente a processo per voto di scambio. “Starò sempre dalla parte della delinquenza. Sempre” afferma Costantino, il ‘belli capelli’ delle ‘ndrine lombarde.

Il Tar sottolinea inoltre come Celeste e alcuni amministratori pubblici formassero un’esplicita consorteria criminale. E poi: appalti affidati a imprese esplicitamente legate a soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, assenza di documentazione antimafia, violazione di norme di trasparenza e polizze assicurative inesistenti. Un duro colpo alla linea difensiva del professore Alfredo Celeste che, dichiarandosi innocente e urlando al complotto mediatico messo in atto da stampa, prefettura e magistratura, lo scorso settembre dalla Curia aveva avuto il permesso per ritornare sui banchi di scuola a insegnare religione. A Sedriano per anni ha governato la ‘ndrangheta, ribadisce la giustizia amministrativa. Intanto i commissari prefettizi restano al lavoro negli uffici comunali.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/09/ndrangheta-nord-tar-conferma-scioglimento-comune-sedriano/1328157/

Mafia Capitale, “Clan di Carminati da anni in affari con la ‘ndrangheta”

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È quanto scrivono i giudici del Riesame nelle motivazioni con cui hanno respinto le istanze di scarcerazione di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero (arrestati lo scorso 11 dicembre dagli uomini del Ros) ritenuti dalla Procura l’anello di congiunzione tra la ‘ndrangheta calabrese e Mafia Capitale

“Il clan di Massimo Carminati è da anni in affari con il clan ‘ndranghetista dei Mancuso di Limbadi”. È quanto scrivono i giudici del Riesame nelle motivazioni con cui hanno respinto le istanze di scarcerazione di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero (arrestati lo scorso 11 dicembre dagli uomini del Ros) ritenuti dalla Procura l’anello di congiunzione tra la ‘ndrangheta calabrese e Mafia Capitale.

Secondo le indagini della Procura di Roma il primo era dipendente della Cooperativa 29 giugno, guidata da Salvatore Buzzi (l’uomo delle coop e braccio destro di Carminati), il secondo lo era stato fino al 1999, e dal 2009 alla Roma Multiservizi spa presieduta da Franco Panzironi, ex numero uno dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, anche lui arrestato nel blitz su Mafia Capitale.

In particolare, l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino, a Roma, sarebbe stato garantito in cambio della “protezione”, in Calabria, alle cooperative della ‘cupola’ che si occupano dell’assistenza ai migranti. Secondo l’accusa, gli arrestati assicuravano il collegamento tra alcune cooperative gestite da Buzzi, sotto il controllo di Carminati (attualmente detenuto in regime di 41bis nel carcere di Parma), e la cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta, egemone nel vibonese e protagonista del narcotraffico internazionale anche grazie a legami diretti in Colombia.

Secondo i magistrati del Riesame, Carminati e Salvatore Buzzi aveva costituito la coop Santo Stefano, onlus destinata a gestire proprio l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino.

“La nascita della cooperativa – si legge nel provvedimento – avrebbe costituito la conferma del rapporto tra l’associazione mafiosa romana e il clan Mancuso che aveva già portato a proficui affari in Calabria”. Rotolo e Ruggiero “sarebbero stati di fatto accreditati su richiesta di Buzzi presso la famiglia Mancuso che come proprio referente per le attività a Roma aveva indicato l’imprenditore Giovanni Campenni“.

Già nella prima fase dell’operazione Mafia capitale era stato perquisito Campennì ed erano emersi, secondo gli inquirenti, gli interessi comuni dei due sodalizi mafiosi ed in particolare, dal luglio 2014, come Buzzi, con l’assenso di Carminati, avesse affidato la gestione dell’appalto per la pulizia del mercato Esquilino di Roma a Campennì, mediante appunto la creazione della Santo Stefano.

Rotolo e Ruggeri, secondo i magistrati del Riesame, “sono soggetti pericolosi per la collettività e da sempre gravitanti nell’ambito di organizzazioni criminali organizzate”. Nel provvedimento di oltre 40 pagine, i giudici ricostruiscono la storia criminale dei due a cui viene contestata l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Parlando di Ruggiero, in particolare, il tribunale scrive che “sin dagli anni ’90 aveva frequentazioni con elementi di spicco della ‘ndrangheta calabrese e in particolare con Girolamo Mole detto U Gangiu” mentre Rotolo “risulta collegato, e non solo per ragioni di parentela, con il clan Piromalli di Gioia Tauro“. Per il Riesame, “entrambi gli indagati trasferitisi a Roma non hanno evidentemente perduto i contatti con la criminalità organizzata calabrese tanto da avere accettato l’incarico da parte di Buzzi di prendere contatto con la cosca Mancuso di Limbadi”. Per i magistrati romani, i due “avevano a disposizione anche armi”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/09/mafia-capitale-clan-carminati-anni-in-affari-ndrangheta/1327215/

La ‘ndrangheta ormai ha ramificazioni in tutta Italia: nuove inchieste a Roma, Milano, Como, Perugia

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‘Ndrangheta a Roma, tre arresti e 100 milioni sequestrati dalla polizia

Tra i beni sequestrati una gioielleria compro oro, un’azienda di allevamento bestiame, macellazione carni e produzione di latticini, un negozio di ottica e poi conti correnti bancari e diversi immobili. Una voce importante era quella del mercato dei fiori. In manette appartenenti alle ‘ndrine Palamara – Scriva – Mollica – Morabito

Una gioielleria compro oro, un’azienda di allevamento bestiame, macellazione carni e produzione di latticini, un negozio di ottica e poi conti correnti bancari e diversi immobili, per un valore complessivo che supera i cento milioni di euro.

La polizia ha arrestato tre esponenti di vertice della ‘ndrangheta che operavano nella provincia di Roma. Si tratta di appartenenti alle ‘ndrine Palamara – Scriva – Mollica – Morabito che, secondo gli investigatori, avevano “ramificati interessi criminali e imprenditoriali nella zona Nord della provincia di Roma e nella Capitale”.

Per la Direzione Distrettuale Antimafia, che ha coordinato le indagini, gli arrestati sono responsabili di intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso. Reati commessi – secondo gli inquirenti – “per favorire la ‘ndrangheta operante in Calabria e a Roma per il controllo delle attività illecite sul territorio”.

Tra le attività sequestrate dalla squadra Mobile agli arrestati a Roma per ‘Ndrangheta una voce importante era quella del mercato dei fiori. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, infatti, gli arrestati erano in grado di controllare completamente il mercato dei fiori nella zona nord della capitale, in particolare nella zona del cimitero di Prima Porta.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/09/ndrangheta-roma-arresti-100-milioni-sequestrati-dalla-polizia/1326390/

‘Ndrangheta a Roma, svelati tre gruppi. Il gip: “Allarmante potenza di fuoco”

Un gruppo criminale autonomo, ma con radici solide nel cuore della ‘ndrangheta, San Luca. E una strategia ben chiara: “Stare sotto traccia e non mischiarsi con nessuno”. L’organizzazione colpita oggi dalla Squadra mobile e dal Gico della Finanza è la conferma della centralità di Roma nella geografia criminale

Un gruppo criminale autonomo, ma con radici solide nel cuore della ‘ndrangheta, San Luca. Una rete di ‘ndrine, che si incrociano con gli alberi genealogici delle cosche più conosciute e potenti, pronta a prendersi la capitale d’Italia. E una strategia ben chiara: “Stare sotto traccia e non mischiarsi con nessuno”. L’organizzazione colpita oggi dalla Squadra mobile di Roma e dal Gico della Guardia di finanza è la conferma della centralità di Roma nella geografia criminale italiana. Accanto alla Lombardia, alla Liguria, all’Emilia Romagna – regioni dove la presenza della ‘ndrangheta è ormai confermata da moltissimi atti giudiziari – ecco apparire nella sua chiarezza la cosca capitale. Autonoma, invisibile, ma obbediente alle formule più antiche e tradizionali. Con riti di affiliazione celebrati nelle carceri laziali o nelle periferie romane, a pochi passi dagli antichi santuari e dal Raccordi anulare.

Svelati almeno tre gruppi di ‘ndrangheta
I trenta arresti nascono da due inchieste che si sono coordinate negli ultimi due anni. La prima – condotta dalla Mobile guidata da Renato Cortese – aveva messo a fuoco l’omicidio di Vincenzo Femia, ‘ndranghetista di peso ucciso dalle parti del Divino Amore il 24 gennaio 2013. La seconda inchiesta – in mano al Gico della Guardia di Finanza, diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico – era partita da una sofisticata intercettazione di una rete segreta di BlackBerry, usata da un gruppo criminale per movimentare centinaia di chili di cocaina. Un sistema pensato per essere impenetrabile, bucato grazie ad un pin code finito nella mani dei finanzieri.

Indagini, queste, che hanno portato alla luce almeno tre gruppi di ‘ndrangheta ormai radicati e attivi nel cuore di Roma: i Pizzata-Pelle-Crisafi (formato da Giovanni Pizzata, Bruno Crisafi, Massimiliano Sestito, Gianni Cretarola, Francesco Pizzata, Antonio Pizzata, Antonio Angelo Pelle, Andrea Gusinu, Salvatore Manca, Stefano Massimo Fontolan, Mario Longo), i Crisafi-Martelli (organizzazione finalizzata alla gestione della rete del narcotraffico ramificata in Italia, Colombia, Spagna, Olanda e Marocco, costituita da Bruno e Vincenzo Crisafi, Luigi Martelli, Renato Marino, Adamo Castello) e i Rollero (costituita da Marco Torello e Andrea Rollero, Giuseppe D’Alessandri, Giuseppe Langella, Roberta D’annibale).

Il codice San Luca
Vincenzo Femia era considerato il referente dei Nirta di San Luca nella capitale. Attivo nel traffico della cocaina, commette un errore imperdonabile: staccarsi troppo dalla casa madre, quasi una replica della scelta che era costata la vita a Carmelo Novella, il boss ucciso in un bar di San Vittore Olona nel 2008. Il 24 gennaio 2013 il suo corpo viene ritrovato nella campagna a sud di Roma, a pochi passi dal santuario del Divino amore. Subito fu chiaro che quello era un omicidio più che eccellente.

A luglio, dopo pochi mesi, arriva la prima svolta nelle indagini, con l’arresto di Gianni Cretarola. Il suo è un profilo di ‘ndranghetista di peso, con alle spalle una lunga serie di reati commessi in Liguria, regione dove era cresciuto. Bastano pochi giorni di carcere e inizia a collaborare.  Poco dopo l’arresto, nella sua abitazione la Polizia sequestra un documento in codice, una serie di segni apparentemente indecifrabili. Cretarola – durante uno dei primi interrogatori – prende la penna e un foglio: “ecco la chiave”, la matrice per leggere quello che verrà ribattezzato “il codice di San Luca”. “Una bella mattina di sabato Santo – era l’incipit del documento – allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi domandarono cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore Mi dissero di seguirli che l’avrei trovato Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre del isola della Favignana”. In altre parole un estratto della mitologia ‘ndranghetista, ad uso e consumo degli affiliati.

L’affiliazione nel cuore della capitale
Cretarola racconta tutto, legami, riti, affari. Ma, soprattutto, riferisce che “la caratteristica del gruppo era la forza militare”. Tantissime le armi a disposizione, un arsenale che in parte è stato sequestrato durante le indagini e le perquisizioni scattate dopo gli arresti del 20 gennaio. Disegna, poi, l’organigramma preciso della ‘ndrina: “Giovanni Pizzata era “capo società”, Massimiliano Sestito “contabile”, e lui il “mastro di giornata”. Recita a memoria – nei suoi interrogatori – la formula di affiliazione che ha imparato nel carcere di Sulmona, dove è formalmente entrato nell’organizzazione: “Buon vespro, siete conformi?…a battezzare il locale e formare società”), quindi battezzò il nuovo affiliato (“se loro battezzavano co’ ferri, catene e camicie di forza io battezzo co’ ferri, catene e camicie di forza. Se loro battezzavano co’ gelsomini e fiori di rose in mano io battezzo con gelsomini e fiori di rose”. Rito che ricalca alla perfezione le formule raccontate in centinaia d’inchieste calabresi. Accanto alla potenza di fuoco, ecco dunque apparire – nel cuore della capitale d’Italia – l’essenza stessa della ‘ndrangheta, il patto di sangue, l’affiliazione con l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo. Il legame con San Luca, ovvero la mafia calabrese che fattura miliardi di euro, superando di gran lunga le principali aziende italiane.

Il killer di Femia affiliato in carcere a Sulmona
Cretarola ha spiegato poi ai magistrati che il suo ingresso nella ‘ndrangheta ha avuto la particolarità di vedere tre padrini di tre diverse province, dandogli un lasciapassare riservato a pochi. Quando il pm gli ha chiesto se era stato “affiliato formalmente alla ‘ndrangheta?” Cretarola dice: “Certo, certo, certo”. Affiliazione avvenuta “in carcere a Sulmona nel 2008 da Massimo Sestito, Fedele Rocco e Bono Michele”. Alla domanda del pm sulla provenienza Cretarola risponde: “di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Rocco Fedeli e Serra San Bruno – Bono Michele e Massimo Sestito – Gagliato, fa riferimento a Gagliato nonostante è nato a Milano. La conclusione degli inquirenti che si stratta di “tre famiglie, addirittura di tre zone diverse“. Sì, “per avere la possibilità di muoversi in tutte le province ed essere riconosciute in tutte le province” la spiegazione.

Il gip che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare non ha dubbi: a Roma agiva un “nucleo operativo e direzionale convergente, “rappresentato da soggetti di elevatissimo spessore criminale di ascendenza ‘ndranghetistica, stabilmente dediti al traffico internazionale di stupefacenti ai massimi livelli, e caratterizzato, nel contempo, oltre che dal qualificato contesto criminale di appartenenza, dalla disponibilità di armi e da allarmante potenza di fuoco”. Benvenuti a Roma, provincia di San Luca.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/20/ndrangheta-roma-svelati-gruppi-gip-allarmante-potenza-fuoco/1354194/

‘Ndrangheta, a Milano comandano le grandi famiglie della malavita calabrese

Anni di carcere sul curriculum, legami con i più importanti clan nazionali e internazionali, traffico di armi, droga e omicidi. Le cosche calabresi di Milano hanno contatti e sanno muoversi. Da uomini liberi

Ama i casinò e i bei vestiti. Nasce a San Luca nel cuore dell’Aspromonte, ma è a Milano che tesse business e rapporti. Dalla Calabria però si porta in dote una relazione privilegiata con la cosca di Sebastiano Romeo detto u Staccu. In curriculum mette anche qualche anno di università. Da qui il soprannome di Dutturicchiu. Giuseppe Calabrò, classe ’50, è uno dei dieci uomini d’oro che sovraintendono gli affari nel capoluogo lombardo. Tutti hanno contatti e sanno come muoversi. Sulle spalle portano decenni di carcere. Oggi, però, sono uomini liberi, nonostante molti dei lori nomi compaiano nelle carte delle ultime inchieste dell’antimafia. Vivono da fantasmi e sfuggono agli arresti. Stanno lontani dai reati e utilizzano poco il telefono. S’incontrano per strada o negli uffici. I salotti buoni li accolgono a braccia aperte. La politica li invita a cena. Nei quartieri della mala il loro nome è sinonimo di rispetto. Mafiosi di rango, certificati dalle sentenze dei giudici e da recentissime informative della polizia giudiziaria. Siciliani, ma soprattutto calabresi perché come spiega il 59enne broker della coca Marcello Sgroi “A Milano comanda la ’ndrangheta”.

Kalashnikov e Uzi – Ore 15 del 25 maggio 2012 via Oldrado de Tresseno zona viale Monza. U Dutturicchiu attende in strada. Suona il cellulare. La telefonata dura nove secondi. Giusto il tempo perché l’interlocutore confermi l’appuntamento. Non è la prima volta, è già successo e sempre in questa strada privata non lontana dalla stazione Centrale, dove il cellulare di Calabrò viene agganciato diverse volte dagli investigatori. Chi chiama è Giulio Martino, uomo del clan Libri, gregario di lusso dell’ergastolano Mimmo Branca. I due discutono di armi e di droga da trafficare dal Sudamerica direttamente nel porto di Gioia Tauro. Calabrò ha una partita di Kalashnikov e Uzi. Li tiene ad Arma di Taggia e vuole portarli a Milano. Martino interessa il suo factotum Eddy Colangelo, ex trafficante oggi collaboratore di giustizia. È lui che fa il nome di Calabrò. Lui che con le sue confessioni svela i traffici del clan Martino coinvolto nell’operazione Rinnovamento del 16 dicembre scorso. Racconta Colangelo: “Giulio Martino mi dice che c’era da fare un favore al vecchio. Con tale soprannome noi ci riferivamo a Beppe Calabrò”. Spiega: “Io lo avevo conosciuto nel 1999 a San Vittore, me lo avevano presentato i fratelli Martino (…). In carcere si sentiva parlare di lui come di una persona importante. Lo rividi molti anni dopo nel 2011, in compagnia di Giulio Martino”. Uomini liberi si diceva. Tale è oggi Calabrò, il quale non risulta indagato nell’ultima inchiesta della Dda milanese. Prosegue Colangelo: “Giulio Martino mi parlava di costui come di una persona che era uno molto importante in Calabria”. Chi è realmente u Dutturicchiu lo mettono nero su bianco i carabinieri per i quali le parole di Colangelo “confermano lo spessore criminale di Giuseppe Calabrò (…) personaggio di spicco della ‘ndrangheta”. Il suo nome è collegato anche al malavitoso serbo Dragomir Petrovic detto Draga. Il serbo, intercettato dalla Guardia di Finanza nell’ottobre 2013, discute di un traffico di droga assieme a Roberto Mendolicchio, fratello di Luigi già luogotenente di Mimmo Branca e attuale ras della zona di piazza Prealpi. Per il carico i due fanno riferimento allo stesso Calabrò, il quale, ancora una volta, non risulta coinvolto penalmente nella vicenda.

Contatti e relazioni. Così se nel 2012 Calabrò incontra gli uomini di Mimmo Branca, il suo nome compare già in alcune informative del 1990. Si tratta dell’indagine Fior di Loto dove viene descritto “come personaggio dotato di una forte potenzialità criminale” in contatto con Santo Pasquale Morabito, altro boss alla milanese, originario di Africo e legato al padrino ergastolano Giuseppe Morabito alias u Tiradrittu. Dopo quasi 30 anni di galera, oggi Santo Pasquale è tornato in libertà. La sua scarcerazione risale al febbraio scorso. Attualmente abita in una zona residenziale della città e non risulta indagato in nessuna inchiesta. A metà degli anni Novanta ecco cosa scrive di lui la Criminalpol: “Santo Pasquale Morabito, per il suo modo di essere, di atteggiarsi e per i riguardi che gli sono riservati dai suoi interlocutori ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango. E ciò anche in relazione alla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico, con l’acquisizione di attività imprenditoriali, e negli organi istituzionali e rappresentativi”. Da quell’indagine emergono, netti, i legami con Calabrò. Più volte i due, intercettati, discutono di armi e di droga. Addirittura, ricostruiranno gli investigatori, progettano un agguato all’allora capo della polizia Vincenzo Parisi.

Durante quei colloqui negli uffici della Loto Immobiliare, impresa mafiosa a due passi dal Tribunale, c’è Pietro Mollica, anche lui di Africo, cugino di Santo Pasquale Morabito. Mollica oggi è un cittadino libero. E nonostante questo mantiene stretti rapporti con la malavita. Tanto che nel marzo 2012, la Guardia di Finanza filma un incontro di altissimo livello ai tavolini del bar il Borgo di via San Bernardo 33 a Milano. Oltre al cugino di Morabito, i militari fotografano Mario Trovato, fratello dell’ergastolano Franco Coco Trovato. Oggi Santo Pasquale Morabito conduce una vita riservata, periodicamente si reca al commissariato per la firma di rito, s’incontra con i vecchi amici. Tra questi il cugino Pietro Mollica. Basso profilo, dunque, e la solita grande passione per gli orologi di lusso. E se Santo Pasquale Morabito è tornato in libertà, un altro uomo del clan è in fuga dal 1994. Rocco Morabito, detto u Tamunga, è inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi. Ricercato per mafia, è considerato un broker della droga di altissimo spessore. Ultima residenza nota: via Bordighera 18 a Milano. Da sempre u Tamunga è considerato l’alter ego di Domenico Antonio Mollica, trafficante legato ai servizi segreti militari. In città, dunque, gli uomini della cosca Morabito tornano in pista. Il clan, infatti, non è stato coinvolto nelle recenti inchieste dell’antimafia. L’ultima indagine risale al 2006. Si tratta dell’operazione For a King che ha fotografato l’infiltrazione della ’ndrangheta di Africo all’interno dell’Ortomercato di Milano e i rapporti con l’attuale consigliere regionale del Nuovo centrodestra Alessandro Colucci (mai indagato).

Occhio al passato – E così per capire il presente bisogna conoscere il passato. Dal passato arriva Giuseppe Ferraro alias il professore. Classe ’47 da Africo Nuovo, il professore oggi gestisce una lavanderia in via Amadeo. Nel 1984 la squadra Mobile scrive come fosse “legato al fratello Santo Salvatore e ad altri pregiudicati calabresi in relazione a traffici illeciti, in particolare commercio di stupefacenti ed estorsioni”. Recentemente il suo nome, mai iscritto nel registro degli indagati, è emerso nell’inchiesta dei carabinieri che ha portato in carcere l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. In particolare Ferraro viene allertato da Pino d’Agostino, altra eminenza grigia della cosca in riva al Naviglio, per procurare voti certi al candidato di riferimento. La contabilità degli affari malavitosi passa anche e soprattutto per le zone a sud di Milano. Qui l’alto commissariato del crimine è rappresentato dagli uomini e dalle donne della cosca Barbaro-Papalia, il cui organico è tornato a ingrossarsi dopo che la maxi-inchiesta Parco sud è recentemente naufragata in Cassazione scagionando dall’accusa di mafia diversi personaggi. Su tutti: Salvatore Barbaro e Domenico Papalia, figlio del boss ergastolano Antonio Papalia. Giovani leve sulle quali si accendono di nuovo i riflettori. E nonostante questo, attualmente equilibri, decisioni, affari sono in mano a due vecchi luogotenenti del clan. Il primo è Domenico Trimboli, detto Micu u Murruni, classe ’59 e una nobile parentela con il vecchio cda della ’ndrangheta al nord rappresentato dalla famiglia Papalia.

Il ruolo di primo piano di Trimboli emerge netto dall’indagine Rinnovamento, quando il reggente della cosca viene contattato dagli uomini del clan Libri, i quali chiedono un incontro. Il 16 luglio 2013 l’appuntamento è fissato ai tavolini del bar Clayton di via Volta a Corsico. A Trimboli, che non risulta indagato, viene chiesto di appoggiare l’azione di protezione nei confronti di un imprenditore milanese minacciato da un gruppo di siciliani. Trimboli, definito “personaggio di spicco della criminalità organizzata calabrese”, viene scarcerato nel 2009 e subito decide di tornare nella sua residenza di via Milano a Corsico. Nell’appartamento spesso alloggia Antonio Papalia, classe ’75, trafficante di droga, il quale, negli anni Novanta, aveva progettato di uccidere l’attuale procuratore aggiunto Alberto Nobili. Dopo Murruni, nel 2012 torna in libertà un altro pezzo da novanta. Si tratta di Rocco Barbaro, classe ’65, detto u Sparitu. Come il primo anche lui sceglie una residenza milanese in via Lecco a Buccinasco. Attualmente non risulta indagato. Le intercettazioni dell’indagine Platino ne tracciano la figura. Parla Agostino Catanzariti, reggente arrestato nel gennaio 2014 e recentemente condannato a 14anni. Dice: “Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti”. Per i carabinieri il senso è chiaro: Rocco Barbaro è l’attuale referente di tutta la ’ndrangheta lombarda. E lo è “per regola”, visto che è figlio di Francesco Barbaro detto Ciccio u Castanu, classe 1927, “una delle figure più importanti di tutte le ‘ndrine platiote”.

Arriva anche Cosa nostra – Milano capitale di ’ndrangheta, ma non solo. Attualmente, infatti, diversi esponenti di Cosa nostra sono tornati in libertà o stanno per essere scarcerati. Si tratta di nomi storici da sempre in affari con le ’ndrine. Tra questi Antonino e Carlo Zacco, padre e figlio. Il primo soprannominato Nino il bello, negli anni Novanta viene coinvolto nell’inchiesta Duomo connection mentre in Sicilia lavora nella grande raffineria di Alcamo. Da sempre è in contatto con la ’ndrangheta a sud di Milano. Suo figlio Carlo, non indagato, viene citato nell’ultima indagine sui fratelli Martino. In particolare viene coinvolto dal clan nella vicenda della protezione da dare a un imprenditore sotto scacco da un gruppo di catanesi. All’incontro Carlo Zacco, scrivono i carabinieri, si presenterà armato. In attesa di concludere una carcerazione trentennale è invece Antonino Guzzardi, broker della droga legato ai corleonesi Ciulla, in rapporto con i cartelli colombiani e in passato vicino a Pablo Escobar.

Giocano forte gli uomini d’oro del crimine alla milanese. Incrociano inchieste, ben attenti a non inciampare in reati penali. Liberi si muovono da fantasmi. Nella Milano dell’Expo e dei quartieri popolari: dal Corvetto a Quarto Oggiaro, fortino dello spaccio svuotato dalle inchieste e oggi controllato da personaggi storici come Luigi Giametta. Ultimi sopravvissuti dopo la mattanza dell’inverno 2013, quando Antonino Benfante ha sterminato il clan Tatone. Benfante lo chiamano Nino Palermo. Testa criminale e una sola strategia: “Bacia le mani a chi le merita tagliate”. Benvenuti in città.

da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio 2015

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/06/ndrangheta-milano-grandi-famiglie-legate-calabresi/1318389/

’Ndrangheta a Milano, sessanta arresti: “Le mani dei clan sul catering allo stadio Meazza”

Implicato l’imprenditore Sala, responsabile della ristorazione di San Siro per l’Inter: era al servizio dei boss per la concessione di appalti. La Dda: agli indagati 140 imputazioni

Cercava di mettere le mani anche sul servizio catering per le partite del Milan allo stadio San Siro, attraverso un imprenditore legato alla ’ndrangheta, una cosca radicata a Milano e smantellata stamani da un’operazione dei carabinieri, coordinati dal procuratore aggiunto della Dda milanese Ilda Boccassini e dai pm Marcello Tatangelo e Paola Biondolillo. In carcere sono finite 58 persone, due arrestate in flagranza e le altre in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta dal gip Gennaro Mastrangelo.

Dall’indagine è emerso uno «spaccato di vita criminale che a Milano non si registrava da vent’anni», dall’epoca delle ultime maxi-inchieste antimafia nel capoluogo lombardo, fatto di estorsioni, traffico di droga e imprenditori che «da vittime diventavano organici» alla criminalità organizzata. L’operazione ha portato all’arresto con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso di Giulio Martino, il presunto capo dell’organizzazione legata alla cosca di Reggio Calabria Libri-De Stefano-Tegano e radicata nei quartieri milanesi tra piazza Prealpi e viale Certosa che tra gli anni ’80 e ’90 era guidata dal boss Domenico Branca, poi condannato all’ergastolo. In manette anche i fratelli di Giulio Martino, Domenico e Vincenzo, un carabiniere del Nucleo tutela del lavoro, Carlo Milesi, un ex poliziotto, Marco Johnson, i titolari di alcune attività e un imprenditore del settore della ristorazione, Cristiano Sala. Imprenditore, fondatore della holding “Maestro di casa”, fallita nel 2010, che attraverso un’altra impresa ha cercato di aggiudicarsi il servizio di catering allo stadio San Siro per la stagione 2014-2015 “screditando” un’azienda concorrente, la It Srl, di fronte alla società appaltante, la Milan entertainment.

Sala avrebbe corrotto con mille euro il carabiniere Carlo Milesi per redigere un’informativa, poi trasmessa in Procura, in cui si segnalava falsamente che la società che gestisce il catering utilizzava lavoratori in nero. Milesi ha quindi disposto un’ispezione nei bar dello stadio durante la partita Milan-Roma del 16 dicembre 2013. Poi ha incontrato alcuni dirigenti del Milan, risultati completamente estranei ai fatti, tra cui uno dei componenti del cda rossonero, Alfonso Cefaliello, con l’obiettivo, si legge nell’ordinanza del gip, di «convincere la società a non rinnovare il contratto con la It Srl e così consentire a Sala di ottenere con le sue società di catering il lucroso appalto».

Un tentativo bloccato dall’inchiesta della Procura di Milano. L’organizzazione, oltre a controllare attività imprenditoriali, secondo le accuse di occupava anche di estorsioni e traffico di droga. L’inchiesta è partita nell’aprile 2012 da un’intimidazione, sei colpi di pistola sparati contro un’auto posteggiata, ai danni di un commerciante di auto a Sedriano (Milano), primo Comune lombardo sciolto per infiltrazioni mafiose. L’operazione ha portato quindi al sequestro di armi e, nel settembre 2013, di 300 chilogrammi di cocaina a Genova.

Tra gli episodi emersi dall’inchiesta, il titolare di una concessionaria automobilistica di Milano che si era rivolto alla ’ndrangheta per opporsi alle pretese di un creditore, che a sua volta si era affidato a Cosa Nostra. Oppure il proprietario di una sala bingo di Reggio Calabria che si era appoggiato alle cosche per aprire un locale a Cernusco sul Naviglio, nell’hinterland milanese. Gli interessi dell’organizzazione si estendevano anche a Sanremo e Ventimiglia dove, ha affermato Giulio Martino in una conversazione intercettata nell’agosto 2013, si troverebbe «la camera di controllo di tutta la Liguria» per quanto riguarda le attività della `ndrangheta. Oggi alcuni degli arrestati sono comparsi davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia. «È da vent’anni – ha spiegato il generale Maurizio Stefanizzi, comandante provinciale dei carabinieri di Milano – che non c’erano operazioni di questo tipo in città». Le ultime maxi-operazioni hanno decapitato infatti le locali di ’ndrangheta radicate fuori Milano, nell’hinterland e in Lombardia.

http://www.lastampa.it/2014/12/16/italia/cronache/ndrangheta-arresti-nella-cosca-calabrese-attiva-a-milano-YMb4pb2y3jYIa84h3FXMyH/pagina.html

Il trafficante della ‘ndrangheta che viaggiava con voli low cost

operazione «rinnovamento»
 Arrestato in Bulgaria Zdravko Ivanov, uomo di riferimento delle cosche per il narcotraffico
di Andrea Galli

I viaggi in aereo da Sofia, la sua capitale, a Orio al Serio con la compagnia low cost Wizzair; i pranzi al ristorante «Primo Gusto» di via Cenisio; le dormite all’hotel Sempione Fiera. Questa era la Milano anonima di Zdravko Ivanov, 39 anni, che faceva di tutto per esserci ma nel contempo passare inosservato. Nella vita Ivanov con poca fantasia soprannominato il francese per qualche parola (davvero due in croce) utilizzata durante le telefonate, si occupava di droga. Ad alti livelli. Era punto di riferimento per lo spaccio di centinaia di chilogrammi di cocaina e marijuana. Lo faceva per conto del cartello di ‘ndrangheta sgominato la scorsa settimana dai carabinieri coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia.

La caccia all’Est

Ivanov è il penultimo arresto. In tutto, le catture sono state 60. All’appello ne manca soltanto uno, un altro bulgaro con un profilo criminale leggermente superiore e infatti capo di Ivanov. Ma tanto non è escluso che con lui finisca come con il socio, stanato in Bulgaria, dov’era scappato di corsa, e adesso in cella nell’attesa dell’estradizione. Il fronte dell’Europa orientale, da dove arrivava la droga (nascosta a bordo di camion) non era l’unico utilizzato dalle cosche, cosche capeggiate dal clan Libri, potente, attivo nelle guerre di ‘ndrangheta in Calabria, con una forte vena imprenditorial-mafiosa e con presenze pesanti a Milano fin dagli anni Novanta. I canali con il Sudamerica garantivano l’importazione di quintali di stupefacente che arrivava a destinazione nei porti (Genova e Gioia Tauro).

Gli imprenditori schiavi

Le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri comandati dal tenente colonnello Alessio Carparelli si sono concentrate sul narcotraffico, sulle strategie dei clan e sullo loro azioni di stampo classico (attentati incendiari, estorsioni, usura), ma anche e forse soprattutto sui legami con gli imprenditori che, com’è ormai tendenza diffusa a Milano, prima chiedono aiuto alla ‘ndrangheta e poi ne diventano schiavi e a volte anche alleati. Prendiamo ad esempio Cristiano Sala, milanese, 38 anni, altrimenti detto «il re del catering» per il settore nel quale operava, grazie alla società aperta dal padre che aveva rilevato. Non spiccava certo per qualità imprenditoriali, Sala, visto che aveva presto distrutto l’impero ereditato. Eppure era riuscito a infilarsi nei grandi appalti (le partite del Milan allo stadio Meazza) e puntava al servizio di catering e ai ristoranti dei padiglioni dell’Expo (continuano gli accertamenti dei carabinieri).

24 dicembre 2014 | 14:56

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_dicembre_24/trafficante-ndrangheta-che-viaggiava-voli-low-cost-6131a21e-8b72-11e4-9698-e98982c0cb34.shtml

La ’ndrangheta ormai ci ha invaso. Abbraccio mortale con le imprese

L’analisi sul territorio di Alessandra Dolci, magistrato antimafia
di Paola Pioppi

Como, 29 dicembre 2014 - Oltre 400 episodi intimidatori avvenuti sul territorio di Como tra 2008 e 2014. Sono stati raccolti dall’Osservatorio creato dalla Dda di Milano per monitorare il fenomeno, e tutti sono accadimenti potenzialmente riconducibili a una matrice criminale associazionistica.

Per quanto riguarda il Comasco, relativamente alle minacce più frequenti, in 270 casi si parla di incendi dolosi, seguiti da 43 esplosioni di arma da fuoco. Modalità a cui fanno seguito 19 recapiti di proiettili, 17 danneggiamenti su auto, e 16 minacce telefoniche. In un caso, è stato inoltre segnalata un’uccisione di animale.

Il riferimento più frequente, è a titolari di aziende o imprese economiche, ma in alcuni casi anche professionisti. La casistica venuta alla luce grazie alle denunce, o anche alle semplici segnalazioni delle forze di polizia, in 37 casi è legata alle imprese di movimento terra: 15 bar e locali notturni, 13 edilizia, 12 servizi e 5 del settore rifiuti.

Passa da qui il “capitale sociale” della ‘ndrangheta, come emerso dalle ultime indagini in materia di criminalità organizzata, tra cui la recentissima “Insubria”, che ha individuato tre ulteriori locali – a Cermenate, Fino Mornasco e Calolziocorte – che si aggiungono alle 15 della precedente operazione Infinito. «È la capacità di creare legami con la società civile – spiega Alessandra Dolci, magistrato milanese per anni in forza alla Dda, e ora applicata alle misure di prevenzione – sono legami di reciproco interesse, e coinvolgono forze di polizia, qualche magistrato, medici, liberi professionisti, ma soprattutto imprenditori.

In quest’ultimo caso, è un legame perverso: si parla spesso di infiltrazioni nel tessuto economico, come se fosse una forzatura del male in un contesto che oppone resistenza. Ma questo non è vero: abbiamo decine di esempi di imprenditori che vanno alla ricerca del mafioso con cui relazionarsi».

I motivi sono diversi: la paura per se stessi o i propri familiari, il timore per i beni o le attività economiche.

Ma le indagini hanno anche evidenziato la convenienza di questi rapporti reciproci tra malavita a imprenditoria, dove i titolari di attività produttive ed economiche sono convinti di poter ricavare vantaggi da questo genere di alleanze. Si rivolgono così a chi è notoriamente vicino alla ‘ndrangheta per la riscossione dei crediti, soprattutto quando questa sofferenza economica mette l’azienda a rischio di fallimento.

Tuttavia, il compenso preteso dal contesto criminale, non è solo la percentuale del credito recuperato. L’obiettivo è ben più alto: creare rapporti che possano portare a vantaggi futuri. Creare un monopolio di imprese riconducibili alla ‘ndrangheta. Un fine per il quale la criminalità, oltre ad accogliere a braccia aperte chi chiede aiuto, cerca anche di imporsi su vasta scala, attraverso le estorsioni nelle tante modalità messe in campo. Arrivano così gli avvertimenti intimidatori, per creare nell’imprenditore la necessità di ottenere protezione, che sono seguiti a stretto giro dalla proposta concreta di chi si fa avanti per fare da mediatore.

Secondo il sociologo Diego Gambetta, “la mafia è l’industria della protezione privata”. Questa definizione, che corrisponde al binomio estorsione-protezione, secondo Alessandra Dolci, «è la modalità più frequente in Lombardia».

http://www.ilgiorno.it/como/ndrangheta-imprese-mafia-1.531491

Le mani di ‘ndrangheta e mafia albanese su Perugia

Droga e armi. L’inchiesta che ha appena portato a 54 arresti nella città umbra

Carmine Gazzanni e Alessia Chiriatti

Sotto l’ala del Grifo si nasconde la mano della ‘ndrangheta calabrese. Una spaventosa “holding del malaffare” quella scoperta due settimane fa dai carabinieri di Perugia, che ha portato a 54 arresti e un sequestro di beni per 30 milioni di euro. Così viene definito il sistema messo in piedi dalla criminalità organizzata nella insospettabile Umbria. Un sistema costruito ad arte su minacce, estorsioni e usura con tassi al 10 e al 20% e che si serviva «della copertura garantita dalle imprese sottoposte a estorsione per acquisire appalti e/o sub appalti nel settore edile e del fotovoltaico».

Gli atti di intimidazione sono quelli “classici”. Dalle auto incendiate fino alla testa di agnello davanti casa. «Mi hanno detto – si legge in una delle tante dichiarazioni raccolte nell’ordinanza – che era meglio aderire alle loro richieste per evitare che potesse accadermi qualcosa di brutto, come succede in Calabria. Mi facevano presente che giù in Calabria è accaduto tante volte che qualcuno sparisce e i familiari lo cercano e non lo trovano più. Mi parlavano con un linguaggio mafioso». Si presentano così i malavitosi perugini, dai forti legami con le famiglie di origine, con un linguaggio che rievoca colate di cemento e pallottole sparate. Ma accanto alle intimidazioni c’è pure lo spaccio.

Non poteva essere altrimenti, d’altronde, nella città che già da tempo la Dia ha definito “crocevia” del traffico di stupefacenti. Eppure un aspetto che finora non emerso è proprio il massiccio controllo e la capillare gestione del mercato di droga che partiva da Ponte San Giovanni per ramificarsi appunto a Perugia e nelle regioni circostanti. Il tutto condito da una strettissima alleanza. Quello che infatti emerge dalle carte è un vero e proprio sodalizio che si era creato tra famiglie calabresi e clan albanesi.

IL SISTEMA – La cocaina a Perugia c’è, si spaccia e si consuma. E non è dunque solo appannaggio dei nordafricani, il cui canale preferito è quello camorrista, che viaggia sulla E45, giungendo da Napoli, da Cesena o dagli aeroporti internazionali vicini. Nelle intercettazioni i calabresi la chiamano “neve”, “schioppo”, “ragazzetti” da portare a cena e da dividere prima di smerciarla. La nascondono nel riso, «perché si mantiene meglio». A capo del sistema Cataldo Ceravolo, ritenuto dagli inquirenti il “boss” della criminalità perugina, insieme a Cataldo De Dio e Vincenzo Martino. Ma non è tutto. Secondo quanto appurato dagli inquirenti, infatti, spunta una «una sinergia fra il sodalizio indagato e cittadini albanesi stanziati sul territorio perugino».

Il rifornimento avveniva sulla linea direttrice Napoli-Umbria. In un’intercettazione è lo stesso Ceravolo ad affermare: «andiamo a Napoli e la carichiamo». Né è un caso che tra gli arrestati anche Bledy, «un tizio che veniva chiamato ‘lo zio’». Un «albanese di Napoli», come lo si definisce in un’intercettazione, per il lungo periodo passato in Campania. Un periodo che gli aveva permesso, ora, di fare da collante tra le vecchie e le nuove amicizie. Il centro di raccordo era il bar “Apollo 4” di Ponte San Giovanni, gestito da Salvatore Facente e da Letizia Gennari (compagna di Cataldo De Dio). Tutti potevano tranquillamente recarsi lì e fare “compere”. L’importante, per calabresi e albanesi, era vendere.

Le cose cambiavano quando uno non pagava. Si poteva aspettare qualche tempo (ma ovviamente gli interessi crescevano), finchè poi non cominciavano – anche qui – le vere e proprie minacce. Come capitato a uno degli acquirenti, Vladimiro Cesarini, che aveva accumulato un debito di 6mila euro. Avrebbe avuto bisogno di più tempo. Ma gli albanesi non glielo consentono tanto che, come risulta dalle intercettazioni, si barrica in casa «chiuso» perché «teme per la sua incolumità». Alla fine Cesarini riesce a pagare. Prendendo spunto dai suoi stessi strozzini: estorcendo a sua volta il datore di lavoro, dicendogli che «lo avrebbe sparato con il fucile».

“PERCHÉ NON FACCIAMO UN LABORATORIO?” – Un sistema, dunque, vasto e articolato. Talmente vaso che l’idea, stando alle intercettazioni, era quella di ampliarsi ulteriormente. Di tecnologizzarsi. In un’intercettazione, infatti, altri due affiliati, il cirotano Natalino Paletta e il crotonese Francesco Manica (entrambi impiantati da anni a Perugia) dialogano della possibilità di organizzare un laboratorio per la preparazione di cocaina chimica con l’ausilio di un terzo, un “amico” colombiano: «chimicamente, hai capito qual è il discorso? – dice Manica – la vendiamo a 80 euro Nata (Natalino Paletta, ndr)… allora ti vuoi fare il laboratorio?».

L’idea, insomma, è quella di espandersi. Soprattutto per meglio fornire il mondo dabbene del perugino che si riforniva da calabresi e albanesi (spuntano tra le dichiarazioni anche proprietari di alberghi, piccoli imprenditori, uomini d’affari). Senza, ovviamente, dimenticare la rete di pusher minori che arrivava fino al mondo universitario.

L’OMICIDIO POLIZZI – Non solo. Nelle intercettazioni compaiono anche due nomi già tristemente noti alla cronaca perugina e italiana: sono Julia Tosti e Valerio Menenti, rispettivamente la fidanzata e il tatuatore presunto mandante dell’omicidio di Alessandro Polizzi, ucciso nell’appartamento di Via Ricci mentre era con la sua ragazza. I loro nomi spuntano proprio in riferimento al traffico di droga nel perugino gestito da Ceravolo.

La stessa Tosti, in una sua dichiarazione del luglio 2013, dichiara: «posso dire che a volte ho acquistato la cocaina da un tale Cataldo (Ceravolo, ndr), un uomo calabrese, che abita a Ponte San Giovanni (…). Ho conosciuto Cataldo perché me lo ha presentato Valerio. In alcune circostanze, in periodo compreso fra l’estate scorsa e l’ottobre-novembre scorsi, mentre avevo una relazione con Valerio, (i due ragazzi infatti convivevano, ndr) sia io che Valerio abbiamo acquistato cocaina da lui». Julia racconta anche del loro consumo di cocaina, dai 2 ai 5 grammi la volta, per un prezzo di 80 o 90 euro al grammo. E parla anche delle intimidazioni che Valerio riceveva, con l’auto rigata per i debiti accumulati nel tempo.

LA RETE PARALLELA E IL TRAFFICO DI ARMI – Ma non è finita qui. «L’attività di indagine – scrivono gli inquirenti – ha altresì consentito di individuare una diversa organizzazione», composta da albanesi e dagli italiani Simone Verducci e Michaela Cavalieri (che peraltro veniva sistematicamente picchiata da Verducci – le aveva rotto anche il naso – il quale in alcune circostante l’aveva letteralmente “imprigionata” in casa). Questa rete parallela, si legge ancora nell’ordinanza, «riforniva di droga e di armi l’organizzazione di matrice ‘ndranghetista riconducibile a Ceravolo Cataldo, Martino Vincenzo Mario, De Dio Cataldo ed altri sodali, dall’altro risultava effettuare per proprio conto attività di cessione di cocaina a terzi».

Insomma, accanto al traffico “ufficiale”, ce n’era anche un altro parallelo messo in piedi in prima linea da albanesi e calabresi insieme. Non è un caso che in una delle tante dichiarazioni rilasciate da coloro che si rifornivano dai calabresi, si legge che Verducci «dalla fine del 2012 si era messo in affari con alcuni albanesi che trafficavano con lui nella droga». «Personaggi pericolosi», vengono definiti. Ma questo non spaventa Verducci, tanto che diceva in giro di averceli in pugno. Tutti sotto il suo controllo, dunque. Il che non era cosa da poco dato che gli albanesi avevano un potere enorme in mano.

Uno degli arrestati, Ervis Lyte, in una conversazione telefonica con Ceravolo, dice addirittura che, quando era stato in carcere, riusciva a procurarsi la droga anche lì, tramite un afgano. Che Ervis fosse un tipo pericoloso, d’altronde, lo si capisce anche dall’arsenale a sua disposizione. Un arsenale che gli permetteva di fare soldi anche con il traffico di armi. C’è, nell’ordinanza, un intero capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In un’intercettazione è Vincenzo Martino ad affermare di avere nella sua disponibilità (e in quella dell’organizzazione) numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto veniva intavolata sempre con Lyte per l’enorme possibilità di acquisto che offriva. Non solo pistole o fucili. Ma anche lo “sniper” o la TT-33 Tokarev, arma da guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la ‘ndrangheta. Soprattutto in Calabria. Martino lo dice chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».

I RAPPORTI CON LA CASA MADRE – Uno degli aspetti maggiormente di peso che emerge dalle carte perugine, però, è l’autonomia di gestione assicurata alla consorteria ‘ndranghetista installatasi in Umbria. Ovviamente, però, i rapporti con la Calabria erano più che frequenti: «è stato documentato nel corso dell’indagine – scrivono gli inquirenti – come la consorteria di tipo ‘ndranghetista operante in Umbria mantenga contatti qualificati, specie attraverso Paletta Natalino e Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr), con autorevoli esponenti della ‘ndrangheta di Cirò». Parliamo soprattutto della famiglia dei Farao, il cui esponente di vertice, Giuseppe, è condannato all’ergastolo ed attualmente detenuto in regime di 41 bis.

Non è un caso allora che «ogni qualvolta Farao Vittorio si reca a Perugia, e ciò avviene con costante periodicità, è spesso in compagnia o del fratello Vincenzo o degli omonimi cugini Farao Vittorio e Farao Vincenzo (entrambi figli di Farao Giuseppe) e si incontra con Paletta Natalino, Murgi Natale (entrambi arrestati, ndr) ed altri componenti dell’associazione operante in Perugia». In un’intercettazione, d’altronde, è Cataldo Ceravolo stesso a parlar chiaro: i Farao salgono per «riscuotere». E, anche in questo caso, c’era il luogo apposito, di rito. Un pub in pieno centro a Perugia. In una traversa del famoso Corso Vannucci. Un pub spesso popolato da studenti. Mentre a un tavolo, in silenzio, la locale di ‘ndrangheta faceva affari, vendeva armi, smerciava droga.

http://www.linkiesta.it/perugia-ndrangheta-criminalita-albanese

‘Ndrangheta, colpo ai Tegano: 25 arresti. Ricostruiti legami della cosca con politici

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Con l’inchiesta “Il Padrino”, la Squadra mobile e la Dda di Reggio Calabria ha individuato i presunti componenti della potente famiglia collegata ai De Stefano e l’interessamento di uno dei fermati nei confronti dell’ex consigliere regionale del Pd Nino De Gaetano, per le regionali del 2010

‘Ndrangheta, affari e politica. C’è tutto questo nell’operazione “Il Padrino” scattata a Reggio Calabria mercoledì 10 dicembre all’alba e che ha portato all’arresto di 25 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso e favoreggiamento.

Anche dopo l’arresto del super latitante Giovanni Tegano, la rete della cosca di Archi ha continuato a funzionare alla perfezione. A quattro anni dalla cattura del boss il blitz della squadra Mobile, diretta da Gennaro Semeraro, che ha ricostruito l’organigramma della famiglia mafiosa.

Coordinata dal procuratore Federico Cafiero De Raho e dal sostituto della Dda Giuseppe Lombardo, la polizia ha stroncato la cosca Tegano. L’inchiesta “Il Padrino” ha consentito di individuare tutta una serie di soggetti inseriti nella organizzazione criminale e legati da vincoli di parentela con la cosca De Stefano, altra famiglia di Archi che, assieme ai Tegano e ai Condello, ha scritto i capitoli più bui della ‘ndrangheta reggina. Le tre famiglie mafiose, infatti, sono state protagoniste negli anni ’80 della seconda guerra di mafia che, in riva allo Stretto, ha portato a oltre 700 morti ammazzati.

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Le intercettazioni telefoniche e ambientali hanno illustrato agli inquirenti un quadro aggiornato sui reggenti della cosca guidata dai quattro generi del boss Giovanni Tegano dopo la cattura di quest’ultimo, nell’aprile 2010, e dopo la scomparsa per  “lupara bianca” del nipote Paolo Schimizzi nel settembre 2008.

I componenti della cosca comunicavano anche attraverso pizzini. L’indagine ha svelato, inoltre, la capacità dei Tegano di essere a conoscenza delle indagini che li riguardavano. Questo è il motivo per il quale la Procura ha emesso un provvedimento di fermo che dovrà adesso essere convalidato dal giudice per le indagini preliminari.

Non solo ‘ndrangheta ma anche politica. Tra gli arrestati, infatti, c’è Giovanni Pellicano, referente del boss e soggetto che, con l’aiuto del fratello Francesco (anche lui fermato) si è attivato, nel 2010, per raccogliere il consenso elettorale in favore dell’ex consigliere regionale del Pd Nino De Gaetano.

Non è un caso che, nel rifugio del latitante, la squadra Mobile ha ritrovato parecchia documentazione elettorale relativa alle regionali del 2010 quando De Gaetano si presentò on Rifondazione comunista. “Si registra – scrivono i pm nel provvedimento di fermo – l’avvio della campagna elettorale di Pellicano Giovanni in favore dell’on. Nino De Gaetano, con la raccolte delle promesse elettorali da parte dei ‘compari’ di San Luca”.

Nel corso della conferenza stampa il procuratore Federico Cafiero De Raho ha sottolineato come sul punto sono ancora in corso accertamenti. Intanto, sempre nel provvedimento di fermo, riferendosi all’appoggio elettorale della cosca Tegano ricevuto dall’ex consigliere regionale Nino De Gaetano,i magistrati la definiscono “una incresciosa vicenda, che squarcia in modo violento alcuni retroscena legati alle discutibili metodologie di appoggio e promozione politico-elettorale adottate in questo capoluogo da esponenti delle cosche mafiose in favore di alcuni candidati in occasione delle amministrative tenutesi nell’anno 2010”.

Genero di Giuseppe Suraci (medico dei Tegano), il politico “è stato, tra l’altro, presidente della Commissione contro il fenomeno della mafia in Calabria”. All’inchiesta “Il Padrino” hanno contribuito anche le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia come Consolato Villani, Roberto Moio, Giovanbattista Fracapane e Nino Fiume.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/10/ndrangheta-colpo-tegano-25-arresti-ricostruiti-legami-cosca-politici/1261871/

Area industriale Syndial Crotone, Voce: la bonifica e’ una farsa

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“Di circa 82 ettari solo il 28% e’ contaminato. Risarcimento da destinare agli ammalati oncologici”

Area industriale Perusola a Crotone

L’Ing. Vincenzo Voce, dell’associazione “Classe Differente” è intervenuto all’inizio del 2014 all’audizione congiunta della III e IV Commissione della Regione Calabria per spiegare evidenziare i gravissimi problemi ambientali che affliggono la città di Crotone. “Con la chiusura delle fabbriche, avvenuta ormai nel 1999, la città attende da molti anni una bonifica, che sembra non finire mai – afferma Voce. Le bonifiche attese in realtà sono più di una e costituiscono un vero e proprio paradosso. Mi riferisco ovviamente alla bonifica dell’area industriale che sta facendo Syndial e a quella dell’area archeologica antistante. L’area d’interesse archeologico, circa 82 Ha, sarà bonificata integralmente con finanziamenti pubblici, nonostante sia contaminata solo per il 28%; invece, l’area industriale sarà oggetto di una “finta” bonifica dei suoli. Si usano due pesi e due misure, quando le bonifiche deve farle lo Stato o il privato. Sull’area industriale delle ex fabbriche e nelle discariche fronte mare, dove ci sono i veri veleni, in sostanza si farà poco o nulla. Infatti, la multinazionale lascerà tutti i veleni sul posto, perché gli è stato approvato un progetto di bonifica operativo, che in realtà è una messa in sicurezza permanente, come di solito si fa per una discarica, senza tener conto, invece, che si tratta di un’area che è parte integrante della città”.

Le sostanze presenti nel sito industriale
“Nei 48 ettari del sito di Pertusola Sud, in base ai dati delle caratterizzazioni ufficiali, risultano almeno: Cadmio 412.887 Kg; Arsenico 254.500 kg; Piombo 4.181.411 kg. Nessun sito in Italia è contaminato in tal modo da metalli. Vorrei ricordare che: il Cadmio è cancerogeno (Classificazione IARC-IA la massima); l’Arsenico è cancerogeno (Classificazione IARC-IIA ) e il Piombo una sostanza tossica per il ciclo riproduttivo. La quantità di Cadmio presente sul sito di Pertusola potrebbe causare il cancro a tutti i cittadini europei. I rifiuti che ho stimato per il sito di Pertusola e la sua discarica a mare sono almeno 528.000 tonnellate di “Rifiuti Pericolosi” e 410.000 tonnellate di “Rifiuti non Pericolosi”. Altre 265.000 Tonnellate di rifiuti non pericolosi potrebbero essere comunque messi in sicurezza permanente”.

Cosa farà Syndial per eliminare questi veleni?
“Su 5 ettari è prevista la fitorimediazione – continua l’ingegnere Voce – una tecnica mediante la quale si asportano metalli con alcune piante bioaccumulatrici, che i componenti della Commissione Ambiente hanno visto quando sono stati a Crotone. Quelle piante, in un articolo del settimanale “L’Espresso”, sono state definite “eucalipti magici”, per la loro capacità estrattiva di metalli e in particolar modo dello zinco. Ma il sito è fortemente contaminato da metalli pesanti ben più pericolosi, che difficilmente sono fitorimediati. In base a un mio studio, utilizzando i dati sperimentali che ha fornito Syndial in occasione della loro audizione, ho stimato che occorreranno non meno di 4.000 anni (SI33 = 580 mg/kg di Cd), per eliminare il cadmio e il piombo presenti, contro i 10 anni previsti dal progetto. Su altri 6,5 ettari sui quali è prevista la tecnica della rimediazione elettrocinetica (EKRT), che utilizza un sistema di elettrodi per mobilitare i metalli, ma l’arsenico, abbondantemente presente, non sarà minimamente rimosso; infatti, mentre tutti i metalli, come il piombo, il cadmio, lo zinco o il rame, possono essere rimossi con questa tecnica in ambiente acido, per l’arsenico occorrerebbe un ambiente alcalino”.

E sul resto delle aree (36,5 Ha) cosa si fa?
zona controllata

“Niente! Quando si parla di bonifica dei suoli di cosa parliamo? Sul 76% del sito non si farà nulla, anzi le aree le hanno già messe in sicurezza, per modo di dire, almeno dieci anni prima che fosse approvato il progetto di Syndial, cioè quando hanno interrato in 13,3 ha del sito di Pertusola parte del Cic. La vera beffa è che sul sito di Pertusola, ci sono rifiuti interrati, come ha scritto il consulente del Tribunale (pag. 345 nota 3): “In molti casi il materiale è stato rinvenuto a contatto con veri e propri rifiuti, talvolta anche materiali riconducibili alla scoria Cubilot tal quale o alle ferriti di zinco. Non rientra nell’ambito del presente accertamento la verifica della legittimità di tali opere di copertura, realizzate in gran parte in vigenza del D.lgs. 22/97, in difetto della previa rimozione dei rifiuti interrati “. Quindi i rifiuti interrati andrebbero rimossi, come hanno fatto a Cassano Ionio e a Cerchiara Calabro e il progetto di bonifica in corso dovrebbe essere rivisto. Invece, con la messa in sicurezza permanente approvata, nessuno andrà più a toccarli. Un bel regalo che lasceranno alle nostre future generazioni. Le pericolosissime ferriti di zinco che mancano all’appello sono tante e sono quelle che occorre ricercare. L’avevo scritto qualche anno fa e nei mesi scorsi si è saputo del ritrovamento a Cassano di altre scorie riconducibili alle ferriti. Pertusola Sud le ha accumulate dal 1928 sino al 1971, cioè per oltre 40 anni, prima dell’avviamento del forno cubilot, dove in seguito sono state trattate. Parliamo di una quantità enorme”.

I ‘veleni’ sono rimasti tutti nell’area della Pertusola?
“Pensate forse che in quegli anni, quando non esisteva nessuna sensibilità ambientale, Pertusola avesse accumulato tutte le scorie in fabbrica?Penso proprio di no. Dalla caratterizzazione della discarica per rifiuti solidi urbani di Farina, si evince che anche lì hanno portato le pericolose scorie di Pertusola. E chissà in quali altri posti. Nelle discariche fronte mare, ovviamente, ci sono sondaggi che fanno riferimento alle ferriti di zinco, come evidenziato nell’ambito di un’inchiesta ancora in corso, che riguarda la realizzazione della strada consortile. Cosa si aspetta a rimuoverle? Per quanto riguarda il controllo sulla popolazione o sulla qualità dell’aria, nei decenni di attività delle fabbriche, sono state fatte sporadiche campagne di monitoraggio atmosferico, ma forse allora era meglio non mettere in discussione il benessere e la ricchezza che le fabbriche davano, nonostante sia avvenuta una vera e propria strage d’innocenti. Ho un certificato di un operaio che ha lavorato 20 anni nel reparto cadmio, morto di tumore al polmone; aveva un valore di cadmio urinario di 10,4 μg/g-creatinina, mentre il valore limite accertato di danno biologico era di 7 μg/g-creatinina (oggi sceso a 2). Si può dire che in quel caso si è trattato di un vero e proprio omicidio, perché l’operaio doveva essere spostato di reparto molto tempo prima. E come lui, mi risulta che tutti i lavoratori di quel reparto siano morti giovani”.

Il caso del 2009: scorie sotto le scuole e la Procura
Vincenzo Voce

“Forse la vera attività di controllo è stata fatta nel 2009, quando scoppia il caso delle scorie sotto le scuole e la Procura della Repubblica affida al Prof. Andò un biomonitoraggio su un campione della popolazione scolastica crotonese, prendendo come riferimento alcune scuole senza scorie. Le conclusioni del Prof. Andò, mostravano che i bambini che frequentavano le scuole con le scorie, presentavano valori sierologici di metalli pesanti superiori agli altri studenti e il nichel era in assoluto il metallo con maggior concentrazione. Quella vicenda clamorosa, si è conclusa con un nulla di fatto, perché i risultati ottenuti dal Prof. Andò erano assolutamente nella norma, se confrontati con i normali valori di riferimento, come sostenuto invece dall’Istituto Superiore della Sanità. I valori sierologici erano effettivamente più alti nei bambini che frequentavano le scuole con le scorie, ma i valori urinari erano più alti nel campione della popolazione scolastica che frequentava le scuole senza scorie. Il nichel poi non è nemmeno presente nella scoria interrata e nemmeno nelle pericolosissime ferriti. Il nichel insieme al vanadio, un altro metallo cancerogeno (classificazione IARC – IIB), sono presenti in modo naturale nei suoli della città, ed è soprattutto su quest’ultimo che occorrerà vigilare. Il vanadio in molte zone della città è presente in concentrazioni che superano i 90 mg/kg, cioè superiori ai limiti dei suoli residenziali. Spero che sia chiaro che finché tutti i veleni non saranno rimossi, ci sarà sempre una diretta correlazione con le patologie tumorali, sia essa dimostrabile o meno”.

Risarcimento Syndial per gli ammalati oncologici
“Inoltre vorrei fare una proposta per chi gestirà i 56,2 milioni pagati da Syndial, per i danni ambientali provocati sul territorio crotonese: cioè destinare una parte dei fondi alle famiglie meno abbienti con ammalati oncologici. Sarà un modo per riconoscere concretamente che nelle aree SIN ci si ammala di tumore in percentuale maggiore rispetto ad altri posti”.

http://www.ilcirotano.it/2014/02/26/area-industriale-syndial-crotone-voce-la-bonifica-e-una-farsa/


Avvelenamento dell’Oliva, otto casi di tumore accertati

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Nella deposizione del comandante della polizia provinciale di Cosenza nel corso del processo per disastro ambientale emergono particolari dell’indagine sull’inquinamento della vallata

Venerdì, 23 Gennaio 2015 13:15

COSENZA Otto casi di tumori accertati dalla polizia provinciale di Cosenza, di cui uno avrebbe portato al decesso del paziente. Nella deposizione di Maria Antonietta Pignataro, comandante della polizia provinciale di Cosenza, nel processo per l’avvelenamento della valle dell’Oliva che si sta celebrando davanti la Corte d’Assise di Cosenza, emergono ulteriori particolari dell’indagine svolta dalla Procura di Paola per comprendere cosa sia accaduto in questa parte della Calabria. Un processo che vede imputate cinque persone che, a vario titolo, sono accusate di aver causato l’avvelenamento dei terreni e delle acque del fiume Oliva e il disastro ambientale della zona. Si tratta in particolare dell’imprenditore amanteano Cesare Coccimiglio e di quattro possessori dei terreni all’interno della valle dell’Oliva, dove, secondo l’accusa, sarebbero stati sotterrati materiali contaminati. L’accusa, sostenuta oggi dal pm Maria Camodeca, ritiene che attraverso l’interramento di materiali tossico-nocivi e radioattivi nelle profondità della vallata i cinque, a vario titolo, avrebbero compromesso l’ambiente e la salute degli abitanti. Da qui la contestazione dei reati di disastro ambientale, avvelenamento delle acque e discarica abusiva di rifiuti di varia natura, contaminati da metalli pesanti. E, secondo l’accusa, ci sarebbe un nesso anche con la diffusione di tumori nella zona e la morte di Giancarlo Fuoco, un pescatore amatoriale e le lesioni dell’amico con cui abitualmente pescava nel fiume Oliva. Gli inquirenti hanno deciso di avviare tutti gli approfondimenti del caso per dimostrare la vastità del problema e individuare il numero di persone potenzialmente esposte al presunto inquinamento della vallata. Stando a quanto riferito da Pignataro, che all’epoca dell’indagine coordinava gli uomini della provinciale cosentina, gli agenti – su delega del procuratore capo Bruno Giordano – avrebbero individuato 17 persone che avrebbero attinto alle acque sotterranee per uso agricolo provenienti dal fiume Oliva e individuato inoltre 57 persone che, in zona, detenevano licenza di pesca. Ebbene: dalle risultanze degli inquirenti – riferite oggi in aula – sarebbe emerso che, tra queste persone, otto avrebbero, appunto, contratto malattie oncologiche di cui una avrebbe portato al decesso del malato. Una deposizione fortemente contestata dagli avvocati della difesa come anche quella di Giovanni Fusaro, all’epoca dei fatti vice ispettore del Corpo forestale dello Stato. Nel corso della sua deposizione, l’agente della forestale ha sottolineato come la ditta Coccimiglio nel tempo si sia aggiudicata lavori nella vallata dell’Oliva tra cui quelli per la realizzazione della briglia del fiume, una delle aree in cui sarebbero emersi nel corso delle indagini i livelli più elevati di concentrazione di metalli pesanti ma anche picchi di Cesio 137. Fusaro avrebbe elencato anche i verbali notificati dai forestali all’epoca alla ditta. Anche se, su richiesta specifica della difesa di Coccimiglio, il vice ispettore ha ammesso che in quel periodo in zona avrebbero lavorato anche altre ditte a cui sarebbero stati elevati verbali per irregolarità. Sulla stessa posizione anche l’ultimo testimone ascoltato in udienza: l’agente del Corpo forestale dello Stato Carlo Ferraro, che ha ricordato i verbali emessi nei confronti della ditta incriminata. La prossima udienza è stata aggiornata al 2 marzo, quando proseguiranno le deposizioni di altri testimoni dell’accusa.

Roberto De Santo

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/29470-avvelenamento-dell-oliva,-otto-casi-di-tumore-accertati

Inquinamento Valle Oliva, Parentela alla Camera richiede urgentemente la bonifica dell’area

Il deputato cinquestelle a quasi 1 anno dall’interrogazione cita Ungaretti:“I calabresi stanno come d’autunno, sugli alberi, le foglie”
Marinella La Scala , 5 dicembre 2014
“Clorometano, diclorometano, cloroformio, tetracloruro di carbonio, cadmio, mercurio, tallio e manganese al di sopra dei limiti previsti per i siti d’uso pubblico e privato.Queste sono soltanto alcune delle sostanze rinvenute nel fiume Oliva, tra i comuni di Amantea, Aiello Calabro e Serra d’Aiello in provincia di Cosenza, in Calabria».
Lo ha ricordato alla Camera l’on. Paolo Parentela portavoce calabrese del M5S, per sollecitare una risposta all’ interrogazione numero 4/03105 che lo stesso aveva scritto ben 11 mesi fa al Ministro dell’Ambiente affinché fosse garantita la sicurezza igienico-sanitaria e ambientale dell’area.
Nell’ interrogazione Parentela chiedeva urgentemente la bonifica dell’area e la predisposizione del registro tumori in Calabria, unitamente a un registro epidemiologico e a tutte le misure necessarie per tutelare la salute dei cittadini ma i Ministri interrogati ad oggi non hanno ancora dato risposta né hanno ritenuto opportuno intervenire.
La gravissima situazione igienico-sanitaria e ambientale riscontrata nella valle del fiume Oliva è stata confermata dal consulente tecnico d’ufficio della procura della Repubblica di Paola, dalle risultanze delle indagini condotte dalla magistratura e dalla relazione dell’ISPRA. Tra le sostanze con effetti biologici importanti tali da poter cagionare un danno per la salute dei residenti oltre che per l’ambiente circostante spicca, per la maggior parte di esse, la capacità di indurre patologie tumorali spesso fatali.
Rivolgendosi al Presidente della Camera Parentela ha fatto presente che in questo periodo sulla stampa anche i cittadini delle Serre, come quelli di Amantea e di Crotone, si stanno interrogando sui motivi di una così vasta incidenza di tumori e morti nella zona in cui vivono «Ma nessuno evidentemente ha mai spiegato loro che i Governi che si sono succeduti in questo Paese hanno tenuto nascosto lo smaltimento illecito di rifiuti tossici e radioattivi nella zona delle Serre» ha aggiunto da ultimo.
A quasi un anno dall’interrogazione che rivestiva, allora come oggi, carattere d’urgenza, riuscirà finalmente questo Governo a dare una risposta adeguata a tutti quei cittadini calabresi che, come ha detto bene il deputato cinquestelle citando Ungaretti, “stanno come d’autunno, sugli alberi, le foglie?”

Il delitto Losardo e la procura “nera” di Paola: la verità

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Per la sua morte non ci sono colpevoli ma le responsabilità erano chiare già dal 1991.

Ecco la relazione (mai pubblicata) del ministero

COSENZA Sono ormai passati trentaquattro anni dalla morte di Giannino Losardo, segretario capo della procura della Repubblica di Paola e prima consigliere comunale e poi assessore all’Urbanistica comunista di Cetraro.
La sera del 21 giugno 1980, ignoti malviventi, a bordo di una moto di grossa cilindrata lo colpiscono a morte. Era a bordo della sua utilitaria e stava tornando a Fuscaldo, dove abitava con la famiglia dopo una riunione del consiglio comunale. Losardo, ferito e prossimo alla morte, trova la forza di denunciare i suoi assassini e dice a un maresciallo dei carabinieri che era subito accorso: “Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato”. Ma la richiesta di parlare, di dire quello che sapeva, fatta da don Giannino (così lo chiamavano tutti), non viene accolta da chi ha condiviso con lui gli ultimi istanti della sua vita. Aveva 54 anni.
La morte di Giannino Losardo ancora oggi non solo è rimasta impunita perché nessuno ne ha pagato le conseguenze ma continua a essere circondata da un alone di mistero: troppe ambiguità e connivenze.
L’esponente del Pci era una bandiera della lotta alla mafia e infatti con l’accusa di mandante del crimine venne arrestato Franco Muto, di Cetraro, meglio conosciuto come il “Re del pesce”.
Insieme a lui, i suoi “picciotti” Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano, ritenuti gli esecutori materiali dell’assassinio. Il boss fu poi assolto da ogni accusa, in primo e secondo grado, dalla Corte di Assise di Bari. La sentenza è ormai passata in giudicato da decenni.
Giannino Losardo, dunque, trascorreva le sue giornate dividendosi tra la procura della Repubblica di Paola e il consiglio comunale di Cetraro. A Paola aveva un ruolo importante: essere segretario capo di una procura significa esserne anche il primo dirigente. Di conseguenza, lavorava a stretto contatto con il procuratore e con tutti i magistrati. Luciana De Luca, giornalista cosentina che ha svolto un meritorio lavoro d’inchiesta su quel drammatico omicidio, ha avuto modo di scrivere che Losardo, “da uomo perbene non si era mai reso conto che ostacolando e denunciando ciò che vedeva in procura: i fascicoli nascosti, la richiesta continua di spiegazioni a chi non era in grado di darne senza denunciare la sua appartenenza al clan, stava scrivendo un romanzo tragico, dal finale scontato. Proprio la sua fermezza minacciava quel processo di sottomissione al quale si lavorava da tempo per ottenere, secondo un progetto ben definito, il controllo assoluto del territorio da parte di appartenenti al clan Muto”. La procura della Repubblica di Paola, in sostanza, è un classico “verminaio”, tanto per usare un termine molto in voga quando si parla di magistrati Nel processo di Bari (sede scelta non a caso ma, come si dice in gergo, per legittima suspicione ovvero legittimo sospetto di essere davanti a una procura quantomeno condizionata dalla malavita) vengono coinvolti magistrati e noti politici cetraresi accusati di collusione con la mafia. Nel 1984 vengono invitati a comparire, in particolare, il procuratore capo della Repubblica di Paola Luigi Balsamo e un suo sostituto, Luigi Belvedere., tra l’altro all’epoca sospeso dalle funzioni e dallo stipendio su provvedimento del Consiglio superiore della magistratura.
Nei confronti di Balsamo si procede per omissione in atti d’ ufficio. Nel corso delle indagini sull’ assassinio di Losardo, trascurò di incriminare Francesco Muto che, fortemente sospettato dell’ omicidio, durante un interrogatorio oltraggiò la magistratura e tentò pure di aggredire i difensori di parte civile, l’ avvocato Nadia Alecci ed il senatore comunista Francesco Martorelli.
Più gravi le imputazioni nei confronti di Belvedere: interesse privato in atti d’ ufficio e falso per aver ritardato e modificato le date di emissione di alcuni ordini di cattura a carico del figlio di Francesco Muto, Luigi, che forse proprio grazie a quegli “errori” si rese latitante. Ma l’ accusa di maggiore peso è quella di corruzione per i regali, (“non in denaro”), che avrebbe avuto da ambienti non proprio disinteressati. L’esito del procedimento è noto a tutti: condanne in primo grado e poi assoluzioni negli altri due gradi di giudizio. Nonostante il clamore suscitato dall’omicidio Losardo che determinò all’epoca una mobilitazione politica generale – autentica da parte di alcuni, assolutamente strumentale da parte di altri – con la creazione di una commissione antimafia nella quale spiccava anche il nome del comunista Francesco Martorelli, i malavitosi continuarono, tra un interrogatorio e l’altro, a fare i loro affari e a creare una rete di soggezione e terrore nella comunità. Anzi, scrive ancora Luciana De Luca, “l’immunità giudiziaria” di cui sembravano godere, grazie a giudici collusi con la criminalità che avrebbero avuto un ruolo determinante anche nella decisione di eliminare Giannino Losardo, e le amicizie con i potenti, li rendeva ancora più temibili e consapevoli delle loro potenza”. Stiamo parlando, dunque, di una procura, quella di Paola, non solo votata a favorire l’attività mafiosa del clan Muto ma anche a spalleggiare e forse anche a ispirare l’eliminazione di chi provava a modificare lo stato delle cose. Quei magistrati della procura di Paola hanno avuto un ruolo attivo nella morte violenta di uomini dello spessore morale di Losardo. La verità di questo delitto è ancora contenuta nei cassetti della procura di Paola e nella memoria di qualche toga nera che, per avidità e codardia, ha consentito l’ascesa criminale di un gruppo di malavitosi che ha posto fine a esistenze nobili come quella di don Giannino. Nell’ambito di quella mobilitazione politica successiva alla morte di Losardo, il ministero di Grazia e Giustizia nel 1991 dispose un’ispezione alla procura della Repubblica di Paola, che fu affidata al magistrato ispettore Francantonio Granero. Nonostante fossero passati ben undici anni dall’omicidio, la relazione del magistrato approfondì molteplici aspetti legati a quel fatto violento. Eppure, mai nessun giornalista e mai nessun media ha mai deciso di pubblicarla o di lavorarci sopra. La Provincia, pertanto, dopo 24 anni propone ai suoi lettori un documento che è senza dubbio illuminante sulle dinamiche che dominavano la procura della Città del Santo.
LE OSSERVAZIONI Il lavoro di Granero, che si sviluppa in oltre trecento pagine, parte dalle osservazioni generali e spiega come mai si è arrivati alla decisione di “controllare” la procura di Paola.
“Sfiducia totale nella magistratura di Paola, rassegnazione e, qualche volta, timore. Convinzione che l’inchiesta non avrebbe potuto portare ad alcun miglioramento della situazione”.
Sono questi i sentimenti diffusi che hanno investito immediatamente il magistrato ispettore e che hanno accompagnato e in parte anche condizionato tutto lo svolgimento degli accertamenti.
L’incarico è stato conferito con decreto del capo dell’ispettorato in calce alla lettera del 24 luglio 1991 con la quale il ministro della Giustizia chiedeva che fosse disposta un’inchiesta intorno ai fatti evidenziati dalle interrogazioni degli onorevoli Mundo e Principe ai ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia, annunciata nella seduta del 20 giugno 1990.
L’AMBIENTE “Il tribunale di Paola – si legge ancora nella relazione – è stato istituito soltanto nel 1966 ed è caratterizzato da un circondario territorialmente molto vasto, che si estende sulle coste calabre del mar Tirreno per una lunghezza di circa 100 chilometri e che comprende una delle zone paesaggisticamente più belle e turisticamente più appetibili dell’intera Calabria”.
Il magistrato Granero, quindi, aggiungeva che “il territorio del circondario è stato oggetto di un vero e proprio saccheggio edilizio e urbanistico, avvenuto sia attraverso il proliferare di costruzioni realizzate da singoli proprietari in maniera non controllata, sia attraverso una serie di grossissime lottizzazioni, a suo tempo illegittimamente approvate, interessanti un po’ tutta la zona ma soprattutto i comuni di Scalea, San Nicola Arcella, Santa Maria del Cedro e Marcellina, dove sono stati realizzati edifici per milioni di metri cubi. Un ulteriore grave problema connesso al selvaggio sfruttamento edilizio è stato quello del controllo del litorale e del demanio marittimo, anch’esso in molti punti illegittimamente privatizzato”.
Un capitolo a parte, ieri come oggi, per il riciclaggio del denaro sporco.
“E’ opinione unanime di tutti i magistrati che proprio la particolare bellezza del territorio, soggetto all’intenso sfruttamento già ricordato, abbiano favorito l’instaurarsi, nel circondario di Paola, di una zona particolarmente adatta al riciclaggio e al reinvestimento dei proventi di attività delittuose della criminalità organizzata. Altra caratteristica infatti è quella di rappresentare una sorta di enorme e ricco cuscinetto tra le zone di influenza della ‘ndrangheta calabrese e della contigua camorra napoletana”.
1 – (continua)

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“Gentleman”, Solimando e quella vecchia latitanza con “Dentuzzo”

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Scritto da Fabio Buonofiglio

Il presunto attuale capo ‘ndrangheta degli “zingari” fu catturato dopo otto mesi 
Dalla maxi-inchiesta antimafia “Gentleman” condotta dai magistrati della Dda di Catanzaro emerge “forte” la figura del 46enne coriglianese Filippo Solimando. Arrestato assieme ad una trentina d’altre persone tra presunti capi, reggipanza e trafficanti internazionali di droga lo scorso lunedì 16 febbraio, l’uomo è ritenuto il “capo tra i capi” del potente “locale degli zingari” che domina l’intera Piana di Sibari, allungando i suoi tentacoli criminali persino fuori regione, nel Materano.
E difatti Filippo Solimando è uno zingaro originario di Policoro, stabilitosi però ormai da svariati anni a Corigliano Calabro.
Solimando – per come scrivono i magistrati antimafia – sarebbe stato cooptato a partire dal 1995 proprio in seno all’allora “locale” coriglianese.
Lo volle suo cognato Leonardo Linardi il quale sta scontando un definitivo di trent’anni in carcere, per l’omicidio di Giovanni Viteritti inteso come “’U pazzu” ammazzato nei pressi dell’abbandonata stazione ferroviaria di Thurio il 17 gennaio del 1997.
Del resto, proprio i giudici del processo per l’omicidio Viteritti, nel 2001, condannarono Filippo Solimando all’ergastolo quale esecutore dell’omicidio ed intraneo alla cosca coriglianese.
I giudici d’appello, invece, lo assolsero per l’omicidio, confermando però la sua condanna per associazione mafiosa.
Nella motivazione della sentenza per l’omicidio Viteritti si legge che Solimando era accusato dai collaboratori di giustizia Tommaso Russo, Giorgio Basile, Giovanni Cimino e Pietro Alberto Magliari. I quali ne tratteggiarono la figura quale “azionista” dedito, nei primi anni Novanta, alle rapine ai furgoni portavalori assieme agli Abbruzzese.
Secondo i “pentiti”, a partire dal 1995 Solimando s’era messo “a disposizione” degli Abbruzzese e del locale di ‘ndrangheta coriglianese per l’esecuzione d’azioni di sangue e per la gestione del contrabbando di tabacchi.
L’inchiesta “Gentleman” tende a dimostrare che Solimando non solo sarebbe componente dell’attuale locale degli “zingari” avente la sua base principale a Lauropoli di Cassano Jonio, ma che in seno ad esso egli avrebbe raggiunto il ruolo di “massimo dirigente”.
Già, perché i traffici di stupefacenti – secondo le carte della Dda – per essere eseguiti avrebbero necessitato sempre del suo “placet” oltre a quello del 25enne Luigi Abbruzzese, figlio di quel Franco Abbruzzese alias “Dentuzzo” capo incontrastato degli “zingari” già condannato all’ergastolo e detenuto al 41-bis.
Solimando, nel 2013, si sarebbe infatti recato personalmente in Sudamerica per trattare l’acquisto di un’importante partita di cocaina.
Anche i rifornimenti di marijuana avrebbero necessitato del suo “assenso”, come dimostrerebbe l’importazione d’una tonnellata effettuata “via mare” solo dopo che i fornitori albanesi erano riusciti a contattarlo.
Lo stesso Luigi Abbruzzese lo avrebbe tenuto sempre “aggiornato” sulle importazioni di cocaina ed eroina.
Nei confronti di Solimando il 14 agosto del 1998 fu spiccata l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per l’omicidio Viteritti.
Ma lo stesso rimase latitante fino al 27 aprile del 1999.
Tornò libero nel marzo del 2004 dopo avere scontato la condanna per associazione mafiosa.
Gli otto mesi di latitanza sono ritenuti dalla Dda “molto importanti”. Perché, per come dichiarano i “pentiti”, Solimando si sarebbe nascosto assieme a “Dentuzzo”, il quale, proprio in quel periodo, avrebbe eseguito la “strategia militare” volta all’eliminazione di quanti potevano insidiare la supremazia degli “zingari”…

http://sibarinet.it/index.php/blog/27-cronaca/5048-%E2%80%9Cgentleman%E2%80%9D-solimando-e-quella-vecchia-latitanza-con-%E2%80%9Cdentuzzo%E2%80%9D.html

Minotauro, 16 arresti dopo Cassazione

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Condanne definitive per infiltrazioni ‘Ndrangheta nel Torinese

(ANSA) – TORINO, 25 FEB – Ordine di carcerazione per sedici persone, affiliate alla ‘Ndrangheta, condannate in via definitiva nell’ambito del processo Minotauro. Le stanno eseguendo a Torino e Reggio Calabria su disposizione del pg di Torino Vittorio Corsi i carabinieri. I provvedimenti sono diventati definitivi con la sentenza della Cassazione, che lunedì ha confermato le condanne per le infiltrazioni della ‘Ndrangheta nel Torinese. I sedici arrestati devono scontare pene residue che vanno dai 4 mesi agli 8 anni.

Relazione Dna: articoli sul Sole24ore

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La ‘ndrangheta borghese di Reggio – Il Comune? «Un unicum, come nemmeno la Palermo ruggente di Cosa nostra»

Quando sono i giornalisti a scriverlo, sono nemici della città. Quando sono i magistrati della Dna ad affrontare con forza e decisone certi temi (Anna Canepa, Francesco Curcio, Diana De Martino, Antonio Patrono, Roberto Pennisi, Leonida Primicerio, Elisabetta Pugliese, coordinati da Giusto Sciacchitano) i giornalisti si rincuorano.

Nella relazione della Dna per il periodo 1° luglio 2013-30 giugno 2014, presentata ieri a Roma dal capo della Procura Franco Roberti e dalla presidentessa della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, si legge testualmente che la ‘ndrangheta di Reggio Calabria ha un profilo decisamente più borghese rispetto a quello della ‘ndrangheta ionica e di quella tirrenica. Ed è ovvio che una simile composizione sociale favorisca l’osmosi con il ceto dirigente e, quindi, con la politica e le Istituzioni.

Nella relazione si legge una prima ragione: «La prima ragione per la quale la ‘ndrangheta reggina è diventata – quanto ai suoi vertici – borghese, risiede nel fatto che essendosi consolidata da generazioni, in ambito cittadino e non rurale, si è naturalmente evoluta, grazie anche alle risorse economiche di cui disponeva, verso un più elevato livello sociale, mimetizzandosi, così, in ambienti diversi da quelli di origine.

Sul punto e per capire quanto risalente nel tempo sia questa capacità di penetrazione di tutti gli ambienti borghesi reggini, basterà ricordare che già oltre 25 anni fa, il 27 agosto del 1989, venne ucciso, durante la seconda guerra di mafia, su ordine dei Condello/Rosmini/Serraino, a Bocale, Ludovico Ligato – in ordine di tempo assessore regionale, deputato nazionale democristiano e presidente delle Ferrovie dello Stato – perché ritenuto collegato ed intraneo alle (allora) contrapposte famiglie di Reggio città De Stefano/Tegano/Libri».

Ma c’è una seconda ragione: la capacità delle cosche cittadine che hanno avuto di attrarre al loro interno, proprio nel nuovo contesto sociale in cui si era insediata – quello delle professioni e delle imprese – molti appartenenti al ceto dirigente cittadino.

Basta qui? Nossignori. Hanno giocato un ruolo rilevante nella capacità della ‘ndrangheta reggina di gestire i collegamenti in questione, i cosiddetti rapporti massonici, nei quali si sono miscelate e rafforzate reciprocamente, in un grumo inestricabile di rapporti, le istanze ‘ndranghetiste e quelle dei ceti alti della città di Reggio Calabria.

Siore e siori lo dice il gruppo di lavoro della Procura nazionale antimafia e non l’umile e umido blog che qui leggete, il quale lo scrive solo… dal 2009. «In particolare plurime, e numerose, dichiarazioni di collaboratori di giustizia anche di estrazione diversa, corroborate da informative di polizia giudiziaria, intercettazioni, dichiarazioni testimoniali di soggetti direttamente inseriti in quel contesto, a partire dal noto procedimento “Olimpia”, ma continuando fino ai giorni nostri – mettono nero su bianco i sostituti procuratori nazionali antimafia – dimostrano che è proprio nella città di Reggio Calabria che la ‘ndrangheta ha sviluppato in modo più prepotente i citati rapporti, che non sono altro (per la ‘ndrangheta) che un ulteriore strumento per stringere direttamente, o indirettamente, relazioni con gli ambiti più alti di cui si è detto ovvero per raggiungere (grazie a tali rapporti) i predetti ambiti.

Infine hanno determinato questa particolare attitudine delle cosche di Reggio Calabria città di rapportarsi ad entità esterne, ragioni storiche che risalgono, prima, ai cosiddetti moti di Reggio Calabria del “Boia chi molla”, ampiamente descritti nello storico procedimento Olimpia in cui, pure, la ‘ndrangheta cittadina (in particolare la famiglia De Stefano) ha avuto – al fianco della politica – un ruolo preminente e, poi, alle connessioni con destra eversiva ed apparati statali deviati che trovarono la loro massima espressione nella vicenda della gestione della latitanza del terrorista nero Franco Freda, iniziata nell’Ottobre del 1978 e conclusasi in Costarica l’anno seguente.

Poche vicende esemplari, alcune delle quali hanno superato anche il vaglio giurisdizionale in via definitiva, consentono di dare maggiore ed ulteriore concretezza a quanto fino ad ora è stato detto».

Stampa venduta

Ora molti di voi ricorderanno l’incessante e martellante campagna della claque dell’allora sindaco e poi Governatore  Peppe Scopelliti contro la stampa nemica della città di Reggio Calabria, della tesi del complotto contro la città, della regia dietro gli articoli contro la città e di quante altre amenità varie la libertà di stampa (quei pochissimi che la esercitavano e la esercitano) dovettero subire in quel periodo. Personalmente dovetti subire un’incessante campagna di delegittimazione e insulti per quel che ho sempre scritto in realtà prima, durante e dopo il “modello Reggio”. Insulti, minacce e tentativi di delegittimazione che non avranno certo terminato il loro corso.

Ebbene, premesso questo, volete sapere quale esempio calzante la Dna (non il “cialtrone” che vi scrive, quale fui appellato dall’allora Governatore e dai suoi sodali) porta per dare «concretezza a quanto fino ad ora è stato detto»?  Leggete pure: «Il primo dato oggettivo è rappresentato dalla vicenda dello scioglimento dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria avvenuta alla fine del 2012. Se si voleva una prova della particolare capacità della ‘ndrangheta reggina di rapportarsi con i ceti dirigenti e con la politica e, quindi, di condizionare entrambi, questa è sicuramente la vicenda in esame, che giova sottolinearlo, è un vero e proprio unicum. Numerosi infatti sono stati i casi di scioglimenti di amministrazioni medio-piccole, dove le esili strutture burocratiche e politiche sono facile preda delle mafie. Ma mai, neanche nella Palermo degli anni ruggenti di Cosa Nostra, si era verificato che una città capoluogo di provincia che complessivamente conta più di mille dipendenti, dovesse essere sciolta per condizionamento mafioso».

E poi ancora si legge: «Dall’attività ispettiva svolta dalla Commissione di accesso risultavano dati davvero significativi della capacità di condizionamento della ‘ndrangheta cittadina nei confronti del Comune di Reggio Calabria. Emergeva, in primo luogo, che la permeabilità alle pressioni ‘ndranghetiste era caratteristica, non solo, della amministrazione eletta appena nel maggio 2011, ma, anche della precedente essendo la seconda caratterizzata, non solo, da continuità politica, ma, anche, personale. Da anni, si era determinato nell’amministrazione reggina, una tendenza che aveva portato l’ente, nel migliore delle ipotesi, a farsi condizionare dalle pressioni mafiose, e, nella peggiore, a colludere direttamente con il crimine organizzato».

Bene, ora sappiamo che ci sono altri nemici di Reggio Calabria, vale a dire quelli che si celano dietro la spectre giudoplutomassonica della Dna. A domani con un nuovo approfondimento.

Ieri, su questo umile e umido blog, avrete seguito la parte relativa alla mafia “borghese” di Reggio Calabria e all’unicum rappresentato dallo scioglimento del consiglio comunale della città sullo Stretto.

Oggi si entra ancora più nel vivo di una relazione che, palesemente, è il frutto di idee diverse sulla storicità e sui pregressi della ‘ndrangheta ma che, forse proprio per questo, quest’anno appare aprirsi a quelli che sono sviluppi impensabili fino a qualche anno fa, quando la ‘ndrangheta (così come la mafia siciliana) era ancora considerata solo santini e riti, violenza e sangue, cicoria e meloni. Sottolineo, perché per motivi a me ancora oggi ignoti più di un idolatrato/a operatore/trice della Giustizia oltre ai  cultori dello scodinzolamento mediatico si è divertito/a scientemente negli anni a ridicolizzare il mio voler guardare oltre le “mezze verità”, che ho il massimo disprezzo e il massimo disgusto, nonché un sommo godimento nel veder marcire in galera i vecchi patriarchi o “capo crimine” di Cosa nostra e della ‘ndrangheta, mangiatori di cicoria o venditori di ortofrutta che siano, conosciuti o sconosciuti che siano e spero ardentemente he anche l’ultimo “macellaio” dell’ignobile catena di violenza mafiosa venga arrestato e assicurato alla Giustizia.

Ebbene, nella relazione consegnata nelle mani del capo della Procura nazionale Franco Roberti, si legge che la “specializzazione” delle cosche dei diversi mandamenti in relazione a funzioni diverse, non implica affatto la dismissione, da parte delle stesse, delle altre normali attività svolte dalle associazioni di ‘ndrangheta: estorsioni, turbative d’asta, omicidi, traffico a medio livello dello stupefacente, controllo degli appalti; queste sono attività di tutte le cosche a prescindere dal fatto che siano “specializzate” in questa o quella.

Le cosche reggine tuttavia – così come risulta anche da indagini recenti quale quella sulla latitanza dell’imprenditore ed ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena – non si occupano del grande traffico di stupefacenti ma, come contraltare, sono assegnatarie di un compito ancora diverso e vitale per le cosche insediate negli altri due mandamenti.

Si tratta, ci spiega l’analisi della Dna, di un compito funzionale all’interesse di tutto l’organismo ‘ndranghetista: «quello di curare per conto e nell’interesse dell’intera organizzazione i rapporti con la politica e le Istituzioni, ad un livello più elevato».

Se, quindi, immaginiamo, scrive ancora la Dna da pagina 24,  la ‘ndrangheta come un «organismo interconnesso, unitario e vivo, quale il corpo umano, di cui il mandamento Ionico e quello Tirrenico sono cuore e membra, la testa non può che essere nel mandamento del Centro».

I primi in grado (mandamento Ionico e Tirrenico), rispettivamente, di custodire i rituali di Polsi, di essere centro pulsante del grande affare della cocaina, di gestire sia gangli vitali per l’organizzazione (fra cui essenziale, il Porto di Gioia Tauro) che fondamentali rapporti criminali con le altre mafie, a partire da Cosa Nostra siciliana; l’ultimo (cioè i mandamento del Centro), «che ha raggiunto uno stadio evolutivo più avanzato, in grado di mantenere le connessioni, ad un tempo più profonde ed elevate, con entità esterne e zona grigia, da cui dipendono le strategie di fondo dell’intero organismo». Insomma, un cervello a disposizione anche dell’ultima articolazione del corpo (non solo “calabrese”) e che tutto comanda.

Ad un occhio terzo quale rappresento apparirebbe conseguenziale che se la “capa”, vale a dire l’elemento diabolicamente pensante, strategicamente pensante per l’intero “organismo” (che chiamerei corpo ‘ndranghetista putrescente) è a Reggio Calabria, se cioè il cervello (fino a parola contraria ubicato nella scatola cranica) è a Reggio Calabria, beh vivaddio, il “capo dei capi” non può essere a Rosarno, Polsi o solo anche a Gizzeria o Copanello!

Ma per carità, mi rendo conto perfettamente di una cosa (sbollita la rabia degli anni passati nei quali mi incaponivo a non capire il ritardo di certe analisi): cioè che l’importante è segnare una strada dalla quale tornare indietro, spero, sia impossibile. Viva dunque l’unitarietà della ‘ndrangheta, purché si vada finalmente oltre come il procedimento Meta (quantomeno in abbreviato visto che ha passato anche il vaglio della Cassazione) ha già giuridicamente riconosciuto e come sembra che si avvii a riconoscere anche il procedimento Breakfast e i suoi vari filoni (sul processo Meta torneremo la prossima settimana).

Per evitare equivoci la Dna precisa che il «rapporto collusivo con la politica è caratteristica di tutta la ‘ndrangheta, o meglio, di tutta la criminalità mafiosa, che è tale proprio perché condiziona la politica». La Dna, proseguendo il ragionamento, ricorda, anzi, che in alcuni casi, dalle indagini svolte e dai procedimenti istruiti dalla Dda reggina è emersa assai spesso, ed in ogni mandamento, più che una collusione, una «immedesimazione fra cosca e amministrazione locale che rappresentavano un continuum indistinguibile».

Anche qui allora sorgerebbe una  riflessione conseguenziale a quella sopra esposta: ma se la collusione con la politica è caratteristica genetica delle mafie (come insegnano già dal 1876 i viaggi in Sicilia di Sidney Sonnino e di Leopoldo Franchetti) perché per un tempo interminabile è passato (e in molte procure ancora scorre) prima di riconoscere che mafia e corruzione (politica) sono i due volti di una stessa medaglia, vale a dire quella dei sistemi criminali evoluti (e sempre in evoluzione)?

E se proprio volessimo spingerci oltre (ma negli anni passati più di un acuto osservatore, per il mio fallace giudizio, lo ha già fatto), dovremmo cominciare a ragionare sul fatto che la testa, più che essere esposta come un trofeo in quel di Reggio Calabria, forse si muove da anni lungo il binario Reggio Calabria-Roma-Milano e su per li rami di questa bella Italia. Un cervello “mobile” proprio perché oltre al cervelletto (la parte del sistema nervoso centrale coinvolta nell’apprendimento e nel controllo motorio, nel linguaggio, nell’attenzione e di alcuni sensazioni emotive come paura e piacere) ha anche un terminale del sistema nervoso centrale estremamente intelligente, alimentato com è dal sangue che viene iniettato dalle ramificazioni deviate dello Stato e della massoneria e dai professionisti al soldo.

Per quel che riguarda l’umile e umido analista che scrive, queste riflessioni della Dna sono comunque più che apprezzate: sono lette e controfirmate. E non da oggi. A domani.

Mercoledì e ieri, su questo umile e umido blog, avrete seguito la parte relativa alla mafia “borghese” di Reggio Calabria e all’unicum rappresentato dallo scioglimento del consiglio comunale della città sullo Stretto, oltre al fatto che il “cervello” della ‘ndrangheta risiede a Reggio Calabria.

Oggi si prosegue sulla stessa falsariga, analizzando ancora la capacità delle cosche reggine di legarsi alla politica (e condizionarla). Un’analisi che, a mio modestissimo e fallace avviso, testimonia in pieno il male capitale della Calabria: vale a dire la conoscenza delle mani mafiose che vengono strette e, al tempo stesso, la gioiosa felicità nello stringerle e con esse firmare affari. Quand’anche fosse assente la felicità subentra una apatia che spinge a voltarsi dall’altra parte e prestare dunque il fianco, con questi atteggiamenti omertosi, alla morte inevitabile delle speranze di rinascita di un popolo soggiogato dai sistemi criminali e dal senso sbagliato di “appartenenza”. In questo gioco al massacro la politica, ben oltre i confini calabresi, è motore indispensabile.

Un caso emblematico, scrive la Dna, è quello che ha riguardato l’armatore ed ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva, il 5 giugno 2013 dalla Corte di cassazione, per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, nonché protagonista di una lunga e perdurante latitanza in relazione alla quale, fra gli altri, è imputato l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, che a luglio 2014 è stato rinviato a giudizio proprio per avere agevolato Matacena a sottrarsi all’esecuzione della pena.

Si tratta di un caso che consente alla Dna di sviluppare alcune considerazioni che appaiono pienamente coerenti rispetto alla ‘ndrangheta borghese.

Innanzitutto dalla sentenza risulta accertato che Matacena era diventato il referente politico nazionale della cosca Rosmini, dunque di una quelle famiglie dell’elite ‘ndranghetista di Reggio città. «La sua elezione al Parlamento nazionale risultava, quindi – si legge nel documento a pagina 30 – propiziata dalla sua disponibilità ad appoggiare sia in sede politica che giudiziaria, le istanze e le richieste provenienti dalla cosca cittadina dei Rosmini ricevendo in cambio un incondizionato appoggio elettorale».

La Dda di Reggio Calabria, nell’indagine condotta dai pm Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio (quest’ultimo “ufficiale” di collegamento della Dna), sotto la supervisione del capo della procura reggina Federico Cafiero De Raho, ha evidenziato come il legame fra Matacena e le cosche reggine fosse confermato da recenti indagini il cui esito è stato depositato sia nel dibattimento a carico di Scajola e degli altri coimputati (per i reati di fittizia intestazione di beni e procurata inosservanza della pena) sia nel giudizio che si sta celebrando con il rito abbreviato.

Alla Dda di Reggio risulta in particolare che, a seguito di quel patto illecito, Matacena, attraverso una serie di schermi costituiti da società a lui riconducibili, ha acquisito un ruolo centrale nella realizzazione di quasi tutte le grandi opere svolte a Reggio Calabria nell’ultimo ventennio, opere in relazione alle quali risultavano preminenti non solo gli interessi della cosca Rosmini ma quelli dell’intera ‘ndrangheta cittadina. «Date queste premesse, la stessa vicenda della latitanza del Matacena in se’ considerata, caratterizzata dalla indiscutibile notorietà, anche mediatica, della conferma della sentenza di condanna definitiva per 110 -416 bis cp – si legge ancora nelle riflessioni delle Dna –  assume, ai fini che qui interessano, un significato pregnante».

Emerge, infatti, al di là delle singole responsabilità penali che saranno accertate in sede giudiziaria che, nonostante questo (notorio) curriculum, addirittura divulgato dai mezzi d’informazione, rispetto al quale, in tutta evidenza, «nessuno poteva affermare di “non sapere” », Matacena, anche da latitante (e non solo da condannato per ‘ndrangheta in secondo grado) ha continuato ad avere rapporti intensi e stabili con esponenti di primo piano della politica e del mondo degli affari. «Matacena, insomma, oggettivamente, e partendo proprio dall’ultima osservazione che si è fatta – continuano i pm nella relazione della Dna  – a prescindere dalla sua stessa volontà, rappresenta la perfetta concretizzazionesi direbbe, impermeabile a qualsiasi avversità – delle inossidabili caratteristiche relazionali che deve avere, per la ‘ndrangheta, il politico (e l’imprenditore) colluso. E la circostanza che il Matacena avesse un legame preferenziale proprio con la cosca Rosmini, spiega perfettamente – ed ancora una volta, in modo assolutamente esemplare – quello che si è cercato di dire nelle pagine precedenti a proposito della superiore e specifica capacità della ‘ndrangheta di Reggio città di intrattenere rapporti con soggetti di alto profilo che, a loro volta, sono punti di partenza potenziali per allacciare, direttamente o indirettamente, nuovi ed ulteriori collegamenti con altri soggetti insediati nei piani alti della politica, delle istituzioni e dell’economia, in modo da calare l’intero sistema ‘ndranghtistico in una rete di rapporti che consente una penetrazione sempre più profonda nella parte che conta del Paese».

Ma ancora altro, di questa vicenda, sempre per la Direzione nazionale antimafia merita di essere evidenziato.

La Dna si riferisce in particolare alla circostanza di fatto – emersa in altri procedimenti, ma acquisita poi in quello principale con i vari stralci – che Amedeo Matacena – a prescindere dalla valenza penale della vicenda – avesse contatti, anche, con esponenti di primo piano di cosche operanti nella Piana di Gioia Tauro e nel catanzarese (fra cui quella guidata da Francesco Pino, attualmente collaboratore di giustizia). Dagli atti d’indagine risultava che con loro Matacena aveva incontri diretti, finalizzati alla risoluzione e alla mediazione in complessi affari e dai quali riceveva l’impegno di un pieno appoggio in favore di candidati da lui sostenuti e a lui vicini in occasione di tornate elettorali. «Evidente, ai nostri fini – specifica la Dna – il rilievo dei fatti appena richiamati: tenuto conto della circostanza che (all’epoca) i gruppi di ‘ndrangheta in questione, erano certamente legati al “Crimine di Polsi”, si comprende come il fatto sia dimostrativo, ancora una volta, del ruolo svolto dalle cosche di Reggio città. Vale a dire quello di mantenere, nell’interesse di tutta la ‘ndrangheta, i rapporti con la politica “alta”. In questo caso infatti, seppure il legame forte del Matacena, accertato giudiziariamente, era quello con i Rosmini che creavano il canale diretto con il politico, questo legame, tuttavia, lungi dall’essere riservato esclusivamente alla predetta cosca e, quindi, gestito in modo monopolistico, si estendeva alle altre componenti della ‘ndrangheta, operanti in territori lontani e diversi».

Proprio questa particolare conformazione della ‘ndrangheta di Reggio città, questa sua specifica attitudine al rapporto con i ceti dirigenti, trova conferma e controprova nella diversa dislocazione e composizione delle proiezioni nazionali ed estere delle cosche del mandamento di centro, che anche in questo, presentano peculiarità rispetto a quelle dei mandamenti della Tirrenica e della Ionica.

Per ora ci fermiamo ma la prossima settimana si ricomincia.

Roberto Galullo

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/02/27/relazione-dna3-la-capacita-delle-cosche-reggine-di-legarsi-alla-politica-e-condizionarla-il-caso-matacena/

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