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Reggio, arrestato il boss Carmine De Stefano

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L’uomo deve scontare una pena rideterminata, per tre sentenze di condanna (Milano e Reggio Calabria), in 18 anni, 3 mesi e 14 giorni di reclusione

Nella giornata odierna, personale della Squadra Mobile di Reggio Calabria ha tratto in arresto DE STEFANO Carmine, nato a Reggio Calabria l’1.03.1968, esponente di primissimo piano della omonima famiglia di ‘ndrangheta, in esecuzione di un provvedimento emesso dalla Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria che ha ordinato il ripristino di una precedente carcerazione per associazione mafiosa e traffico di sostanze stupefacenti.

Per tali delitti, commessi dal DE STEFANO tra la Calabria e Milano, nel periodo compreso tra la seconda metà degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta, unitamente al germano Giuseppe ed al suocero COCO TROVATO Franco, referente della cosca nella sua proiezione in Lombardia, egli, adesso, dovrà scontare un residuo pena di 2 anni, 9 mesi e 28 giorni di reclusione, determinati con ordinanza del 29.01.2015 della Corte di Assise e d’Appello di Reggio Calabria.

L’esponente della cosca DE STEFANO, figlio del defunto don Paolino, capo indiscusso della ‘ndrangheta reggina, la cui uccisione, avvenuta nell’ottobre del 1985, scatenò la seconda guerra di mafia, iniziava, in data 03.10.1994, il suo periodo di latitanza, sottraendosi ad un’Ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della Repubblica di Milano per gli stessi delitti sopra indicati.

Successivamente, egli veniva rinviato a giudizio per i delitti di associazione mafiosa e duplice omicidio nel noto processo “Olimpia” che ha segnato una tappa storica nella lotta alla mafia reggina e condannato con sentenza della Corte di Assise di Reggio Calabria del 19.01.1999 per il solo delitto di associazione mafiosa alla pena di anni 8 di reclusione, ridotti, in Appello, a 4 anni e 8 mesi di reclusione.

La latitanza del DE STEFANO, inserito nell’elenco stilato dal Ministero dell’Interno dei ricercati pericolosi, terminava in data 08.12.2001, allorché personale di questa Squadra Mobile, a seguito di un blitz, lo catturava all’interno di un appartamento del popolare quartiere Arghillà di Reggio Calabria.

Il DE STEFANO Carmine era stato scarcerato, recentemente, in data 09.06.2014 per fine pena e era stato sottoposto alla Sorveglianza Speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel Comune di Reggio Calabria.

Adesso, la Procura Generale della Repubblica di Reggio Calabria, a seguito di vari ricorsi, anche per Cassazione, relativi all’applicazione dell’istituto del reato continuato, all’esito dei quali si è stabilito che il DE STEFANO doveva scontare una pena rideterminata, per tre sentenze di condanna (Milano e Reggio Calabria), in 18 anni, 3 mesi e 14 giorni di reclusione e di interdizione perpetua dai pubblici uffici, ha disposto una nuova carcerazione del predetto, in virtù del calcolo tra quanto da lui finora scontato e la pena inflittagli.

http://approdonews.it/giornale/?p=158266


Ndrangheta s.p.a. – Articoli su Il caffè geopolitico

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Radici arcaiche e tradizioni senza tempo

E’ il 18 novembre 2014, nei tg nazionali compaiono diversi servizi con questo titolo “Ndrangheta, 40 in manette: per la prima volta la D.D.A. di Milano filma i rituali di affiliazione”.

Le immagini sembrano proiettarci in un mondo arcaico, misterioso ed anacronistico che pensavamo definitivamente estintosi in nome del progresso e della tecnologia. E invece è più che mai vivo, scorre negli interstizi reconditi della nostra società democratica, corrode senso civico ed identità comunitarie per affermarsi con violenza ed omertà. Cominciamo qui un viaggio all’interno di una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo, orientandoci nei meandri dei suoi gangli vitali e cercando di comprendere il segreto della sua longevità.

LA STRUTTURA DELLA NDRANGHETA – La mole ingente dei dati investigativi accumulati negli anni ha permesso di riconoscere nella Ndrangheta una struttura unitaria gerarchicamente organizzata, ove le decisioni vengono assunte dal vertice nel rispetto rigoroso di regole e procedure, lasciando alle articolazioni esterne delimitati margini di autonomia territoriale.
Partiamo dalle ndrine: sono associate a singoli nuclei familiari legati tra loro da vincoli di sangue che ne esaltano la coesione e rendono estremamente difficile il fenomeno del pentitismo in quanto distacco definitivo da un contesto, prima ancora che criminale-economico, affettivo e totalizzante. In questa rete di relazioni tradizionali non sono infatti rari i matrimoni tra appartenenti a ndrine diverse: la cosiddetta “endogamia di ceto” possiede tuttora un alto valore simbolico, utile a saldare i rapporti tra famiglie, a porre fine a conflitti e costituire occasioni per riunioni di alto livello.
Cellula fondamentale della organizzazione è la locale (non necessariamente coincidente con una precisa area amministrativa): più ndrine nella stessa zona possono formare “la locale” purchè raggiungano il requisito di almeno quarantanove affiliati. Ogni locale ha:

  • un capo bastone che dirige ed organizza tutta l’attività criminale (affiliazioni e promozioni comprese) e può autorizzare la creazione di ndrine distaccate quando affiliati allo stesso locale chiedano di costituire unità supplementari, organiche ad esso ma non necessariamente fondate sul vincolo di sangue;
  • un contabile che gestisce le finanze e provvede al sostegno delle famiglie dei carcerati attingendo dal fondo comune (detto “bacinetta”);
  • un crimine responsabile della pianificazione ed esecuzione delle attività illecite;
  • un mastro di giornata, portavoce del capo e responsabile della sua sicurezza personale.

Le prime tre cariche formano la “copiata”, terna di nomi con cui può farsi riconoscere ogni affiliato che si presenti in una “locale” diversa dalla propria. Ogni locale si caratterizza per una divisione interna in “società maggiore” (organo decisionale costituito da almeno sette affiliati con il grado di “santista”) e “società minore”, gerarchicamente legata alla prima. Anche qui sono presenti figure specifiche:

  • il capo giovani comanda la società minore e detiene la “mezza”, l’autorizzazione a conferire direttamente col capo bastone;
  • il puntaiolo vigila sul comportamento dei giovani affiliati;
  • il picciotto di giornata ha le stesse funzioni, al suo livello, del mastro di giornata.

Locali e ndrine distaccate operano all’interno dei mandamenti che insistono nelle tre macro-aree del territorio provinciale reggino (“ionica”, “tirrenica”, “centro”). Al vertice si colloca infine la struttura denominata provincia, governata dal capo crimine.
La suddivisione in locali e ndrine si replica in ogni ramificazione territoriale della Ndrangheta, sia dentro che fuori i confini nazionali; seppur dotate di una certa autonomia operativa, le cellule periferiche sono inquadrate nell’organigramma rispondendo all’organismo di vertice reggino senza possibilità di alternative.

Cosche della Ndrangheta operanti nella provincia di Reggio Calabria

Cosche della Ndrangheta operanti nella provincia di Reggio Calabria

I GRADI DEGLI AFFILIATI – Nella gerarchia dei ruoli si parte dal giovane d’onore, titolo assegnato per diritto di sangue ai figli degli ndranghetisti; crescendo si arriva al primo vero gradino della carriera, il picciotto d’onore, mero esecutore di ordini con dovere di cieca obbedienza agli altri gradi della cosca. Dopo un tirocinio più o meno lungo gli affiliati più affidabili divengono camorristi o, in caso di incarichi di rilievo, sgarristi, ultimo grado della società minore. Della società maggiore fanno parte il santista, il vangelo (il mafioso presta giuramento di fedeltà mettendo una mano sulla copia del Vangelo), il quartino, il trequartino, fino ad arrivare al padrino, grado apicale che contraddistingue una esigua oligarchia. Chi non fa parte della Ndrangheta viene definito contrasto (o in modo spregiativo ‘mpami, riferendosi ai confidenti delle forze di polizia ed ai cittadini che denunciano), mentre i collaboratori esterni sono chiamati contrasti onorati: questi rappresentano quell’area di contiguità o di consenso che rende l’organizzazione particolarmente pervasiva sul territorio. Nella tradizione criminale la Ndrangheta è rappresentata dall’albero della scienza, una grande quercia alla cui base è collocato il capo bastone, il tronco in qualità di colonna portante rappresenta gli sgarristi, i rami più grandi sono i camorristi mentre i ramoscelli sono i picciotti. Le foglie sui rami sono i contrasti onorati mentre quelle che cadono i traditori destinati a morire. In ragione di questa rappresentazione allegorica il grado nel gergo si chiama anche “fiore”.

I RITI DI INIZIAZIONE – Il rito viene comunemente denominato “rimpiazzo” o “taglio della coda”: nel linguaggio dell’onorata società si dice infatti che il contrasto onorato camminando sollevi polvere, per cui il taglio della coda renda i suoi passi invisibili, come se stesse camminando su un tappeto di erba e fiori. L’affiliazione è detta “di ferro, fuoco e catene”, dove il ferro si riferisce al pugnale, il fuoco alla candela che brucia l’immagine sacra e le catene al carcere, in quanto prima o poi ogni membro proverà lo “scrusciu di catini”, ovvero il rumore delle catene ai polsi. Il “battesimo” avviene con un rito preciso (per i figli degli appartenenti al compimento del loro quattordicesimo anno di età), nel quale il mafioso che presenta il novizio garantisce con la vita e l’affiliazione dura per sempre. Poiché la Ndrangheta si presenta come una sintesi di sacro e profano, nella quale le finalità illecite vengono ammantate da un alone di sacralità religiosa, ogni grado fino al livello di santista, ha un riferimento religioso che si identifica con un santo protettore (per il picciotto è Santa Liberata, per il camorrista Santa Nunzia, per gli sgarristi Santa Elisabetta). Non mancano poi i riferimenti ad alcune figure storiche della Massoneria italiana, presunta o accertata, a rimarcare il ruolo di “stato parallelo” a cui ambisce l’organizzazione.

Le donne tra emancipazione e sottomissione

È un dato ormai consolidato come la presenza delle donne nella Ndrangheta non sia più un elemento occasionale, ma, in risposta agli arresti su larga scala e nel solco del modello familiare originario, queste abbiano negli anni scalato i gradini dell’onorata società fino a raggiungere cariche di particolare rilievo, alle quali si accompagnano compiti e responsabilità un tempo inimmaginabili per un mondo tradizionalmente chiuso.

AMBIGUITÀ DI FONDO FRA TRADIZIONE E REALTÀ – Il ruolo delle donne è fondamentale per la formazione e il consolidamento del potere mafioso. Queste, infatti, rappresentano le vestali del codice ndranghetista, svolgendo nella sfera privata quel ruolo di contenimento interno a garanzia della stretta osservanza delle regole. Il loro tradimento può esporre alla sanzione estrema, la morte, applicata spesso con le modalità più esemplari. La presenza femminile nell’organizzazione non è mai stata formalmente codificata, sebbene nella realtà dei fatti sia stata riscontrata l’esistenza di una loro apposita carica, la sorella d’omertà. La tradizione vieta loro espressamente veri e propri riti di iniziazione, sia perché considerate in grado di svolgere ruoli criminali in quanto biologicamente appartenenti alla ndrina, sia perché il loro giuramento di fedeltà alla Ndrangheta coincide col loro dovere di fedeltà coniugale. Eppure si ha testimonianza di alcune eccezioni che, in qualità di “candidate”, hanno dovuto comunque indossare i panni di un uomo nel corso del loro battesimo criminale.
I processi di mutamento socio-culturali hanno tuttavia contribuito a modificare la posizione delle donne nell’architettura mafiosa, senza tuttavia pervenire a una completa “emancipazione femminile”, potenzialmente sovversiva dell’ordine secolare su cui si fondano le cosche. Per usare le parole della giornalista Ombretta Ingrascì, parlare di pseudo-emancipazione rende possibile cogliere tutte le ambiguità della condizione femminile nella mafia, che occupa uno spazio al confine tra responsabilità e vittimizzazione. L’ambiguità della loro presenza nell’organizzazione sta tutta nella “esclusione formale contrapposta a una partecipazione sostanziale” che ne caratterizza il cammino.

FUNZIONI ‘ATTIVE’ E ‘PASSIVE’ – La partecipazione femminile è stata influenzata, da un lato, dall’adattamento ai nuovi mercati illeciti (in primis narcotraffico) e dalla reazione alle attività di contrasto dello Stato, dall’altro dai profondi mutamenti della condizione della donna nella società, soprattutto nel mercato del lavoro e nei costumi sociali. Il loro contributo alla causa mafiosa è divenuto nel tempo un oscuro connubio di funzioni attive e passive.
Le prime riguardano l’assistenza ai latitanti e, principalmente, la trasmissione del codice culturale mafioso ai figli attraverso un processo educativo basato su disvalori come l’omertà, la vendetta e il disprezzo delle Istituzioni pubbliche, oltre al tramandarsi di un rigido modello di subordinazione femminile all’autorità maschile. La centralità della famiglia, luogo di incontro degli affetti, ma anche degli affari mafiosi, amplifica l’importanza delle figure femminili. La sociologa Renate Siebert ha introdotto il concetto di pedagogia della vendetta, per cui le donne si ergono a custodi dell’onore offeso dei propri uomini e la vendetta viene intesa come elemento cardine di un ordinamento giuridico alternativo a quello dello Stato, tanto più efficace quanto più impregnato di riferimenti simbolici che ne diano risonanza (tempi e luoghi della sua esecuzione, trasversalità).
Le funzioni passive si concretizzano nella difesa della reputazione maschile e nel ruolo di pedine di scambio nelle politiche matrimoniali. Alle donne è perciò richiesto un comportamento sessuale “rispettoso”, pena la perdita dell’onore dei propri congiunti, condizionandone l’entrata nell’organizzazione o la carriera al suo interno. Gli uomini devono quindi esercitare uno stretto controllo, che si perpetua anche dal carcere attraverso gli “occhi del clan”: se l’uomo si dimostra infatti capace di mantenere un controllo totale sulle proprie donne, agli occhi dei propri sodali sarà capace di possederlo anche sul territorio. I matrimoni vengono spesso utilizzati per vertici organizzativi di grande rilievo e, attraverso questi, per rinsaldare alleanze o porre fine a faide intestine e creare nuovi importanti sodalizi.

TRASFORMAZIONI DI GENERE NEGLI EQUILIBRI CRIMINALI – Oggi siamo di fronte a una nuova generazione di donne, che si sono adeguate alla domanda mafiosa in nome dell’offerta, giocando un ruolo chiave in alcuni specifici settori illeciti quali il traffico di droga e il riciclaggio economico-finanziario, pervenendone al comando e alla gestione diretta prevalentemente quando la figura maschile è assente perché in carcere o latitante. E infatti la scalata dei ruoli emerge maggiormente nei periodi di vuoti di potere, quando le donne divengono indispensabili per dare continuità alle attività criminali delle ndrine, anche solo ricoprendo quel ruolo strategico di messaggere tra il carcere e l’esterno. Ennesima testimonianza di quella già citata “pseudo-emancipazione” che sottolinea la natura delegata e temporanea del potere femminile nella mafia. La sua concezione minoritaria ha per molti anni portato a una sottovalutazione della pericolosità delle donne mafiose. Le loro condanne spesso si sono ricondotte al mero reato di favoreggiamento personale, poiché erroneamente si considerava la partecipazione femminile come accidentale, senza considerare che, per portare avanti efficacemente determinati meccanismi illeciti, fosse indispensabile essere inseriti a tempo pieno nel gruppo criminale. Solo dal 2000 le condanne per associazione di stampo mafioso hanno abbattuto la logica delle categorie di genere e si è iniziato a far ricorso all’applicazione del cosiddetto carcere duro anche alle detenute.
Ma le donne hanno un ruolo fondamentale anche nel pentitismo. Due sono le strade percorribili: rinnegare la scelta di chi collabora e rimanere fedeli al sistema mafioso o seguire la scelta del congiunto e abbandonare definitivamente la famiglia di appartenenza. Si capisce quindi il loro ruolo essenziale nel supportare, in termini pratici e psicologici, il collaboratore. Giovanni Falcone fu il primo ad aver riconosciuto quanto la figura femminile fosse determinante nel percorso di collaborazione di un “pentito”. Ma la vera minaccia oggi per la Ndrangheta si annida laddove madri, sorelle e figlie di uomini d’onore decidano di compiere questo passo in prima persona, non per fiducia nelle Istituzioni (che spesso anzi disprezzano), ma per il desiderio di liberarsi, di spianare una strada diversa per sé o per i propri figli. I mafiosi temono la scelta della collaborazione come fatto in sé, non soltanto il suo contenuto in termini di prova processuale, poiché la forza imitativa di una rottura manifesta e pubblica del gioco dell’omertà e della sopraffazione può svelare a tutti che davvero un’alternativa alle loro vite esiste e si può percorrere.

Una potenza economica senza pari

L’estensione delle attività delinquenziali, la loro diversificazione e la disponibilità di enormi risorse finanziarie hanno impresso alla ‘ndrangheta caratteristiche e dimensioni di una holding multinazionale e globale, ultimo anello di una perversa ed inarrestabile evoluzione che, nel giro di qualche decennio, ha portato alla trasmutazione di una mafia radicale ed arcaica in una sofisticata ed imprenditrice.

COLONI ECONOMICI – Unico tratto costante tra passato e presente è il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle relative strutture sociali, politico-amministrative e produttive, esercitato sia con una sotterranea, subdola violenza (psicologica ed armata), sia grazie ad un immenso potere corruttivo. Fattori alla base di una vera e propria “colonizzazione economica”, rivelatasi capace di influenzare il P.I.L. di un’intera nazione.

IL NARCOTRAFFICO, FONTE PRIMARIA DI ARRICCHIMENTO – Il Centro Studi Eurispes quantifica in circa 44 miliardi di euro l’illecito profitto annuo ricavato dalla ‘ndrangheta, di cui il 62% derivante dal traffico di droga (soprattutto cocaina), il più dinamico tra i mercati criminali su scala mondiale. Attraverso la medesima rete logistica vengono alimentati anche traffici-satellite di rifiuti tossici (diretti in Cina, India, Russia ed in alcune nazioni del Nordafrica), di armi ed il contrabbando di tabacchi (in una nuova fase di espansione verso i Paesi più poveri). Si stima che l’80% della cocaina in Europa arrivi dalla Colombia via Gioia Tauro, porto che rappresenta un nodo cruciale di smistamento per tutto il Mediterraneo; i vettori utilizzati sono in prevalenza navi mercantili, provenienti principalmente dal Brasile e dal Perù.
Nell’ultimo decennio le cosche del quadrilatero Africo – San Luca – Platì – Ciminà, nella provincia di Reggio Calabria, e il gruppo Mancuso di Limbadi, nella provincia di Vibo Valentia, hanno acquisito un ruolo di grande rilievo nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti, riuscendo ad approvvigionarsi di tonnellate di droga direttamente presso i produttori colombiani e boliviani. Questo filo diretto ha segnato un passaggio epocale verso la “terziarizzazione” della ‘ndrangheta, non più mero utente finale ma co-produttore della pasta da coca nei laboratori siti presso le piantagioni del sud-America. In questa prospettiva si spiegano anche i collegamenti consolidati con alcune organizzazioni terroristiche locali come le Autodefensas Unidas de Colombia il cui capo, Salvatore Mancuso, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza ad Imperia nel 2014. 

trend evolutivo crimorg

Tav. I

IL RICICLAGGIO, ARMA LETALE DEL POTERE ECONOMICO  ILLEGALE – Ciò che differenzia tuttavia radicalmente la ‘ndrangheta dalle mafie tradizionali è la sua impostazione criminogena da “full service provider”. Sul finire degli anni Novanta, la guerra del Kosovo aveva bloccato una delle arterie di contrabbando più importante in Europa, quella dei Balcani. Forte delle sue solide ramificazioni in Italia e nei Paesi confinanti, la ‘ndrangheta ha saputo cogliere al volo l’occasione, offrendosi come nuovo punto di riferimento per le organizzazioni legate al traffico di esseri umani, armi e droga. Ha concesso loro di gestire i propri affari illeciti sul suo territorio, è entrata in pianta stabile in essi fornendo direttamente i mezzi, i canali, a volte le persone atte a promuoverli, ma soprattutto ha garantito ai sodalizi criminali stranieri una formidabile rete per il riciclaggio del denaro sporco, specializzandosi così in questo nuovo settore e traendone un ulteriore profitto, che varia dal 30 al 40% sul business prodotto. Un altro evento ha poi contribuito a dare risonanza ”globale” al potere finanziario delle ‘ndrine, ovvero l’approvazione del Patriot Act nel 2001, seguito all’attentato alle torri gemelle. Questo infatti ha significato la chiusura del florido mercato del riciclaggio di denaro negli Stati Uniti, inasprendo i controlli su qualsiasi transazione effettuata in dollari e bloccando l’uscita dei capitali verso i cosiddetti paradisi fiscali. Contemporaneamente, il rafforzamento dell’euro sul dollaro, le minori tassazioni sulle operazioni finanziarie (negli USA la percentuale richiesta sulle transazioni illecite per ripulirle poteva arrivare anche al 55%), l’assenza di un’analoga legge europea in materia di riciclaggio di denaro, hanno spinto molte organizzazioni criminali e terroristiche, dalla Colombia come dall’Afghanistan, a lavorare con la ‘ndrangheta, facendogli compiere il definitivo salto di qualità. In poco tempo la Calabria è divenuta quindi la nuova porta di ingresso del Mediterraneo e, allo stesso tempo, il motore di una gigantesca “lavatrice finanziaria”.
Quale è il principio di funzionamento di una macchina apparentemente perfetta? La base di partenza delle indagini (ma in realtà la punta dell’iceberg dell’economia criminale sommersa) è costituita dall’individuazione di società apparentemente legali, in grado di monopolizzare il proprio mercato di riferimento: non essendo infatti vincolate a priori ai profitti, sono in grado di offrire servizi migliori a prezzi più bassi, raggiungendo standard di competitività impossibili per gli imprenditori onesti. Questi pertanto, sul medio-lungo periodo, rimangono attanagliati da una spirale recessiva irreversibile che li vede costretti, in ultima battuta, a vendere la propria attività o a dichiarare bancarotta.

tendenze crimorg

Tav. II

Le imprese colluse sono libere così di “drogare” il libero mercato a piacimento, influenzando prezzi e forniture con ricavi esorbitanti e, circostanza ancor più grave, in totale regime di legalità. I settori economici maggiormente utilizzati sono l’edilizia, l’imprenditoria alberghiera, la ristorazione ed i servizi quali trasporti e sanità.
Nell’edilizia le operazioni di riciclaggio possono avvenire sia attraverso l’attività d’impresa finalizzata alla costruzione di edifici, sia attraverso l’intermediazione nella vendita immobiliare. Nel primo caso inizialmente società operanti con capitali mafiosi, ma intestate a prestanome incensurati ed apparentemente privi di collegamento con i clan, acquistano terreni agricoli ottenendo poi dai Comuni le relative licenze edilizie. Successivamente, le stesse società appaltano la costruzione di unità immobiliari a ditte in cui compaiono invece imprenditori o loro familiari, legati in modo più diretto ai gruppi della ’ndrangheta. Il pagamento del contratto di appalto non avviene in denaro bensì con la cessione di una quota, di solito il 50%, delle unità costruite, che l’impresa costruttrice vende ad altre società immobiliari, anch’esse legate ai clan, che rivendono a privati.
Un modo più semplice ed immediato di riciclare ingenti capitali avviene attraverso il ricorso al sistema delle vincite a giochi e lotterie nazionali, condotto acquistando con denaro sporco dal reale vincitore le schedine vincenti e riscuotendo i premi in denaro in sua vece. Il denaro pulito (proveniente dallo Stato) viene fatto accreditare su conti correnti accesi appositamente, sottraendosi così al rischio di segnalazioni per operazioni sospette.

Dalle recenti indagini sono emersi nuovi sofisticati meccanismi di movimentazione dei narco-proventi, puramente finanziari: attraverso una rete di società “veicolo” (direttamente controllate dai sodalizi criminali) si possono giustificare trasferimenti di denaro in qualità di fittizie operazioni societarie (aumenti di capitale), finanziarie (concessioni di finanziamento cui non seguono restituzioni o pagamento di interessi) o commerciali (cessioni di beni o prestazioni di servizi), tutte naturalmente “estero su estero”. Per generare le annesse false fatturazioni vengono coinvolti centri di intermediazione economico-finanziaria, costituiti ad hoc tra Australia, Singapore, Olanda ed Italia che rendono possibile, mediante l’impiego di professionalità altamente specializzate, una sofisticata gestione dei canali di illecita intermediazione del credito, fondati sostanzialmente sul metodo del prestito garantito o del deposito in garanzia di capitali. Ovviamente le transazioni vengono rivolte sempre verso Paesi offshore (isola di Man, Jersey, isole Cayman tanto per citarne i più famosi) per il ridottissimo livello di tassazione previsto, l’assoluta garanzia del segreto bancario e commerciale, la rapidità delle operazioni finanziarie consentita dalle rispettive legislazioni interne, l’impossibilità di richiedere l’assistenza giudiziaria da parte dei Paesi interessati, la favorevole posizione geografica, quasi sempre insulare, l’adeguato regime dei cambi e la possibilità di negoziare altre valute senza limiti di sorta, la scarsa o limitata cooperazione da parte dei locali organi di vigilanza in seno alle banche centrali (le cosiddette “Financial Intelligence Unit”). Tali Paesi si distinguono inoltre per la presenza di società fiduciarie e fornitrici di servizi finanziari (Trust Companies/Company Service Provider), utilizzate per schermare la titolarità dei flussi finanziari in quanto consentono ai loro clienti di operare su piattaforme bancarie e societarie multi-giurisdizionali, che ostacolano sensibilmente l’attività di individuazione e di ricostruzione dei movimenti di capitale illecito.

Tav. III

Tav. III

Ulteriore e concreto fattore di rischio è costituito dal riciclaggio attraverso i servizi offerti dai vari Offshore profit center su internet: libretti al portatore elettronici, carte di credito su conti anonimi disponibili prevalentemente nei Paesi dell’Est europeo e del continente africano, corrieri telematici, fittizi certificati d’identità, di cittadinanza e titoli onorifici. I sistemi di cyberpagamento, del resto, annullano oggi il problema più evidente del riciclaggio, legato alle ingombranti dimensioni fisiche di enormi quantitativi di denaro, oltre ad offrire un ulteriore cono d’ombra rappresentato dalle imbarazzanti differenze nazionali tra gli standard di sicurezza adottati sulle reti telematiche. Alla luce di quanto esposto appare dunque evidente come il reale limite del contrasto all’economia criminale non risieda tanto nell’ostacolare le attività illecite su scala mondiale, bensì nell’individuare il flusso di denaro che da queste deriva, una volta immesso nei circuiti finanziari.

NUOVE FORME DI CONTROLLO DEL TERRITORIO – Il numero delle denunce quasi inesistente, le associazioni antiracket sporadiche e prive di larga partecipazione popolare, la stessa Confindustria di Reggio Calabria già commissariata dai vertici nazionali. Pochi, emblematici dati che fotografano una desolante desertificazione della legalità nelle terre di ‘ndrangheta. L’usura rappresenta non solo una forma di riciclaggio indiretto dei proventi del narcotraffico, ma racchiude in sé anche una “funzione di controllo sociale” su tutto ciò che insista nelle aree di influenza delle cosche, sia realtà autoctone che interessi esterni.
Emblematico in tal senso è il caso delle imprese nazionali che in Calabria riescono ad aggiudicarsi gli appalti per le grandi opere pubbliche solo in relazione al loro ingresso nel “sistema di sicurezza” affidato alle famiglie mafiose, che controllano il territorio e garantiscono le ditte da incidenti e danneggiamenti in cambio del 4-5% degli introiti. Un vero e proprio “costo d’impresa” aggiuntivo, che le ditte possono recuperare come se si trattasse di una “spesa deducibile sui generis” con l’assegnazione di un piccolo appalto per la realizzazione di un’opera di minor valore. A dimostrazione di come i costi della criminalità si ripercuotano in ultima battuta sempre sulla collettività. La ‘ndrangheta da sempre è protesa al controllo diretto, assoluto e totalizzante dei grandi flussi di denaro pubblico. Le modalità di accaparramento sono varie (appalti pubblici, contributi statali, frodi comunitarie, truffe in danni di enti ecc…), ma hanno come dato comune il condizionamento degli amministratori locali e l’inquinamento della Pubblica Amministrazione, nella prospettiva di realizzare una vera e propria gestione parallela della res pubblica, attraverso ad esempio l’elezione diretta di sindaci o il controllo degli apparati amministrativi, dai Comuni alle A.S.L. fino alle società miste per la gestione dei servizi.
Figure chiave poiché rappresentano le istituzioni pubbliche situate al livello più immediato del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Emblematica fu, nel merito, la frase pronunciata nell’audizione del 7 febbraio 2007 dall’allora Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso: “…in certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi”, sottolineando così la sottrazione di intere aree del territorio calabrese al controllo dello Stato. Aree dove non è difficile riscontrare l’assenza di piani regolatori, l’assoluta inefficienza dei servizi di polizia municipali, gravi disservizi nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti, il dilagante e distruttivo abusivismo edilizio, intollerabili carenze nella manutenzione di infrastrutture primarie (strade, scuole, asili), assunzioni clientelari di personale nella pubblica amministrazione, oscure anomalie nell’affidamento di appalti e servizi pubblici, ma, soprattutto, drammatiche condizioni di dissesto finanziario.          

Gianni Cavallo

Un Chicco in più

Per chi volesse approfondire gli argomenti trattati consigliamo le seguenti letture:

  1. Loretta Napoleoni, “Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale”, Il Saggiatore, 2009, p.310.
  2. “Gli investimenti delle mafie”, Rapporto realizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (Centro Interuniversitario Transcrime) per il Ministero dell’Interno (PON Sicurezza 2007-2013); a cura di Savona E., Milano 2012.
  3. Rapporto Europol: “Threat Assessment-Italian organised Crime”, L’Aja, 2013.
  4. Intervento del Direttore della D.I.A., Dir. Gen. P.S. Arturo DE FELICE, dal titolo “L’ATTIVITA’ DELLA D.I.A. A TUTELA DELL’ECONOMIA LEGALE. CONTRASTO AI PATRIMONI ILLECITI QUALE MOMENTO QUALIFICANTE PER LA SICUREZZA ECONOMICA DEL PAESE” , Roma 26 febbraio 2014 presso l’Istituto Alti Studi per la Difesa, 65^ Sessione Ordinaria – 13^ Sessione Speciale I.A.S.D.

http://www.ilcaffegeopolitico.org/26736/ndrangheta-s-p-a-una-potenzaeconomica-senza-pari

 

Il comune parte civile contro i clan di ‘ndrangheta e nella notte l’auto del sindaco viene incendiata

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L’auto del sindaco di Stefanaconi, nel Vibonese, è stata data alle fiamme nel corso della notte, proprio a pochi giorni di distanza dalla decisione del comune di costituirsi parte civile nel processo contro i clan del posto

di GIANLUCA PRESTIA

Il comune parte civile contro i clan di 'ndrangheta<br />
e nella notte l'auto del sindaco viene incendiataIl sindaco Salvatore Di Sì

STEFANACONI – Pochissimi giorni addietro il Comune aveva deciso di costituirsi parte civile al processo contro il clan locale dei Patania, alcuni membri del quale oggi compariranno davanti al gup di Catanzaro per l’udienza preliminare. Questa mattina all’alba ignoti hanno dato alle fiamme, intorno alle 5.30, l’auto del sindaco di Stefanaconi Salvatore Di Sì.

Si fa incandescente la situazione nel piccolo centro limitrofo al capoluogo vibonese che fa registrare un nuovo attentato ai danni di un amministratore locale. Al momento è presto per dire se ci sono relazioni tra i due fatti ma la tempistica è quantomeno sospetta. Il mezzo del primo cittadino, una Seat Ibiza, era parcheggiato a fianco all’abitazione dell’esponente del partito democratico. Sul posto i vigili del fuoco e i carabinieri della stazione di Sant’Onofrio. I componenti del clan sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, usura ed estorsioni aggravate dalle modalità mafiose. Figurano indagati anche un ex maresciallo dell’arma ed un parroco per concorso esterno in associazione mafiosa.

venerdì 27 febbraio 2015 09:23

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/734578/Il-comune-parte-civile-contro-i.html

Sequestro nel Cosentino, colpiti eredi di Franco Straface

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Sigilli a ville, case e conti correnti per 8 milioni

Gli eredi di Franco Straface, fratello dell’ex sindaco di Corigliano Pasqualina Straface, sono stati raggiunti da un sequestro per un valore di circa 8 milioni di euro collegato all’inchiesta anti ‘ndrangheta Santa Tecla
Sequestro nel Cosentino, colpiti eredi di Franco Straface<br />
Sigilli a ville, case e conti correnti per 8 milioni

COSENZA – Un maxi sequestro di beni per un valore complessivo pari a circa 8 milioni di euro è stato messo a segno dai finanzieri del Gico del Nucleo di polizia tributaria di Catanzaro a carico degli eredi di un imprenditore, Franco Straface, ritenuto legato al “locale di ‘ndrangheta di Corigliano”.

Il sequestro si inserisce nalla scia dell’operazione Santa Tecla nella quale era rimasto coinvolto l’imprenditore, poi deceduto, ed il fratello. In seguito fu sciolto per infiltrazioni mafiose il Comune di Corigliano guidato dalla sorella dei due imprenditori, Pasqualina Straface. Il provvedimento di sequestro è stato emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Cosenza su richiesta del Procuratore della Repubblica distrettuale di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo.

L’inchiesta Santa Tecla, scatta nel 2010, portò alla contestazione di vari reati quali associazione mafiosa, usura, estorsione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti a diversi soggetti residenti in varie regioni d’Italia, ma tutti riconducibili all’organizzazione ‘ndraghetistica coriglianese. Le indagini attuali, condotte dai finanzieri di Catanzaro, avrebbero dimostrato, in particolare, come alcuni imprenditori, avvalendosi della forza intimidatrice della cosca, diventavano partner «obbligati» nell’esecuzione di vari lavori, edili, di movimento da terra, instaurando di fatto un particolare quanto fraudolento regime di «monopolio» e diventando allo stesso tempo un’importante fonte di guadagno per la cosca stessa, a cui venivano destinati una parte dei proventi realizzati.

Secondo quanto indicato dagli stessi finanzieri la pericolosità sociale dei soggetti proposti per il sequestro sarebbe stata dimostrata dal tipo di azioni poste in essere volte all’acquisizione dei lavori pertanto hanno aggredito i loro patrimoni in base alla speciale normativa che prevede, tra l’altro, il sequestro patrimoniale anche a carico degli eredi del soggetto principale.

I sigilli sono stati posti a vari immobili, tra cui appartamenti e villette di pregio, terreni, attività commerciali, quote societarie, automezzi e conti correnti bancari e postali.

venerdì 27 febbraio 2015 08:56

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/734574/Sequestro-nel-Cosentino–colpiti-eredi.html

Corigliano | ‘Ndrangheta: Straface, “tesoro” sotto chiave e Mario in carcere

Dopo il sequestro agli eredi del defunto Franco i beni di famiglia “s’avviano” verso la confisca
“Sotto chiave”. E con una chiave che, da qui a non molto, potrebbe cambiare. Cambiando serratura, e, dunque, proprietario.
Si tratta di beni mobili ed immobili, per un valore stimato in oltre otto milioni di euro, appartenuti ai fratelli Franco e Mario Straface (il primo deceduto nel novembre del 2011), notissimi imprenditori nel settore degli appalti pubblici e privati di Corigliano Calabro e fratelli, al contempo, dell’ex sindaco della più popolosa cittadina dello Jonio cosentino, Pasqualina Straface, estromessa dal municipio nel giugno del 2011, dal momento che il Comune le fu dichiarato sciolto perché “permeato” dalla ‘ndrangheta, con decreto dell’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Proprio a causa delle interessate ingerenze dei due fratelli imprenditori.
Mario Straface è stato infatti condannato, lo scorso 9 gennaio in via definitiva, a sei anni e otto mesi di reclusione per associazione mafiosa ed estorsione aggravata e continuata.
Al momento della pronuncia inappellabile da parte dei giudici della Suprema Corte di Cassazione, il 61enne da meno di due mesi era stato assegnato agli arresti domiciliari dopo la detenzione cautelare nel carcere milanese di Opera a seguito della maxioperazione “Santa Tecla”, che il 21 luglio del 2010 lo vide finire in manette insieme al fratello scomparso e ad altre sessantacinque persone tutte accusate d’appartenere al locale di ‘ndrangheta coriglianese.
Qualche giorno dopo il 9 gennaio, i familiari lo accompagnarono in Pronto soccorso, presso l’ospedale cittadino, dove l’uomo venne ricoverato per accertamenti e vi rimase piantonato dai carabinieri per una decina di giorni.
Ma l’ordine d’esecuzione della pena che ancora gli resta da scontare in carcere arrivò pure per lui, come per alcuni altri condannati definitivi, i quali, come lui, nel frattempo erano stati assegnati ai domiciliari oppure si trovavano addirittura in libertà.
I carabinieri perciò, una sera lo prelevarono dall’ospedale per trasferirlo nuovamente in carcere.
Ieri mattina, invece, i finanzieri del Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata in forza al Nucleo di polizia tributaria di Catanzaro, hanno notificato il provvedimento di sequestro dei “beni di famiglia”. Tanto a carico degli eredi dello scomparso quanto nei confronti del detenuto Mario e dei suoi familiari.
Il provvedimento è stato emesso dalla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Cosenza, su richiesta del Procuratore distrettuale di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo.
Le indagini effettuate avrebbero dimostrato come i due imprenditori, avvalendosi della forza intimidatoria del locale ‘ndranghetistico cui erano “intranei”, diventavano “partner d’obbligo” nell’esecuzione di vari lavori edili e di movimento terra, instaurando di fatto un particolare quanto fraudolento regime di monopolio, e diventando allo stesso tempo un’importante fonte di guadagno per il locale stesso a cui venivano destinati una parte dei proventi realizzati.
Non solo. Già, perché i finanzieri avrebbero, pure, dimostrato la pericolosità sociale dei soggetti proposti per il sequestro ed aggredito i loro patrimoni in base alla speciale normativa che prevede, tra l’altro, il sequestro patrimoniale anche a carico degli eredi del soggetto principale.
Oggetto del sequestro sono stati vari immobili, tra cui appartamenti e villette di pregio, terreni agricoli, attività commerciali, quote societarie, automezzi e conti correnti bancari e postali.
Tutti beni che ora “s’avviano” a un processo che appare come irreversibile: la confisca da parte dello Stato.

http://www.sibarinet.it/index.php/blog/27-cronaca/5079-corigliano-%E2%80%98ndrangheta-straface,-%E2%80%9Ctesoro%E2%80%9D-sotto-chiave-e-mario-in-carcere.html

 

Tragico incidente in autostrada: muore Bisceglia, il pm che indagava sul caso Fortuna e sui reati ambientali

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Auto fuori strada, volo di 30 metri. Ferita nello schianto una seconda persona

Tragico incidente in autostrada. E’ morto sul colpo Federico Bisceglia, 45 anni, pubblico ministero della Procura di Napoli Nord. Attualmente il corpo senza vita si trova nell’obitorio di Castrovillari.

L’incidente è avvenuto nella notte sull’autostrada A3, nei pressi di Castrovillari. Nell’incidente stradale è rimasta ferita anche una seconda persona. I due erano a bordo di una Lancia K che, per cause ancora in corso di accertamento, è finita fuori strada. L’auto ha sfondato il guardrail e ha fatto un volo di almeno 30 metri da un cavalcavia. Sul posto sono intervenuti gli agenti della polizia stradale, i vigili del fuoco ed il personale del servizio 118.

Bisceglia era esperto in reati ambientali ed era titolare delle indagini sul caso della piccola Fortuna precipitata da un palazzo al Parco Verde di Caivano e sulla relativa rete di pedofili emersa dalla tragedia.

Da qualche tempo nella Procura di Napoli Nord, Bisceglia era uno stimato magistrato impegnato in diversi filoni legati ai rifiuti e alle vicende riguardanti la Terra dei Fuochi ed i rifiuti tossici agli sversamenti di liquami nel mare di Capri. Ambiente, ma non solo. Bisceglia si era occupato anche di altre questioni come gli appalti per la Coppa America. Il magistrato in incontri con studenti e cittadini in più occasioni illustrò la particolare pericolosità dei reati ambientali e le conseguenze sulla crescita civile.

Il Procuratore della Repubblica di Napoli, Giovanni Colangelo, appresa «con dolore» la notizia della morte del sostituto procuratore Federico Bisceglia, ha espresso alla famiglia «profondo cordoglio e vicinanza».

«Con dolore abbiamo appreso della scomparsa del magistrato Federico Bisceglia, amico di Legambiente e in prima fila nella lotta alle ecomafie. La nostra vicinanza e cordoglio alla famiglia. Ci mancheranno i suoi consigli,la sua competenza e la sua professionalità». Così in una nota Michele Buonomo, presidente Legambiente Campania, esprime dolore, cordoglio e vicinanza dell’associazione per la scomparsa del magistrato Federico Bisceglia, morto in un incidente stradale la scorsa notte.

L’autopsia. La Procura di Castrovillari ha disposto l’autopsia di Federico Bisceglia. L’autopsia, secondo quanto si è appreso, è stata decisa per accertare l’esatta dinamica dell’incidente stradale e le cause che l’hanno provocato. Subito dopo l’autopsia si svolgeranno a Catanzaro i funerali che saranno celebrati nella basilica dell’Immacolata.

Bisceglia, al momento dell’incidente, stava rientrando a Catanzaro dai suoi familiari. Con Bisceglia c’era una donna che è rimasta ferita ed è stata ricoverata nell’ospedale di Cosenza. A Catanzaro vivono i genitori ed i fratelli di Federico Bisceglia. Si tratta di una famiglia molto conosciuta nel capoluogo calabrese.

http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/morte-autostrada-federico-bisceglia/notizie/1211383.shtml

Marfella: «Schiavone mi avvertì, attenzione a strani incidenti stradali»

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TERRA DEI FUOCHI
L’oncologo nutre dubbi sulla morte del pm Bisceglia deceduto stanotte sulla Sa-Rc:
«Lo stesso è capitato al generale Niglio che indaga su questi reati, ora ho paura»

Si addensano ombre sull’incidente stradale in cui stamattina è morto il pm della Procura di Napoli Federico Bisceglia che aveva condotto, tra l’altro, indagini su reati ambientali nella Terra dei fuochi. A lanciare inquietanti sospetti è l’oncologo del Pascale Antonio Marfella, stretto collaboratore di don Maurizio Patriciello, in prima linea nella lotta ai roghi e agli sversamenti illegali di veleni.Dopo aver appreso della morte del magistrato, Marfella sulla sua pagina Facebook ha denunciato che Carmine Schiavone, il pentito dei casalesi che per primo vent’anni fa rivelò l’interramento di veleni in Campania (morto anche lui qualche giorno fa) avrebbe avvertito, nei mesi scorsi, il medico e il sacerdote di Caivano di «stare attenti agli incidenti stradali».

Il post

Scrive il dottor Marfella: «La notizia di oggi dello schianto in autostrada del magistrato Bisceglia con il quale ho collaborato, non solo mi schianta dal dolore ma mi obbliga al terrore in considerazione del messaggio preciso che ho ricevuto in occasione dell’incontro con il pentito Schiavone insieme a padre Maurizio…sono stato “avvisato” da Carmine Schiavone ad essere particolarmente attento ad “incidenti stradali” come gia’ capitato ad un altro mio referente ed amico: il generale Gennaro Niglio». Poi la drammatica conclusione: «Ora ho davvero paura» scrive Marfella.

1 marzo 2015 | 18:28

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/15_marzo_01/marfella-schiavone-mi-avverti-attenzione-strani-incidenti-stradali-a3a915ce-c037-11e4-9edc-d6d647236eb3.shtml

Federico Bisceglia, morto il pm della Terra dei Fuochi. Carmine Schiavone ci aveva avvisati

L’improvvisa scomparsa di queste ore del magistrato Federico Bisceglia, da sempre in prima linea nelle più delicate inchieste in Terra dei Fuochi come sulle ecomafie anche in Lombardia, mi obbliga a dare ben differente peso alle dichiarazioni che ci furono fatte dal pentito Carmine Schiavone, anch’egli improvvisamente scomparso in questi giorni, durante l’incontro con Padre Maurizio Patriciello che ho raccontato nel post precedente.

Furono varie ore di sproloquio pressocché ininterrotto in cui ascoltammo atterriti descrizioni di azioni criminali e di omicidi con la stessa apparente nonchalance che abbiamo noi nel descrivere una partita di calcio. Mi ricordai della terrificante banalità del male assoluto, quella che mi aveva colpito seguendo in Tv il processo al clan “Marfella” di Pianura che per errore aveva massacrato due poveri quanto innocenti ragazzi la cui unica colpa fu di perdere tempo ad ascoltare delle musicassette sotto le finestre del clan camorristico rivale.

Ma alcune considerazioni preziose in grado di guidarci nelle scelte e un messaggio diretto per me ci furono quel giorno.

Criminali così ignoranti ma potenti e ricchi “tombavano profondo” proprio per essere certi di non avere problemi con i prodotti agroalimentari da coltivare in superficie. Avere oggi certezza che la quasi totalità dei nostri prodotti agroalimentari coltivati su terreno di copertura di discarica non a norma di rifiuti tossici tombati in profondità non siano inquinati, alza di gran lunga l’asticella della valenza criminale di queste azioni e dei rapporti che questi criminali avevano non solo con la politica, ma anche con le professioni, i famosi quanto occulti “colletti bianchi” e, come diceva Schiavone, “i servizi deviati”.

L’altra considerazione fu l’avvertimento “diretto” che mi fece, e che potevo comprendere solo io: “Dottore, noi non siamo scontenti di quello che state facendo per fare chiarezza sul danno sanitario provocato da questo disastro, anzi vi ringraziamo perché ci state aiutando a capire le fesserie che abbiamo fatto. Se fossimo stati scontenti, lei non ci sarebbe più da molti anni su questa terra. Ma una cosa gliela voglio dire: se le capita un incidente stradale come al Generale Gennaro Niglio, le sia chiaro che non siamo stati noi”.

Il riferimento al Generale Niglio era un preciso messaggio per me, che solo io, tra i presenti, potevo comprendere. Io ero diventato maestro ed amico di Padre Maurizio dal 2008, ma negli anni dal 2001 al 2003 avevo avuto l’onore di conoscere e di collaborare con il Generale Gennaro Niglio, all’epoca generale dei Nas presso il Ministero della Salute, in quanto parente del mio direttore sanitario dell’epoca. Non era casuale quel riferimento, fatto specificamente a me, al Generale Niglio, morto in un misteriosissimo incidente stradale in Sicilia nel 2004.

Significava che di me sapeva molto più di tutti, che ero stato setacciato nel dettaglio alla ricerca di possibili e sempre utili argomenti di intimidazione o ricatto e me lo faceva intendere: ma come poteva, un pentito criminale, avere tante e così dettagliate informazioni anche su di me e dopo il suo pentimento? Ed era un avvertimento solo per me, o per chiunque si avvicinava troppo alla Verità che non vedeva come primi attori solo i camorristi, ma anzi, li vedeva misere e strumentalizzate comparse neanche comprimari?

Ci sono misteri che devono rimanere tali e spesso è meglio che restino tali per sempre. Ma oggi l’incidente stradale misterioso del magistrato Federico Bisceglia, che in questo ultimo anno aveva preso le redini di numerose e delicatissime indagini nella mia terra, e non solo di ecomafia, ma anche sul mostruoso caso di pedofilia della piccola Fortuna, mi terrorizza, sinceramente.

A nome non solo mio, ma di tutto il popolo campano, urlo con quanta più forza ho in corpo: dateci certezza assoluta che sia stato solo un semplice incidente stradale. All’epoca dell’incidente stradale del Generale dei Carabinieri Gennaro Niglio, girarono voci che aveva avuto quell’incidente perché si era avvicinato troppo alle “coperture” nello Stato di cui godeva Bernardo Provenzano ancora latitante.

Oggi, l’incidente stradale del magistrato Federico Bisceglia della Procura di Napoli nord, pochi giorni dopo l’altrettanto improvvisa scomparsa del pentito Carmine Schiavone, che ci metteva in guardia su possibili incidenti stradali alla “Gennaro Niglio”, sinceramente, mi terrorizza.

Sia fatta massima chiarezza, sia data certezza assoluta che si sia trattato solo di una drammatica coincidenza e di una terribile fatalità.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/02/federico-bisceglia-morto-il-pm-della-terra-dei-fuochi-carmine-schiavone-ci-aveva-avvisati/1467213/

Muore il pm Bisceglia, Di Maio: «Non credo al caso»

«Quando si tratta di Terra dei Fuochi, di rifiuti e di violazioni ambientali, gli interessi in gioco sono internazionali. E chi indaga tocca sempre i fili dell’alta tensione»

ROMA «Federico Bisceglia, sostituto procuratore di Napoli, era uno dei magistrati in prima linea per le indagini sui rifiuti e le violazioni ambientali nella Terra dei Fuochi. È morto ieri in un incidente stradale sulla Salerno-Reggio Calabria: la sua auto si è scontrata contro le barriere laterali in un tratto rettilineo non interessato da lavori di ammodernamento, finendo fuori strada dopo alcuni testacoda. La magistratura farà le sue indagini e spero riveli presto la verità. Ma su queste cose ho smesso di credere al caso». Lo scrive su facebook Luigi Di Maio (M5s); vicepresidente della camera. «Quando si tratta di Terra dei Fuochi, di rifiuti e di violazioni ambientali – aggiunge –, gli interessi in gioco sono internazionali. E chi indaga tocca sempre i fili dell’alta tensione. La commistione tra politica, camorra e imprenditoria ha ormai creato uno “stato” alternativo che vede tra gli introiti più remunerativi proprio la gestione dei rifiuti».

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/30851-muore-il-pm-bisceglia,-di-maio-%C2%ABnon-credo-al-caso%C2%BB

Processo Toro, condannato a 20 anni il boss Crea

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Condannati a quindici anni anche i figli del capobastone di Rizziconi, Giuseppe e Domenico. Assolti gli altri tre imputati

REGGIO CALABRIA È di vent’anni la condanna inflitta dal Tribunale di Palmi al boss di Rizziconi, Teodoro Crea, il “Toro” che ha dato il nome all’inchiesta che lo vede oggi condannato per associazione mafiosa. Insieme a lui sono stati condannati a quindici anni di carcere i figli Giuseppe (latitante dal 2009) e Domenico. Arrivano invece tre assoluzioni per Francesco Antonio Crea), Domenico Helenio Marvaso e Domenico Surace.
Considerata una delle famiglie più importanti fra le ‘ndrine della Piana, la cosca Crea è storicamente padrona dell’area di Rizziconi, con diramazioni anche nel Nord Italia, dove è particolarmente attiva con imprese edili nell’accaparramento di appalti pubblici. Il potere mafioso dei “Crea” – si leggeva nella relazione della commissione parlamentare antimafia presieduta dal deputato Francesco Forgione – si è rafforzato per i legami con altre famiglie storiche della ‘ndrangheta, come i “Mammoliti” di Castellace e gli “Alvaro” di Sinopoli , concretizzatosi nel controllo diretto di attività economiche nel settore delle costruzioni, degli autotrasporti e della grande distribuzione
Alessia Candito

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/30991-processo-toro,-condannato-a-20-anni-il-boss-crea

Crotone – ”Che fine hanno fatto i soldi del disastro ambientale Eni Syndial?”

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“Che fine hanno fatto i fondi a cui Eni Syndial è stata condannata a pagare dal tribunale di Milano per il danno ambientale procurato con le fabbriche di Crotone?”. A sollevare la questione l’onorevole Fabio Rampelli dove in un’interrogazione parlamentare inviata al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare chiede ”se la somma risarcitoria sia effettivamente stata trasferita al comune di Crotone, e, ove cosi’ non fosse, presso quale ente siano in giacenza quale ne sia la destinazione”. Il 24 febbraio del 2012 la decima sezione del tribunale civile di Milano nella causa civile di primo grado per danno ambientale ha condannato la «Syndial S.p.A.», societa’ del gruppo ENI attiva nel campo del risanamento, ambientale, a pagare alla Presidenza del Consiglio, al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare al Commissario delegato per l’emergenza ambientale Calabria, la somma di 56.200.000 euro come risarcimento per il danno ambientale accertato sull’ex sito industriale di Crotone.

La richiesta di risarcimento era stata inoltrata nel 2004 dalla Regione Calabria che aveva citato in danno Syndial ”per le conseguenze all’immagine e l’aumento delle spese sanitarie dovute al presunto incremento di patologie riconducibili all’attivita’ industriale condotta presso il sito di Pertusola Sud;tuttavia, nel dispositivo pronunciato dal giudice nel febbraio 2012 tale istanza e’ stata rigettata, riconoscendo, invece, l’indennizzo al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
” Da notizie di stampa – prosegue l’interrogazione – si apprende che i cinquantasei milioni di euro che il tribunale di Milano ha obbligato la Syndial a versare nelle casse dello Stato saranno integralmente destinati al comune di Crotone. In un incontro svoltosi al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare con tutti gli altri enti locali coinvolti nella vicenda, e’ stato ribadito che tale somma e’ da considerarsi esclusivamente a titolo di risarcimento danno, e che non comprende le risorse che la Syndial dovra’ mettere in campo per le attivita’ di bonifica del territorio, attivita’ di competenza della societa’ Eni, i cui progetti, tuttavia, sinora hanno incassato il parere negativo degli enti locali.
Nello stesso incontro il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare avrebbe tranquillizzato la delegazione circa i fondi a disposizione e destinati alla bonifica dell’area SIN, che ad oggi ammonterebbero a 19.916.860,84 euro, disponibili a valere sui fondi del Programma nazionale di bonifica e sulle risorse ordinarie del Ministero.
Anche il dirigente di Fratelli d’Italia Alleanza Nazionale, Gianfranco Turino si è posto il problema sulla vicenda. ”Il 12 febbraio 2014, il sindaco di Crotone, Peppino Vallone, assicurava la città che questi soldi sarebbero arrivati tutti nelle casse del comune. L’assicurazione del primo cittadino è arrivata dopo un incontro a Roma con l’allora ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando” – dichiara Turino. “Mi chiedo perché questo silenzio da Crotone? Possibile che nessuno avverte la necessità di questi soldi? Ma soprattutto qualcuno potrebbe spiegare alla città perché ad oggi il Consiglio comunale di Crotone non ha mai discusso dell’argomento, ne tantomeno deciso di “suggerire” al ministero come utilizzare questi soldi?”.  “È giunto il momento – conclude Turino – che a Roma si sappia che su questo territorio non ci sono più silenzi complici, ma anzi che da oggi in poi siamo pronti a tutto pur di far valere i nostri diritti. E il diritto alla salute, il diritto ad un futuro, e il diritto ad un ambiente sano sono battaglie epocali per la nostra città”.

elda musmeci

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Ben undici milioni di euro nelle disponibilità delle cosche di Gioia Tauro, sequestri e sigilli

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REGGIO CALABRIA – Le requisizioni scaturiscono dall’operazione che portò a circa 350 arresti tra Italia, Germania ed Australia.

La Guardia di finanza ha eseguito una serie di provvedimenti di sequestro emessi dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria che hanno riguardato beni, riconducibili ad esponenti di cosche di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, del valore di oltre 11 milioni di euro. L’operazione, secondo quanto riferisce la Guardia di finanza, trae spunto dall’indagine nota come “Il Crimine” che ha consentito di fare luce sui rilevanti investimenti fatti dalle principali cosche di ‘ndrangheta in Lombardia. Sulla base di una successiva analisi degli elementi investigativi che sono emersi, i finanzieri hanno accertato una palese sproporzione tra l’ingente patrimonio individuato ed i redditi dichiarati dagli indagati, tale da non giustificarne la legittima provenienza. Complessivamente sono stati sequestrati 28 beni immobili tra terreni, fabbricati e complessi immobiliari, 17 società, quattro autovetture e varie disponibilità finanziarie. Sono state applicate anche nove misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale nei confronti di altrettante persone accusate di essere affiliate alle cosche calabresi con ramificazioni dal Nord Italia all’Oceania.

Il sequestro è giunto a conclusione di oltre 200 accertamenti economico-patrimoniali svolti dalla Guardia di finanza a carico di persone fisiche e giuridiche coinvolte nell’operazione Crimine che ha evidenziato l’unitarietà della ‘ndrangheta. Accertamenti sono stati compiuti anche sui componenti dell’ intero nucleo familiare del “Capocrimine” Domenico Oppedisano, di 85 anni, del “mastro di giornata della Società di Rosarno” Michele Marasco, del “capo del locale di Laureana di Borrello” Rocco Lamari, del “capo del locale di Oppido Mamertina” Antonio Gattellari e del “capo del locale di Bagnara Calabra” Rocco Zoccali. Dalle indagini è emersa la sperequazione tra redditi dichiarati e l’incremento patrimoniale accertato. Quindi è stata fatta una nuova e definitiva analisi contabile, che, riferisce la Finanza, ha consentito di evidenziare un eccezionale arricchimento patrimoniale dei proposti, realizzato nel corso dell’ultimo ventennio, conseguendo ingiusti ed illeciti profitti e vantaggi, frutto del controllo del territorio “di competenza” e delle relative attività economiche e produttive. Le indagini, riferiscono gli investigatori, sono state complicate dalla “minuziosa capacità dei soggetti investigati di mascherare la reale intestazione dei beni mobili e immobili e delle attività economiche intestate a terzi, ma da loro gestite da anni”.

http://quicosenza.it/calabria/18571-ndrangheta-sequestrati-nel-reggino-beni-per-11-milioni#.VPsvkOEYHsR

Fondazione Caponnetto: “In Umbria la mafia c’è e vuole colonizzarla”

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INDICE

PRESENTAZIONE COLLANA REPORT LUOGHI COMUNI

FOCUS NAZIONALE SU INFILTRAZIONI MAFIOSE NEGLI APPALTI PUBBLICI

ANALISI INFILTRAZIONI CRIMINALI UMBRIA

ELENCO OPERAZIONI RIGUARDANTI MAFIA, CRIMINALITA’ ORGANIZZATA ED AVVENIMENTI SIGNIFICATIVI

CONCLUSIONI

PRESENTAZIONE DELLA COLLANA DEI RAPPORTI DI PIERO GRASSO (inviata per il rapporto sulla Toscana presentato il 19 luglio 2013)

Anche quest’anno, il Rapporto “Per una Toscana senza mafia”, curato dalla Fondazione Antonino Caponnetto, offre un’analisi accurata e puntuale sulla penetrazione della criminalità organizzata in una Regione, come la Toscana, famosa in Italia e nel mondo soprattutto per le sue bellezze paesaggistiche ed artistiche, per la sua cultura e storia secolari, per la sua capacità imprenditoriale. Eppure, lo stesso territorio toscano, da sempre considerato impermeabile alle infiltrazioni mafiose, non manca di presentare elementi di rischio. È questo il campanello d’allarme che, come già nelle precedenti edizioni, il Rapporto invita a non sottovalutare. Non possiamo mai considerarci al sicuro di fronte al fenomeno mafioso, neanche in quelle realtà, come la Regione Toscana, dove la mafia trova condizioni meno favorevoli. Penso alla mancanza di consenso sociale verso la criminalità organizzata, al radicamento nella collettività locale di un senso di appartenenza allo Stato e alle istituzioni pubbliche, alla presenza di una sana e capillare economia di mercato. Nonostante questi importanti fattori di garanzia, non possiamo “abbassare la guardia” nè cadere nei tanti luoghi comuni che, in Toscana come altrove, circondano il fenomeno mafioso. Per questa sua funzione pedagogica, oltre che per il suo contenuto informativo e per i preziosi spunti di riflessione e di intervento, il Rapporto 2013 rappresenta uno strumento fondamentale della nostra battaglia comune verso la legalità. Ho speso 43 anni della mia vita professionale al servizio della magistratura e della giustizia. Quando ho scelto di lasciare questa attività per dedicarmi alla politica, l’ho fatto pensando che, come esperto del settore, avrei potuto continuare ad occuparmi di giustizia da un’altra prospettiva. Oggi, come Presidente del Senato, sono chiamato a un ruolo di garanzia che mi impedisce di entrare nel vivo del procedimento di formazione della legge e persino di votare le leggi. Ma non per questo ho rinunciato alla lotta per la legalità e la giustizia. È questo un obiettivo al quale tutti dobbiamo contribuire, con un rinnovato impulso etico e una ancora maggiore conoscenza tecnica del fenomeno.

Sono certo che questo Rapporto, straordinariamente innovativo nella sua capacità di analizzare le infiltrazioni mafiose, sarebbe piaciuto ad Antonino Caponnetto, eroe simbolo di questa lotta. Nonno Nino, come lo chiamavano tutti, era per me un padre, da quando – lui Consigliere Istruttore a capo del Pool antimafia, io fresco di nomina quale a giudice a latere nel maxi processo di Palermo – mi dette un buffetto sulla guancia, che somigliava ad una carezza, per darmi la forza di andare avanti e per invitarmi a seguire solo la voce della mia coscienza.

Il suo coraggio, la sua forza, la sua capacità di creare armonia e affiatamento nel lavoro sono ora la linfa vitale della Fondazione che porta il suo nome, impegnata in prima linea contro la criminalità organizzata, in particolare attraverso la costante opera di formazione e sensibilizzazione rivolta ai giovani, i futuri cittadini del nostro Paese. Senza l’impegno della Fondazione Antonino Caponnetto e di tutte le altre realtà associative che ogni giorno lottano

per la legalità saremmo oggi sicuramente più indifesi nel contrasto alle mafie. Alla Fondazione, a Nonna Betta, all’Autore Renato Scalia ed alla Regione Toscana va dunque il mio sentito ringraziamento per questo primo volume della collana, al quale spero seguiranno presto i prossimi, dedicati all’Emilia Romagna, alla Liguria e all’Umbria.

Piero Grasso Presidente del Senato

LUOGHI COMUNI

La mafia ed i luoghi comuni. Vediamo quali sono:

1) la mafia non esiste. Oramai è stato appurato il contrario. Ma fino al maxiprocesso del 1986 di Caponnetto era il più diffuso.

2) la mafia se esiste è puramente un fenomeno criminale. Persiste ancora e favorisce la sottovalutazione del problema. Se fosse un puro e semplice fenomeno criminale sarebbe stata già debellata da tempo.

3) si ammazzano tra di loro a noi non interessa. Errato. Quando c’è una guerra di mafia chi rimane vivo rafforza il proprio gruppo ed aumentano i problemi.

4) di mafia non bisogna parlarne perché si rovina la reputazione di un territorio. Errore gravissimo che tuttora persiste in quasi tutto il nord ed in parte del centro e del sud. Non parlare della mafia significa aiutare la sua espansione.

5) teoria dell’isola felice. Non esistono luoghi nel nostro paese ed in Europa ove la mafia in qualche sua forma non sia presente. Questo errore di valutazione ad oggi persiste specialmente nel centro nord.

6) la mafia nasce dalla povertà. Al contrario la mafia nasce nei territori potenzialmente ricchi e li rende poveri. In Sicilia Cosa Nostra ha iniziato nella conca d’oro con il traffico di limoni. 7) teoria della totale sconfitta dopo gli ultimi arresti. Errore strategico già commesso nel 1996. Mai vendere prima della sua morte la pelle dell’orso.

8) la mafia una volta era buona. Falso non lo è mai stata.

9) di mafia straniera non bisogna parlarne perché si rischia il razzismo. Errore grave perchè parlarne significa aiutare gli stranieri onesti.

10) non si fanno passi avanti. Falso. In Italia ne sono stati fatti molti. Non bastano però in quanto bisogna agire sul piano internazionale. In Europa sono messi peggio.

11) ci prendiamo solo i soldi del riciclo dei mafiosi. Tanto i mafiosi non arrivano. Falso. I mafiosi dopo arrivano.

12) la mafia è invincibile. Non è vero. I danni che ha subito sono notevoli. 13) la mafia dà lavoro. Falso. Se fosse vero Reggio Calabria, Palermo e Napoli non avrebbero disoccupati, anche se in determinate situazioni l’unico lavoro possibile è quello offerto dai mafiosi dopo la distruzione del territorio.

La mafia è un virus. Un virus mutante. Superare i luoghi comuni è come un vaccino e rappresenta un primo passo per sconfiggerla.

FOCUS NAZIONALE SU INFILTRAZIONI MAFIOSE NEGLI APPALTI PUBBLICI

Le organizzazioni mafiose, come oramai le cronache quotidiane ci raccontano, hanno esteso i loro tentacoli su tutto il territorio nazionale e oltre.

Le mafie diventano una minaccia per la libera economia quando riescono a trasformare i loro guadagni criminali in soldi puliti. Il problema che si pone oggi è riuscire a contrastare le preoccupanti acquisizioni immobiliari e di esercizi pubblici, nonché le frequenti sofisticazioni delle gare d’appalto a causa delle organizzazioni criminali che tendono a propagarsi nella economia legale.

Le infiltrazioni mafiose presenti negli appalti pubblici, ormai sono un dato di fatto. La presenza di numerose stazioni appaltanti, la parcellizzazione dei contratti e il ricorso eccessivo al subappalto, rende difficile e qualche volta quasi impossibile, un controllo efficace anche da parte delle stesse Forze di polizia. E’ evidente che le normative che regolano gli appalti pubblici hanno delle lacune macroscopiche.

Le organizzazioni mafiose da molti anni hanno deciso di puntare su attività legali per riciclare gli enormi capitali guadagnati illecitamente. Oltretutto, utilizzando materiali scadenti o depotenziati, la “mafia s.p.a.” continua a mantenere assicurato il lavoro di manutenzione delle opere costruite. Alla luce di questi fatti si può ben comprendere perché l’Italia è un Paese a rischio disastri.

Molti ancora non comprendono che le mafie diventano anche un’insidia per la libera economia quando riescono a convertire i loro guadagni criminali in soldi puliti.

Un’altra anomalia tutta italiana è il numero di società iscritte nel registro imprese, 6 milioni, una ogni 10 abitanti.

E’ poi noto a tutti il problema del “massimo ribasso”. Da anni si parla dei danni che produce questo sistema, ma nessuno fa nulla per cambiare.

A tal proposito, occorre tener presente che l’impresa “mafia spa” riesce ad accaparrarsi molti degli appalti, su tutto il territorio nazionale, proprio con il sistema del massimo ribasso, presentando offerte inavvicinabili per le altre imprese. In questo modo, crea un sistema welfare (assunzione di lavoratori provenienti dalle terre di origine), un consenso nelle regioni di provenienza e un controllo del territorio nelle altre. Molti amministratori sono convinti che in questo modo si facciano risparmiare i cittadini, dimenticandosi però altre questioni importanti.

Oltre a sottolineare che così facendo si rafforzano le associazioni mafiose, occorre ribadire con forza che:

• Gli imprenditori onesti non potranno mai fare ribassi eccessivi, quindi, molti di questi saranno costretti a chiudere;

• Nei cantieri dove lavorano le “imprese infiltrate” non sono mai rispettate le norme della sicurezza nei luoghi di lavoro;

• Nella maggior parte dei casi, come è stato detto, sono utilizzati materiali scadenti e quindi le costruzioni sono a rischio crollo;

• La criminalità organizzata crea consenso sociale e controlla il territorio;

• La presenza abnorme di imprese, un numero elevatissimo di stazioni appaltanti, la parcellizzazione dei contratti e il ricorso eccessivo al subappalto, rende difficile e qualche volta quasi impossibile, un controllo efficace negli appalti pubblici da parte delle Forze di polizia.

E’ necessario tener presente anche che, come solitamente avviene nel nostro Paese, si corre ai ripari troppo tardi. Come abbiamo visto le mafie hanno messo il loro “zampino” in questi affari da molti anni.

Vediamo il quadro normativo vigente.Un primo passo contro le infiltrazioni mafiose viene fatto con l’introduzione del sistema delle informative antimafia, mediante la legge delega n. 47/1994. Con questa norma le Prefetture hanno iniziato ad acquisire le informazioni particolari volte all’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa negli organismi societari. La legge delega è stata attuata con il D.lgs n. 490/1994, il quale nell’art. 4, ha introdotto il sistema dell’informativa oggi disciplinato anche dall’art. 10 del D.P.R. n. 252/1998 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia).

L’informativa, che può essere tipica o atipica, quindi è il provvedimento che emette il Prefetto nei confronti della società infiltrata.

L’ informativa tipica può caratterizzarsi in:

- informazioni che sono di per sé interdittive e sono indicate nelle lett. a) e b) del comma 7 art. 10 ed ha natura meramente ricognitiva di provvedimenti giudiziari di applicazioni di misure cautelari o di sottoposizione a giudizio o di adozione di sentenze di condanna per alcuni reati (esempio reato di estorsione, riciclaggio, etc.) o di applicazione di misure interdittive. La natura ricognitiva di tale informativa prefettizia si evince con estrema chiarezza dalla presenza di

provvedimenti in generale giudiziari, dei quali il Prefetto si limita a dare notizia alla stazione appaltante richiedente;

- informativa prefettizia contemplata dalla lett. c) del medesimo comma 7 art. 10, e si fonda su accertamenti autonomi del Prefetto, sulla base di attività di indagine effettuata dagli organi inquirenti, al fine di evincere l’esistenza di elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle imprese.

L’informativa atipica può essere emessa ai sensi dell’art. 1- septies, d.l. n. 629/1982, conv. in l. n. 726/1982 (l’art. 10 comma 9 Dpr n. 252 è stato abolito dell’entrata in vigore dell’articolo 9 del D.lgs n. 218/2012, c.d. Codice Antimafia). La norma consente alle prefetture, quali autorità preposte all’ordine pubblico, di comunicare alle autorità competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni in materia di armi ed esplosivi e per lo svolgimento di attività economiche, nonché di titoli abilitativi alla conduzione di mezzi ed al trasporto di persone o cose, gli elementi di fatto e le altre indicazioni utili alla valutazione dei requisiti soggettivi richiesti per il rilascio, il rinnovo, la sospensione e revoca delle licenze, autorizzazioni o concessioni, laddove si dovessero riscontrare indizi non così gravi, precisi e concordanti da far maturare il convincimento circa la reale sussistenza del “pericolo di infiltrazione mafiosa”, quindi la loro valutazione viene rimessa all’amministrazione richiedente per l’eventuale adozione di provvedimenti ostativi o risolutori al sorgere o alla prosecuzione di rapporti con l’impresa sospetta.

I primi frutti della norma sulle informative antimafia sono arrivati, però, dopo molti anni, forse troppi. Solo negli ultimi tempi, infatti, alcuni Prefetti hanno iniziato ad emettere provvedimenti interdittivi nei confronti di società infiltrate. Occorre tener presente che, in molti casi, si lavora con il sistema del “doppio binario”, la parte amministrativa, quella prefettizia e quella giudiziaria dalla quale possono scaturire – i tempi sono molto più lunghi – sequestri e confische della società infiltrata dalla mafia.

Con la Legge nr.443 del 21.12.2001, sono stati stabiliti gli obiettivi in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive. Con il successivo Decreto Legislativo nr.190 del 20.08.02, sono individuate 21 grandi opere di interesse strategico nazionale (valichi e assi ferroviari, assi viari e autostradali, sistema integrato trasporto, sistema Mo.Se. Laguna di Venezia, Nuova Romea, ponte sullo Stretto di Messina, interventi per l’emergenza idrica nel Mezzogiorno) e stabilite misure normative atte a favorirne e accelerarne la realizzazione. Lo Stato si rende conto che queste “grandi opere pubbliche” possono essere un fattore di attrazione per gli interessi delle organizzazioni criminali. Per questo motivo viene per la prima volta creato un sistema di contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata nei pubblici appalti.

Siamo arrivati nel 2003 e, nel frattempo gli interessi delle mafie nelle opere pubbliche hanno raggiunto livelli incredibili.

Con il decreto interministeriale del 14 marzo 2003 tra il Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro della Giustizia e con il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, viene stabilito che le “grandi opere” dovranno essere monitorate mediante l’istituzione del Comitato di Coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere e definisce il ruolo della Direzione Investigativa Antimafia, dei Gruppi Interforze e del Servizio per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere.

Riteniamo opportuno sottolineare che all’epoca il Ministro dell’Interno era Giuseppe Pisanu, persona sicuramente sensibile a queste tematiche, e a capo della Direzione Nazionale Antimafia c’era Piero Luigi Vigna.

Con la successiva circolare attuativa del 18 novembre 2003 del Capo della Polizia, viene istituito presso la D.I.A. l’Osservatorio centrale sugli appalti con il compito mantenere un costante collegamento con i Gruppi interforze; di acquisire informazioni suscettibili di generare specifiche attività informative ed investigative; di proporre accessi ispettivi nei cantieri e di inviare ai Prefetti le risultanze relative, ai fini dell’adozione dei provvedimenti di competenza.

Passano ancora degli anni e i risultati di contrasto alle mafie in questo settore sono ancora scarsi.

Con la legge n. 94 del 15 luglio 2009 (disposizioni in materia di sicurezza pubblica) viene fatto un altro piccolo passo in avanti. Viene esteso l’ambito di applicazione degli accessi ispettivi a tutte le opere pubbliche e stabilita l’esclusione dagli appalti pubblici per gli imprenditori che non denuncino le estorsioni.

Con la direttiva del Ministro dell’Interno del 23 giugno 2010, i Prefetti si potranno avvalere dei Gruppi interforze per il monitoraggio delle cave ed effettuare controlli antimafia preventivi nelle attività a rischio di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali.

Con la Legge n. 136 del 13 agosto 2010, piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia, viene introdotto lo strumento della tracciabilità dei flussi finanziari. I pilastri fondamentali dell’art. 3 della legge n. 136/2010 sono: l’utilizzo di conti correnti dedicati per l’incasso e i pagamenti di movimentazioni finanziarie derivanti da contratto di appalto; il divieto di utilizzo del contante per incassi e pagamenti di cui al punto a) e di movimentazioni in contante sui conti dedicati; l’obbligo di utilizzo di strumenti tracciabili per i pagamenti.

Con il Decreto Legislativo n. 159 del 6 settembre 2011, è stato adottato il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli artt. 1 e 2 della legge 13 agosto 2010 n. 136.

Il 13 febbraio 2013 è entrato in vigore il nuovo Codice antimafia, come previsto dal decreto legislativo n. 218/2012 che ha introdotto delle modifiche e integrazioni al D.lgs n. 159/2011 (Codice delle Leggi Antimafia). Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 290 del 13 dicembre 2012,

il Dlgs n. 218/2012, si compone due parti: la prima – Capo I – contente disposizioni correttive in materia di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati e di rilascio della documentazione antimafia; la seconda parte – Capo II – recante disposizioni transitorie e di coordinamento. L’anticipo al 13 febbraio 2013 riguarda solamente l’entrata in vigore delle disposizioni in materia di documentazione antimafia di cui al Libro II del Codice Antimafia. L’art. 119, comma 1 del Codice Antimafia prevede l’applicabilità delle relative disposizioni, decorsi 24 mesi dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Regolamento, ovvero, quando più di uno dall’ultimo dei regolamenti riguardanti la modalità di funzionamento della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, istituita presso il Ministero dell’Interno che pertanto non è ancora attiva, restando collegata all’entrata in vigore definitiva del Codice.

Il decreto legislativo 15 novembre 2012, n.218 recante “Disposizioni integrative e correttive al Codice Antimafia”, ha previsto l’entrata in vigore delle disposizioni del Libro II, relativo alla documentazione antimafia due mesi dopo l’avvenuta pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale e, quindi, in maniera del tutto autonoma rispetto all’effettiva attivazione della Banca dati.

Tra le novità più rilevanti, si riscontra l’ampliamento della categoria dei soggetti obbligati a richiedere la certificazione antimafia allo scopo di prevenire le infiltrazioni o i condizionamenti mafiosi nei confronti delle imprese. Vi faranno, infatti, parte tutti gli organismi di diritto pubblico, comprese le aziende vigilate dallo Stato, le società controllate da Stato o altre ente pubblico, il contraente generale e le società in house providing (società multiservizi). Gli accertamenti sulle infiltrazioni mafiose, non solo per l’informazione ma anche per la comunicazione antimafia, si estendono a tutti i familiari conviventi dell’imprenditore.

Il nuovo Codice prevede l’estensione a ulteriori fattispecie di reato-omessa denuncia di usura ed estorsione, subappalti non autorizzati, traffico illecito di rifiuti, turbata libertà degli incanti. Si allungano anche i tempi per il termine di efficacia dell’informativa antimafia, che passano da 6 mesi ad un anno.

In base alle nuove norme, il certificato antimafia è rilasciato esclusivamente dalla Prefettura (non potranno più farlo le Camere di Commercio) e solo nel caso di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni. E’ divenuto obbligo degli Enti Pubblici/Stazioni Appaltanti acquisire d’ufficio, tramite le Prefetture competenti per territorio, la documentazione antimafia nelle forme della comunicazione o dell’informazione. I privati non possono più ottenere, come in precedenza, il “nulla osta antimafia”, presso le Camere di Commercio e pertanto non dovranno più richiederlo nemmeno alla Prefettura. Solo nelle ipotesi di “comunicazione”, i privati possono autocertificare all’Ente Pubblico/Stazione Appaltante (ai sensi dell’art. 89 del D.Lgs. 159/2011) di non essere nelle condizioni di decadenza, sospensione o divieto che impediscono di contrarre con la Pubblica Amministrazione.

Dopo aver parlato rapidamente delle leggi vigenti, passiamo alla fase operativa, tralasciando quella burocratica. Vediamo cosa succede, in concreto con l’esempio seguente.

Il Centro Operativo DIA di Firenze, competente per il territorio della Toscana, effettua un’attività di monitoraggio delle imprese affidatarie di lavori pubblici in una determinata Provincia. Individuata l’impresa su cui sono stati rilevati elementi sufficienti per poter ipotizzare l’influenza da parte della criminalità organizzata, viene prodotto un documento con il quale, citando le ragioni, si propone al Prefetto della provincia interessata, un accesso ispettivo ai cantieri ove la società attenzionata lavora. La predetta Autorità, valutata la richiesta e dopo opportuni approfondimenti forniti dalle Forze di Polizia territoriali, convoca il Gruppo Interforze.

Piccola parentesi. Come abbiamo detto in precedenza, i Gruppi Interforze sono stati istituiti presso le Prefetture – Uffici territoriali del Governo – con decreto interministeriale 14 marzo 2003. Sono coordinati da un funzionario della Prefettura e sono così composti: da un funzionario della Polizia di Stato, un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, un ufficiale della Guardia di Finanza, un funzionario/ufficiale delle articolazioni periferiche della Direzione Investigativa Antimafia, un rappresentante del Provveditorato alle Opere Pubbliche, un rappresentante dell’Ispettorato del Lavoro.

Torniamo alla fase operativa. Il Gruppo Interforze decide che sussistono i motivi per effettuare l’accesso ispettivo al cantiere e il Prefetto emette un provvedimento. Il cantiere individuato (ad esempio: realizzazione di una tangenziale), privilegiando il fattore sorpresa, viene presidiato da personale della Dia, delle Forze di polizia territoriali, dell’Ispettorato del lavoro e dell’Asl.

Durante questa fase si procede alla rilevazione dei dati di tutte imprese (subappaltatrici, forniture servizi e manufatti); si acquisiscono le generalità delle maestranze e di tutti i presenti nel cantiere; si procede all’identificazione mezzi, per individuare i proprietari e/o gestori degli stessi (noli a caldo o a freddo); si verifica il rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro e di quelle attinenti alla disciplina previdenziale; la Guardia di Finanza si occupa della tracciabilità dei flussi finanziari; si ricerca ogni notizia ritenuta utile all’individuazione di collegamenti con la criminalità organizzata.

Dopo l‘accesso ispettivo eseguito nel cantiere, la Dia e le altre Forze di Polizia, entro trenta giorni, redigono una relazione con tutti i dati raccolti e gli accertamenti svolti, menzionando tutte le criticità riscontrate.

Dopo aver acquisito tutti i riscontri del caso, il Prefetto della Provincia ove le ditte hanno sede, entro 15 giorni dalla ricezione della relazione, quando si riscontrano oggettivi elementi per ritenere sussistente il pericolo di infiltrazioni mafiose tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell’attività delle imprese, emette l’interdittiva antimafia.

Il sistema, nel complesso è macchinoso, poco efficace e non è eseguito in maniera capillare. Non vi è dubbio, quindi, che l’impianto che regola gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, necessità di essere riformato. E’ assolutamente necessario puntare sulla trasparenza nelle procedure e sul potenziamento dei controlli e delle verifiche. Nel frattempo, è imprescindibile che tutti profondano il massimo impegno per agevolare il lavoro delle Forze di polizia e della magistratura.

E’ un dato di fatto inconfutabile che un nuovo impulso al sistema di monitoraggio lo hanno dato le innovazioni dei cosiddetti “pacchetti sicurezza” del 2009 e del 2010 e gli indirizzi emanati a tutte le Prefetture dall’ex Ministro dell’Interno, Roberto Maroni.La possibilità di estendere i controlli a tutti gli appalti pubblici (l’opera di monitoraggio della DIA e gli accessi ai cantieri proposti ai Gruppi Interforze e disposti dai Prefetti potevano essere fatti per le grandi opere), alle cave e torbiere, l’imput di creare una Banca Dati dove inserire tutte le società colpite da provvedimenti interdittivi antimafia, la tracciabilità dei flussi finanziari, sono un piccolo passo avanti per contrastare le infiltrazioni in questo settore.

Esistono anche altri strumenti in grado di poter, in qualche modo, frenare l’ascesa delle mafie.

I protocolli di legalità, costituiscono oggi utili dispositivi pattizi per ostacolare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose nelle attività economiche, anche nei territori dove queste manifestazioni non sono particolarmente radicate.

Il 21 novembre 2000, il Ministro dell’Interno Enzo Bianco sottoscrisse un protocollo d’intesa con l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici per favorire, tramite le Prefetture, la promozione e la tutela della legalità e trasparenza anche nel settore degli appalti attraverso appositi “Protocolli di Legalità” fra Prefetture e Amministrazioni Pubbliche e/o oggetti privati interessati.

I protocolli sono disposizioni volontarie tra i soggetti coinvolti nella gestione dell’opera pubblica (normalmente la Prefettura, il Contraente Generale, la Stazione appaltante e gli operatori della filiera dell’opera pubblica), che rafforzano i vincoli previsti dalla norme della legislazione antimafia, anche con riferimento ai subcontratti, non previste della normativa vigente. In alcuni casi i protocolli prevedono anche la rinuncia al ricorso al Tribunale amministrativo regionale in caso di esclusione dall’appalto. Il protocollo può essere applicato dopo il nulla osta rilasciato dal Ministero dell’Interno.

Un altro strumento a disposizione è la S.U.A., la Stazione Unica Appaltante.

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30.06.2011, concernente la definizione delle modalità per l’istituzione a livello regionale di Stazioni Uniche Appaltanti (SUA), in attuazione dell’art. 13, della L. 136/2010 inerente il Piano straordinario contro le mafie, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 200 del 29.08.2011. La Stazione Unica Appaltante ha le caratteristiche della centrale di committenza di cui all’art. 3, comma 34, del D. L.vo 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e cura, per conto degli enti aderenti, l’aggiudicazione di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell’art. 33, dello stesso decreto legislativo, svolgendo tale attività a livello regionale, provinciale o ultraprovinciale. Di conseguenza possono aderire alla SUA le Amministrazioni dello Stato, le Regioni, gli enti pubblici territoriali, altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico ed altri soggetti che operano in virtù di diritti speciali o esclusivi. I compiti della SUA sono numerosi. Collabora con l’ente aderente per l’individuazione dei contenuti dello schema di contratto e per la procedura di gara per la scelta del contraente privato; si occupa della redazione dei capitolati; contribuisce alla definizione del criterio di aggiudicazione; definisce i criteri di valutazione delle offerte, in caso di

criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; redige gli atti di gara, incluso il bando, il disciplinare e la lettera di invito; cura gli adempimenti relativi allo svolgimento della procedura di gara in tutte le sue fasi; nomina la commissione giudicatrice, nel caso di criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; cura gli eventuali contenziosi; collabora con l’ente aderente ai fini della stipulazione del contratto.

Le SUA costituite in Italia sono 13, tra queste le Regioni Liguria e Marche, le provincie di Bologna, Genova, Crotone, Reggio Calabria, Salerno, Caserta. Queste realizzate hanno permesso di accorpare ben 477 stazioni appaltanti.

Per contrastare gli effetti dell’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici è sicuramente necessario fare di più. In primo luogo abolire il sistema del massimo ribasso e magari sostituirlo definitivamente, anche se non è semplice, con l’offerta economicamente più vantaggiosa.

D’altra parte, sulla base di una valutazione obiettiva dell’importo previsto per la realizzazione di un’opera, appare difficile comprendere come una ditta possa eseguire i lavori della stessa, aggiudicati con ribassi che vanno oltre il 40%, senza rimetterci. Come quasi sempre avviene, in seguito, i costi dell’opera lieviteranno. Durante l’esecuzione dei lavori compariranno, inevitabilmente, problematiche esecutive che determineranno la necessità – ai fini di una corretta esecuzione – di ulteriori interventi in corso d’opera, con il conseguente aumento dei costi che erano stati preventivati.

Una concreta ed effettiva trasparenza nell’assegnazione e gestione degli appalti, pubblici e privati, è la base indispensabile per un controllo efficace di questi aspetti, ad oggi presi come situazioni di fatto e valutati in modo asettico ai fini dell’assegnazione dei lavori ai vincitori delle gare.

Occorrerà poi sicuramente rinforzare gli organici delle D.I.A., l’Ufficio che ha il compito di monitorare le imprese impegnate nei lavori pubblici. Sicuramente anche le cosiddette “white list”, cioè le liste delle imprese virtuose nelle attività più esposte al rischio di infiltrazione (trasporto, forniture di calcestruzzo, noleggio), introdotte dalla Legge anticorruzione n. 190 del

06.11.2012, consentiranno di poter più celermente superare i tempi dell’accertamento informativo per la documentazione antimafia e arricchire tutto il sistema. La stessa Legge introduce altre novità interessanti come:

- Risoluzione del contratto – modifica art. 135 codice appalti. Nuove ipotesi di risoluzione del contratto. Sono sanzionate in questo modo le sentenze passate in giudicato per: associazione mafiosa, contrabbando, traffico di rifiuti, spaccio di stupefacenti, delitti con finalità di terrorismo, peculato, malversazione ai danni dello Stato, concussione;

- Trasparenza – Ogni Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di inserire i costi delle opere pubbliche;

- Incompatibilità – commissioni giudicatrici non ne potranno fare parte i condannati, con

sentenza passata in giudicato, per delitti contro la PA come peculato, malversazione, corruzione, abuso d’ufficio o interruzione di pubblico servizio.

In questa ottica, deve necessariamente essere migliorato lo scambio di informazioni e dati tra i soggetti incaricati dei controlli, problema causato anche dalla mancanza di una banca dati contenente l’elenco delle società interdette. La questione sarà risolta con la realizzazione di una Banca Dati presso il Ministero dell’Interno, prevista dal nuovo Codice delle leggi antimafia. Passerà ancora qualche anno prima che questo strumento entri a regime e il ritardo accumulato rischia di favorire, inevitabilmente la criminalità organizzata. A tal proposito, non si comprende il motivo per il quale il legislatore non abbia già previsto l’utilizzo della Banca dati interforze (Sdi – Sistema d’indagine), collocata presso il predetto Ministero che poteva già essere implementata da queste informazioni. Il difetto di circolazione di informazioni, sino ad ora, ha lasciato ampi spazi alle società infiltrate dalla criminalità organizzata che sono riuscite a sfruttare queste lacune, continuando a lavorare indisturbate nei lavori pubblici.

Questo è quanto prevede la normativa e quello che concretamente avviene per contrastare le infiltrazioni mafiose in questo delicato settore.

ANALISI INFILTRAZIONI CRIMINALI UMBRIA

La Fondazione Antonino Caponnetto, da quando è nata, segue con attenzione i fenomeni criminali ed esamina i fatti di cronaca avvenuti. Dalle attività svolte emerge una situazione delicata in merito alla presenza di organizzazioni mafiose attive in Umbria. L’analisi che segue, di natura socio-politica, basata sull’osservazione del territorio, si auspica possa servire a contrastare i fenomeni criminali, sia comuni che mafiosi, servendo da sprone a tutti e a ciascuno, per non far mai abbassare la guardia davanti a questi avvenimenti. Non si può non notare che i segnali presenti da tempo in Umbria sono probabilmente stati sottovalutati, confidando nel fatto che tale territorio, storicamente non mafioso, possedesse un tessuto sociale in grado di respingere i tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata. Diversi fattori devono essere presi in considerazione. I primi contatti sono avvenuti con tutta probabilità attraverso soggetti appartenenti a organizzazioni criminali inviati in Umbria in soggiorno obbligato.

Scelgono altresì l’Umbria sodalizi mafiosi in fuga od in cerca di silenzio per la tranquillità che tale territorio offre e per la facilità nel riciclaggio del denaro sporco. Inoltre il dramma del terremoto ha permesso ad imprese mafiose provenienti da altre regioni di infiltrarsi nella ricostruzione. A preoccupare negli ultimi anni è soprattutto la possibilità e la capacità delle mafie italiane di realizzare sodalizi affaristici anche con le mafie straniere presenti sul territorio. Il tutto s’inserisce in un quadro economico internazionale che mostra una ripresa instabile, con la possibilità di rischi recessivi. La crescita degli Stati Uniti risulta essere lenta e l’incertezza sulla possibilità di tenuta di economie trainanti quali quelle emergenti dipinge un affresco economico globale ancora fragile.

In Europa ha particolarmente pesato il debito pubblico dei singoli stati membri che ha costretto ad interventi di rientro dai disavanzi. Anche l’Italia ha fortemente risentito di una serie di manovre finanziarie tendenzialmente restrittive.

Tale quadro economico in crisi rappresenta il terreno ideale per l’infiltrazione criminale di tipo mafioso mirante all’investimento di soldi provenienti dalle attività illegali.

Altro fattore di debolezza è la propensione al consumo delle droghe da una parte della popolazione. Ciò comporta, oltre agli inevitabili problemi di gestione sociale del problema il finanziamento diretto delle organizzazioni criminali organizzate mafiose e non da parte dei consumatori spesso vittime di overdose. Idem per quanto riguarda una certa propensione al gioco.

Anche quest’anno le relazioni della DNA e quella della DIA si sono occupate della situazione in Umbria.

In particolare la DNA nel periodo in esame della relazione considera la ‘ndrangheta come sodalizio autonomo composto quasi esclusivamente da calabresi residenti in Umbria da oltre un decennio con contatti con la terra di origine ma che agiscono in via esclusiva in Umbria.

Nelle relazioni si trovano ulteriori conferme dei vari ceppi mafiosi e/o criminali organizzati italiani e stranieri dediti alle varie attività tipiche che vanno dallo sfruttamento della prostituzione, alla tratta degli esseri umani, al traffico di rifiuti, al riciclaggio, alla droga ed alle estorsioni.

ELENCO OPERAZIONI RIGUARDANTI MAFIA, CRIMINALITA’ ORGANIZZATA ED AVVENIMENTI SIGNIFICATIVI

A differenza che per altri report, in Umbria conviene, per avere un quadro esaustivo, elencare le numerose operazioni contro la mafia in tutte le sue forme.

Ecco le principali:

1.Febbraio 2008. Operazione “Naos” dei R.O.S., coordinata dalla DDA di Perugia, ha evidenziato la presenza di una sorta di alleanza sinergica tra camorra e l ‘ndrangheta mirante ad impadronirsi di aziende pulite. In questo modo i sodalizi espandevano le proprie attività e miravano ad occuparsi di ambiziosi progetti infrastrutturali relativi ad appalti pubblici, anche per il tramite di politici “amici”. Il sodalizio mafioso era collegato al clan camorristico dei Casalesi e alla cosca della ‘ndrangheta dei Morabito – Palamara -Bruzzaniti.

2.Ottobre 2008. Operazione dei CC a Terni con l’arresto del latitante DI CATERINO inserito nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi, appartenente alla fazione stragista dei casalesi.

3.Maggio 2009. Operazione DIA /CC relativa ad un ingente quantitativo di droga proveniente dall’Afghanistan all’Umbria e gestito da gruppi napoletani ed albanesi.

4.Giugno 2009. Operazione contro il clan Terracciano della camorra, del valore di oltre 20 milioni di euro (immobiliare e non). Le città coinvolte sono: Perugia, Città di Castello e Monteleone di Orvieto.

5.Gennaio 2010. Operazione Pandora contro il clan Gallo della camorra. I camorristi in un’intercettazione ritenevano che in Umbria gli affari sono buoni. Il valore dell’operazione è di svariati milioni di euro.

6.Febbraio 2010. Dal rapporto DIA. Sequestro a Spoleto di un appezzamento di terreno e relativo casolare di proprietà di un ergastolano mafioso di Agrigento.

7.Febbraio 2010. Dal rapporto DIA. Coclusione indagini “Little”, “Smeraldo 1” e “Smeraldo 2” su traffico droga criminalità albanese.

8.Marzo 2010. Dal rapporto DIA. Sequestro a Foligno di alcuni beni e di una società di costruzioni riconducibili ad un mafioso di Carini.

9.Marzo 2010. Operazione DIA/CC contro il clan di Cosa Nostra di Lo Cricchio collegato ai Lo Piccolo. Beni confiscati pari ad un milione e mezzo di euro. Alcuni dei quali a Terni.

10.Marzo 2010. Dal rapporto DIA. Operazione “Iktus” inerente la criminalità rumena dedita alle truffe informatiche.

11.Agosto 2010. Operazione CC/GDF di Montepulciano. Due residenti a Spoleto fra gli arrestati avevano messo una base dell’ndrangheta in Umbria per invadere la Toscana. Indagini partite da un incendio nel senese.

12.Dicembre 2010. Aperta indagine su infiltrazione ‘ndrangheta negli alberghi in Umbria collegata alle vicende che hanno portato l’ex senatore De Girolamo in carcere.

13.Febbraio 2011. Operazione PS Black Passenger. Scoperto traffico di droga gestito da nigeriani passanti per l’Olanda.

14.Febbraio 2011. Arrestato ad Orvieto Maurizio Sangermano esponente in passato collegato alla banda della magliana.

15. Febbraio 2011. Arrestato in Romania grazie ai contatti che teneva a Terni il latitante dell’ndrangheta Cosimo Scaglione.

16. luglio 2011. 27 arresti oggi contro la mafia nissena. Cosa nostra e stidda risultano alleate e con interessi in Sicilia, Marche, Umbria e Lombardia.

17. luglio 2011. Operazione contro l’ndrangheta a San Marino , Umbria, Lazio, Liguria , Emilia Romagna e Trentino Alto Adige. Non esistono isole felici. Le autorità sanmarinesi hanno collaborato in modo strategico. Tale operazione nasce dalla’omicidio Barbieri. Perquisiti anche dei commercialisti indagati nel calcio scommesse.

18. settembre 2011. Operazione dei Ros e della Gdf nei confronti dei Casalesi clan Ucciero a Perugia, Firenze, Ancona, Padova e Pesaro. Circa 100 milioni di euro il valore dei beni sottoposti a sequestro preventivo.

Al dettaglio il suddetto sequestro riguarda trecentoventi immobili, di cui 300 appartamenti al complesso dell’ex Margaritelli a Ponte San Giovanni, due alberghi, quattro terreni. Oltre a 18 società, 45 quote societarie, 9 polizze assicurative, 200 conti correnti su 53 istituti di credito, 2 natanti, un cavallo e 144 macchine di lusso. Risultano coinvolte Perugia, Ancona, Firenze, Padova, Pesaro e Caserta.

19. dicembre 2011. Un esponente della scu salentina condannato per mafia ha comprato casa a Terni senza effettuare le comunicazioni di legge. Il gico lo ha scoperto. Risiede in Umbria da anni.

20. febbraio 2012. Colpito il clan Terracciano in Toscana, Campania, Basilicata, Lazio, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Umbria. Operazione Don Chisciotte della GDF.

21. febbraio 2012. Un incendio doloso ha devastato in Umbria una discoteca estiva.

22. luglio 2012. L’inchiesta decollo ter sfira anche l’Umbria con l’arresto a Città di Castello di un esponente della ‘ndrangheta del vibonese. Il caso riguarda i soldi riciclati del narcos calabrese Barbieri .

23. luglio 2012. I GICO della GDF ed i CC sequestrano al clan della camorra Magliulo due appartamenti e una tabaccheria nel centro storico di Foligno.

24. ottobre 2012. Un’operazione che ha riguardato la corruzione sugli appalti e sui rifiuti a Viterbo ha coinvolto anche l’Umbria.

25. dicembre 2012. Operazione Fulcro della DIA colpisce il clan della camorra Fabbrocino con interventi in varie parti dell’Umbria tra cui il Perugino ed il Trasimeno. Toccata anche Assisi.

26. marzo 2013. Operazione dei NOE dei CC a Gubbio smantella un’organizzazione dedita allo smaltimento dei rifiuti con minacce ed estorsioni con metodo mafioso.

27. marzo 2013. Le cronache hanno riportato un tentativo fallito di truccare una partita del campionato regionale di calcio umbro.

28. settembre 2013. Operazione dei CC contro il clan casalese degli Schiavone che ha portato a numerosi arresti a Terni.

29. settembre 2013. Viene arrestata per i lavori TAV in Toscana l’ex presidente della Regione Umbria Lorenzetti.

30. febbraio 2014. Scatta l’allarme per il gioco d’azzardo in Umbria.

31. febbraio 2014. Scoperto un traffico di volatili di ciuffolotti europei e di peppole. Denunciato un rumeno.

32. marzo 2014. La GDF ha sequestrato dei beni a Perugia durante un’operazione contro il riciclaggio internazionale.

33. marzo 2014. Spari contro vetrina di alcuni negozi in date diverse nel perugino. Il racket è una delle ipotesi. Sette arresti per tali episodi nel mese di aprile.

34. giugno 2014. Operazione nazionale contro ‘ndrangheta coinvolge anche l’Umbria. Colpite le cosche che si rifanno ai Molè di Gioia Tauro ed ai Mancuso del vibonese.

35. luglio 2014. I CC a Terni arrestano un esponente della cosca Bellocco della ‘ndrangheta.

36. settembre 2014. L’operazione della DIA contro la ‘ndrangheta dei “grande aracri” di Cutro trova anche delle tracce di questi a Perugia.

37. novembre 2014. Intervento in Umbria della Presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi e del nuovo Prefetto Antonella De Miro atto alla non sottovalutazione del problema della presenza mafia.

38. dicembre 2014. Operazione “quarto passo” dei ROS/CC che ha portato all’arresto di 61 persone collegate alle cosche calabresi di Cirò dei Farao.alleati dei Marincola. Sequestri per 30 milioni in tutta Italia.

39. dicembre 2014. Operazione “polaris” del Corpo Forestale dello Stato di Firenze che ha smantellato un’organizzazione che organizzava dalla Campania un traffico di fauna selvatica da mettere in vendita in Umbria e Toscana.

40. dicembre 2014. Dalle cronache di stampa emerge una probabile presenza di “mafia capitale” a Terni sulla questione dello smaltimento rifiuti.

41. gennaio 2015. Operazione “trolley” dei ROS/CC che ha portato un altro duro colpo ai calabresi della cosca Farao-Marincola. Dalle intercettazioni emerge un quadro molto chiaro sui comportamenti di tale gruppo criminale.

42. gennaio 2015. L’operazione “drug in the city” della Polizia smantella una rete narcos tra Abruzzo, Lazio, Campania ed Umbria.

43. gennaio 2015. Operazione del Corpo Forestale dello Stato che smantella un traffico di rifiuti ferrosi effettuato senza alcuna autorizzazione.

44. febbraio 2015. Operazione della DIA di Agrigento che confisca a cosa nostra beni in tutta Italia ed a Spoleto.

45. febbraio 2015. Operazione “mama boys” della Polizia contro i narcos nigeriani. Smantellata una vera e propria rete.

GRUPPI CRIMINALI TRACCIATI SUL TERRITORIO UMBRO

Gruppi campani:

casales i- clan Di Caterino, clan Ucciero, clan Schiavone.

camorra – clan Terracciano, clan Gallo, clan Magliulo, clan Fabbrocino.

Gruppi calabresi:

clan Pollino, clan Mancuso, clan Molè, clan Bellocco, clan cutresi del grande aracri, clan Farao Marincola, oltre ad altri gruppi.

Gruppi siciliani:
cosa nostra – di Carini, di Agrigento, di Caltanissetta, di Trapani, i Palermo.
stidda- di Caltanissetta.
Gruppi laziali:
mafia capitale, magliana.
Gruppi pugliesi:
scu.
Gruppi stranieri:
vari ceppi criminali organizzati di: albanesi, nigeriani, rumeni, nordafricani, cinesi, colombiani.

CONCLUSIONI

Oggi come si evince dal suddetto report la situazione in Umbria è assolutamente da non sottovalutare in alcun modo. Il rischio che questa bellissima terra corre è quello di venire colonizzata dalle organizzazioni criminali mafiose e non. Rischio concreto.

L’elenco parziale delle principali operazioni e di alcuni fatti significativi deve risvegliare in noi la massima attenzione, così come le relazioni della DNA e della DIA.

Il fatturato plausibile delle varie organizzazioni criminali è stimabile per l’Umbria tra i 2 ed i 3 miliardi di euro, prendendo come base il fatturato nazionale pari a c.a. 200 miliardi.

http://www.laspia.it/fondazione-caponnetto-in-umbria-mafia-ce-vuole-colonizzarla/

Narcos Messicani: arrestato Oscar Morales (‘Z-42′) dei Los Zetas

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Los Zetas: arrestato il Boss Oscar Morales

Al termine di un’operazione congiunta tra polizia federale ed esercito messicano, questa mattina è stato arrestato Oscar Omar Trevino Morales, soprannominato «Z-42», il leader del cartello dei narcos Los Zetas. Per il Governo messicano si tratta di un grande successo perché Morales era attualmente considerato il settimo criminale più pericoloso e quindi più ricercato del Paese. Una classifica che stava scalando rapidamente a partire dall’estate 2013 e cioè da quando ha assunto il comando dei Los Zetas a seguito dell’arresto del fratello Miguel(«Z-40») da parte delle autorità americane.

Sotto la guida di Oscar Morales i Los Zetas sono riusciti ad estendere il traffico di droga nei paesi centroamericani (stabilendosi in Guatemala), rafforzando anche quello verso gli Stadi Uniti. I Los Zetas si sono guadagnati nel tempo il “titolo” di gruppo narcos più violento, potendo contare su grandi mezzi e su una formazione militaresca eccellente. Il gruppo criminale è infatti stato fondato da un nucleo di ex membri delle forze speciali messicane che hanno tradito lo Stato.

Grazie all’addestramento e alle conoscenze specifiche, l’organizzazione in appena una quindicina di anni di attività ha esteso il suo controllo su ben 11 dei 31 stati federali messicani. I Los Zetas sono anche diventati in breve tempo un punto di riferimento per la ‘Ndrangheta calabrese, che importa in Europa tonnellate di droga avvalendosi della loro collaborazione. Il traffico di stupefacenti non è comunque l’unico mercato dei Los Zetas che: commerciano in armi; fanno estorsioni; impongono il pizzo ai poveri clandestini che provano entrare negli Stati Uniti.

In buona sostanza, l’arresto di Oscar Omar Trevino Morales equivale a quello di un boss mafioso estremamente pericoloso, sul quale era stata fissata una taglia di 5 milioni di dollari dagli Stati Uniti e da 30 milioni di pesos dal Messico, in questo caso anche solo per un’informazione utile alla cattura.

http://www.crimeblog.it/post/159876/narcos-messicani-arrestato-oscar-morales-z-42-dei-los-zetas

‘Ndrangheta a Como, l’affiliazione: ‘Croce sulla schiena, poi bevono il sangue’

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Luciano Nocera, calabrese, si era affiliato in carcere con la dote della “Santa”. Prima la droga, poi l’accusa d’aver “scannato un cristiano”. Ora collabora con i magistrati e racconta l’ordinaria quotidianità mafiosa in Lombardia tra partite a carte, rituali e “scannamenti” che si consumano nella cucina di una pizzeria e nel bosco dell’Olgiatese

Dire “amico” non basta, serve che sia “amico nostro”. Questo vale. Come anche il saluto. “Non basta che ai cristiani si dica buonasera (…) ma bisogna andare a stringere la paletta a tutti, la paletta sarebbe la mano. Io non lo feci e per questo mi richiamarono”. Farsi vedere al bar, alle “mangiate”, è un obbligo “perché il sole scalda chi vede”. Sgarrare è vietato. Anche se poi “corretti non siamo nessuno che siamo malavitosi e gente di galera”. Gente che in carcere “si fa lavare i piedi dai marocchini perché hanno mancato di rispetto”.

È la ‘ndrangheta a chilometro zero, vissuta giorno dopo giorno, per le vie del paese, ai tavolini dei bar, in auto verso l’ultimo chilo di cocaina da trafficare, verso l’ennesimo compare da scannare. Non a Platì o a San Luca, ma in quel fazzoletto di terra lombarda che dal Comasco corre verso la Svizzera. Capannoni, industrie, grandi magazzini e piccoli centri. Il terreno ideale per far crescere la mala pianta. Parola per parola ecco l’ordinaria quotidianità mafiosa raccontata da Luciano Nocera, trafficante, affiliato con la dote della Santa, in carcere dal luglio 2014 prima con l’accusa di droga e poi con quella di aver scannato “un cristiano”.

Nocera decide di collaborare il 30 ottobre 2014. Lo fa davanti al pm Marcello Musso. In quel momento i “compari” già conoscono la sua decisione. “Si sono incontrati per dire che ero un infame”. La sua verità, però, la metterà a verbale tra il gennaio e il febbraio di quest’anno. Ad ascoltarlo ben quattro magistrati dell’antimafia milanese: Francesca Celle, Alessandra Dolci, Sara Ombra e Paolo Storari .

“La mia affiliazione è avvenuta nel 2004 nel carcere di Como, mi portò avanti Lugi Vona”. I boss lo premiano perché nel 1994 si fa la galera senza parlare. Nocera, originario di Giffone, quando viene battezzato ha 36 anni. “Da sempre sono stato vicino a gente affiliata, ero un contrasto onorato. Prima mi diedero lo sgarro e poi la Santa”. In due settimane Nocera passa dalla società “minore” a quella “maggiore”. Spiega: “Sulla minore è stato bruciato un santino, sulla maggiore c’era un bicchiere e tre molliche di pane”. La cella è stata purificata: “Io battezzo questo locale come lo battezzarono i nostri cavalieri di Spagna (…). Per il conferimento della Santa, Vona mi fece una croce sulla schiena e bevve il sangue che uscì”.

L’affiliazione viene festeggiata con una torta che Nocera compra grazie ai soldi per le spese del carcere. Battesimi nelle galere lombarde e poi decine di affiliati in libertà. Come “Bartolino Iaconis”. Imprenditore della ristorazione e del gioco d’azzardo, Iaconis nel 2008, dopo l’omicidio di Franco Mancuso avvenuto ai tavolini di un bar di Bulgorello, “si è ritirato, perché, mi diceva, è quattro anni che ho dietro la Boccassini”. Gente insospettabile, dunque. “Che va a lavorare e che poi gli piace la ‘ndrangheta, gli piace il rispetto ed essere affiliati”. E ancora: “Qui uno che ha fatto un reato non lo trova, perché è gente che dal lunedì al sabato va a lavorare e poi alla domenica fanno i malandrini”.

Gente normale all’apparenza. “Come Bruno Mercuri che a casa non ha neanche il permesso di andare in bagno se non vuole la moglie e fuori fa il malandrino, però a casa deve mettere le pantofole”. Quella di Nocera è una versione che sconcerta e che rimescola alcune certezze investigative. Su tutte il fatto che dal clan si esce solo con la morte. “Mio zio – spiega il collaboratore – apparteneva alla ‘ndrangheta, poi ha pagato e non ha più voluto (…). Suo figlio aveva l’ordine che se arrivava Michele Chindamo (capo locale a Fino Mornasco, ndr) di dirgli che non c’era e lui era dietro le tende”. Il ragionamento è chiaro: “Ciccio Scarfò era un capo eppure si è ritirato e basta”. Dinamiche e assetti. E così se “a Bulgorello c’è un buon ordine”, il “crimine”, ovvero la struttura di governo delle cosche, “l’ha sempre tenuto Mariano Comense” almeno fino “a quando resta in vita il vecchio e cioè Salvatore Muscatello”.

Nel racconto ci sono luoghi e tanti bar. Veri e propri uffici della ‘ndrangheta, scavati nei muri dei piccoli paesi lombardi. Che fanno i mafiosi ai tavolini? Giocano come semplici pensionati. “A Padrone e sotto – dice Nocera -, è un gioco calabrese con la birra”. Tra un bicchiere e l’altro, poi, arriva la proposta di aprire una ‘ndrina. “Te la facciamo aprire qua a Lurate Caccivio, ti pigli a chi vuoi tu”. Nocera rifiuta perché “a me i casini non piacciano, a me piace fare le mie cose, starmene nell’ombra”. Da sempre fa “battute” (traffici, ndr) con “il materiale” (la droga, ndr). Come quando fece arrivare una Bmw a “un politico albanese per fare passare l’erba, prima che cadesse il governo e che bruciassero le piantagioni”. O come quando trafficava con la Svizzera e “il materiale” glielo pagavano in franchi. Nocera lavora con la droga ma assicura di non aver mai fatto estorsioni. Nocera scanna “un cristiano”, ma si preoccupa dei cani che, dice, “vanno curati”.

E a proposito di “cristiani”, impressiona il racconto dell’omicidio di Salvatore Deiana scomparso nel 2009 e ritrovato cadavere il febbraio scorso in una buca scavata nei boschi dell’Olgiatese. Deiana sarà ucciso nelle cucine della pizzeria “Qua e là” per un debito di droga e per aver sparato al suo creditore. “Era il giorno della festa della donna – spiega Nocera – . Lo portarono in cucina per pippare e gli dissero: questa è l’ultima alba che vedi. Lui rispose: sì. Lo accoltellarono, ma non voleva morire, forse era per la cocaina che c’aveva in corpo. Poi hanno ripulito la cucina”. Prima di Deiana è toccato a Franco Mancuso. Era il 2008. Dopo di lui, nel 2014, Ernesto Albanese viene scannato nei boschi e sepolto dentro a un cantiere. Benvenuti al nord.

da il Fatto Quotidiano dell’8 marzo 2015

Il giuramento col sangue e la torta
La mia vita da ‘ndranghetista

Omicidi, riti ed episodi quotidiani nel racconto del pentito Nocera «Qui al Nord tutti lavorano, poi alla domenica fanno i malandrini»

di Cesare Giuzzi

 

 

Il luogo dove fu sepolto il corpo di Ernesto Albanese a Guanzate (Como)
Il luogo dove fu sepolto il corpo di Ernesto Albanese a Guanzate (Como)
 «Quando mi diede la “santa” mi tagliò, ho una croce dietro la schiena, e il sangue che è sceso se l’è bevuto. È la verità». Carcere di Como, anno 2004, in cella con Luciano Nocera c’è Luigi Vona, capolocale della ‘ndrangheta a Canzo, e un ragazzo di San Luca (RC). «Lui non venne con noi in bagno. Vona prima mi fece camorrista, due settimane dopo mi diede la “santa”. Sulla minore è stato bruciato un santino, sulla maggiore c’era un bicchiere e tre molliche di pane».

Il racconto del collaboratore di giustizia Luciano Nocera davanti ai pm della Dda Storari, Celle, Dolci e Ombra riempie 500 pagine di verbali. La prima confessione arriva ad ottobre davanti al pm Marcello Musso. «Io non ero affiliato, però sono sempre stato vicino a gente affiliata, mi sono fatto la galera senza mai parlare, allora Luigi mi ha voluto portare avanti». Le parole di Nocera sono uno spaccato inedito e attuale (gli interrogatori sono di gennaio e febbraio 2015) della ‘ndrangheta in Lombardia. Nocera è calabrese di Giffone come buona parte degli uomini delle cosche tra Milano e Como. Dopo l’affiliazione convoca gli altri calabresi nella sua cella: «Ho comprato una torta dallo spesino in carcere, ho dato una fetta di torta ai paesani per festeggiare». Nocera è soprattutto un trafficante di droga, non sa molto delle regole della ‘ndrangheta. «Nel 2009 rividi Vona, mi ha rimproverato perché non partecipavo alle riunioni. Mi disse: “Guarda che il sole scalda chi vede”. Gli chiesi di scrivermi un po’ di regole, perché io non le conoscevo. Mi disse: aspetta un po’ perché adesso cambiano tutte». Pochi mesi dopo arrivò il blitz Infinito, Vona finì in carcere e le cosche lombarde vennero commissariate dalla Calabria. «Un giorno sono entrato nel bar Arcobaleno di Bulgorello (frazione di Cadorago, ndr) ho detto “buonasera a tutti”. Il giorno dopo sono stato richiamato perché ai cristiani bisogna andare a stringere la “paletta” , la mano, a uno per uno. Avrei dovuto partecipare alla vita del locale, fare le mangiate con gli altri affiliati…».

Negozi, imprese, bar e ristoranti, le cosche tra Milano e Como controllano territorio e imprenditoria: «C’è gente che va a lavorare e che poi gli piace la ‘ndrangheta, gli piace il rispetto ed essere affiliati – racconta il pentito -. Qui uno che ha fatto un reato non lo trova, perché è gente che dal lunedì al sabato va a lavorare e poi alla domenica fanno i malandrini».

Nei verbali si parla di omicidi (quello di Ernesto Albanese e di Salvatore Deiana) e di tradimenti: «Corretti non siamo con nessuno, siamo tutti malviventi e gente di galera». Ma ci sono anche episodi che sfiorano, per quanto possibile, il comico: «Bruno Mercuri è un mio parente, è il marito di mia cugina: a casa non ha neanche il permesso di andare in bagno se non vuole la moglie. Fuori fa il malandrino, però a casa deve mettere le pantofole».

Nel Comasco c’è un boss storico, Salvatore Muscatello, capolocale di Mariano Comense, «l’unico che ha il crimine», ma anche figure influenti e ancora in libertà come l’imprenditore «Bartolino Iaconis» che dopo l’omicidio di Franco Mancuso (2008) «si è ritirato, perché, mi diceva: “è quattro anni che ho dietro la Boccassini”». Ma, chiedono i pm, dalla ‘ndrangheta si esce solo da morti? «Se vuoi “ti ritiri in buon ordine”, facendoti da parte». C’è chi, infatti, dopo gli arresti degli anni Novanta non ha più voluto aver niente a che vedere con le cosche, pur essendo stato affiliato: «Mio zio apparteneva alla ‘ndrangheta, poi ha pagato e non ha più voluto. Se a casa arrivava Chindamo, capo di Fino Mornasco, suo figlio aveva ordine di dirgli che non c’era e lui era dietro le tende». E dalle cosche si può anche stare lontani: «Quando Chindamo chiese a Pasquale Sibio di far affiliare il figlio Simone lui rispose “Mio figlio lascialo stare”».

Gli equilibri mutano di continuo. Allo stesso Nocera è stata offerta più volte la possibilità di «aprire un locale», una cellula della ‘ndrangheta: «Mi dissero: “Te lo facciamo aprire qua a Lurate Caccivio, ti pigli a chi vuoi tu…”». Ma il 46enne rifiuta: «A me i casini non piacciono, a me piace stare nell’ombra». Nocera traffica droga con la Svizzera («Vendevo a 55 mila franchi») e cede una Bmw a un politico albanese in cambio di «dritte» sul traffico di droga. «Quando nella cucina di una pizzeria venne ucciso Deiana i killer gli dissero: “Questa è l’ultima alba che vedi”. Lui rispose: “sì”». Poi arrivarono le coltellate: «Ma lui non moriva mai, forse era per la cocaina che c’aveva in corpo».

8 marzo 2015 | 10:32

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_marzo_08/giuramento-col-sangue-torta-mia-vita-ndranghetista-4a33dc3e-c575-11e4-a88d-7584e1199318.shtml

Ombre sulla morte del PM Bisceglia secondo l’inchiesta de “La Provincia Cosentina”

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Il giudice Bisceglia è stato eliminato

In un primo tempo doveva essere “volato” da un viadotto ma poi il piano si inceppa

La morte del povero Federico è un omicidio. Non ci sono dubbi. E non serve Sherlock Holmes per capirlo. La scena del crimine, il famigerato Km 205,700 carreggiata sud della Salerno- Reggio Calabria, è palesemente artefatta. Agli assassini qualcosa deve essere andato storto. Avevano forse programmato un altro luogo per questo omicidio e qualcosa li ha costretti ad inscenare in fretta e furia una nuova pantomima senza potersi curare dei “dettagli”. Dovevano farlo volare da un viadotto. Qualcuno si era già preoccupato di far circolare questa notizia (che dovranno poi riformulare): Federico, mentre si recava nell’agro nocerino per incontrare la dottoressa Rusolillo (magari dopo aver fatto visita ai genitori a Botricello, o chissà da quale altro luogo), veniva colto da un colpo di sonno e l’auto finiva in fondo ad un viadotto di 30 metri. Questa era la versione concordata e gli assassini così avrebbero dovuto operare. Forse questo volo sarebbe dovuto avvenire proprio nella carreggiata nord da uno dei tanti viadotti presenti in quel tratto. Quello di San Leonardo (km 195 carreggiata nord) forse. Nei cui pressi, testimoni oculari la sera del 28 febbraio intorno alle 21,00 (due ore e mezza prima del presunto incidente in cui è incappato Federico, avvenuto al km 205,700 carreggiata sud), videro un grave incidente. Con tanto di auto della polizia, vigili del fuoco, e 118 (intervenuti, forse, per avallare una eventuale messa in scena, o magari per un lanciato allarme non “coordinato”, o forse, anticipato). Incidente che nonostante l’attendibilità dei nostri testimoni, sparisce da ogni carta, verbale. Non se ne trova traccia. Qualcosa, dicevamo, va storta, e lì, dove era stata preventivata la messa in scena non è più possibile operare. Gli assassini cercano di correre ai ripari. Molto probabilmente l’onesto Federico è già morto, e gli assassini che avrebbero dovuto farlo volare dal viadotto, si ritrovano col cadavere e impossibilitati ad agire sul luogo stabilito. I mandanti dell’omicidio contattano i loro sodali in loco e appresa la “notizia” di sopraggiunti problemi, subito si attivano. E’ rischioso muoversi avranno pensato. Tutto è programmato per quella sera di sabato. E in quel tratto. Scelto apposta per le sue caratteristiche: non è video sorvegliato ed è poco trafficato. E la giurisdizione di Castrovillari garantisce coperture ed eventuali insabbiamenti e soprattutto non sono tipi che fanno domande. Bisogna trovare un altro luogo in cui incidentare il bravo Federico, e anche in fretta. L’intoppo non previsto deve in qualche modo aver bruciato la carreggiata nord. E gli allerta, previsti sul viadotto, rientrano. Si smobilita dalla carreggiata nord. Ma il rischio è grande, perché la macchina delle bugie è già in moto. E bisogna bloccarla. Gli spioni che passano le notizie farlocche, come da piano, hanno già ordinato ai loro accoliti cosa comunicare. E mettono tutto in standby. Ma qualcuno non ha ricevuto il contrordine. Ordine a cui dovevano attenersi non solo per luogo e dinamica, ma anche aspettare l’ok per divulgarla (o già l’ordine conteneva un orario per la messa in rete della notizia). Infatti la stranezza è che per un incidente che avviene tra le 23,30 e le 23,45 (secondo il comunicato dell’Anas), che vede coinvolto un importante pm, il primo comunicato (farlocco) arriva alla stampa 11 ore dopo: la prima a battere la notizia è l’Adnkronos alle ore 10,57 del 1° marzo, che pubblica il comunicato dell’Anas. Ma qualcuno dei divulgatori, non ha ricevuto le “novità”, e con l’idea di bucare la notizia, Marco Di Caterino spara alle ore 9,46 (un’ ora e un quarto prima dell’Adnkronos) di domenica 1° marzo dalle colonne del il Mattino.it il titolone: “Tragico incidente in autostrada: muore Bisceglia, il pm che indagava sul caso Fortuna e sui reati ambientali. Auto fuori strada, volo di 30 metri. Ferita nello schianto una seconda persona”. Non dice “fuori strada” (come l’Anas) e basta. Specifica un viadotto di 30 metri. Avrebbe potuto dire genericamente viadotto. Ma invece no. Specifica. Come fa ad essere così preciso?
Impossibilitati ad andare avanti col loro piano nel luogo stabilito, decidono di spostarsi sull’altra carreggiata (sud), perché devono per forza restare nei “paraggi” (se finisco in un’ altra giurisdizione potrebbero trovare qualche giudice onesto che magari si mette a fare domande. E’ in quel territorio che hanno concordato le coperture). E inscenano l’incidente farlocco. Chiudono l’autostrada per 5 ore nel tratto loro interessato e si mettono al lavoro. Non possono fare molto. Non possono più dire che l’auto è volata da un viadotto di 30 metri, perché la dottoressa che viaggiava con lui è incolume. E scelgono il km 205,700. Evidentemente la dottoressa era il loro gancio e non doveva trovarsi in macchina. Serviva solo a “giustificare” il viaggio del buon Federico e metterlo sulla strada (carreggiata nord), dove avrebbe trovato la morte. Ma il cambio di carreggiata, a cui sono costretti, cambia anche la versione farlocca dei fatti. E la Russolillo è costretta a trovarsi in macchina con lui. Quindi non più da sud verso nord viaggiava il capace Federico, ma a cambio versione, da nord verso sud. Quindi se muore al km 205.700 dell’A3, carreggiata sud, vuol dire che è già passato dall’agro nocerino e ha caricato in macchina la dottoressa. La Russolillo, da semplice esca, deve collocarsi sulla scena del crimine, per forza. Altrimenti come spiegare i contatti con la dottoressa e quindi, il viaggio del valente Federico? Per cui il suo ultimo viaggio, nella nuova versione farlocca, così avviene: il giudice sarebbe partito da una non meglio specificata località della Toscana, per poi deviare durante il tragitto in direzione agro nocerino, per prelevare la Russolillo e dirigersi verso Botricello, per far visita ai propri familiari. Durante il viaggio, già imboccata la A3, ad una decina di chilometri da dove avrebbe trovato la morte (verosimilmente l’autogrill, o qualche area di sosta nei pressi), Federico e la Russolillo fanno una sosta (se ciò è vero basta guardare le immagini dell’autogrill). Eliminando così dalla prima versione la “causale” dell’incidente cioè: il colpo di sonno. Che qualche altro sbadato giornalista, nelle cronache del giorno dopo, aveva riportato. Alla confusione, ingeneratasi dall’intoppo, cerca di metterci una pezza l’Anas (o chi per loro). Che avendo già preparata la versione stabilita all’origine del piano di omicidio, si vede costretta ad approntarne un’altra. Ma le informazioni degli assassini che arrivano a chi deve stilare il nuovo comunicato, sono “concitate”. Non c’è chiarezza. Forse hanno il tempo che gli soffia sul collo. Evidentemente il tempo stringe. E poi c’è da andare a prendere la Russolillo (che non era previsto ci fosse). E servono almeno 2 o 3 ore di macchina. Perché lei deve essere lì. Sistemano alla meno peggio la scena del crimine. Annotano il chilometro. E inviano i dati. E l’Anas scrive: Km 205,700, A3, carreggiata sud, testacoda, rettilineo, impatto, barriere, fuori strada, nessun altro coinvolto. Parole messe in una sequenza che dire generico è dire poco. A leggere (e vi invito a farlo) gli altri comunicati dell’Anas, non si direbbe che “scrivono” sempre così. Sono dettagliati. Ma questo no. Cioè: dopo 11 ore dall’incidente che ha coinvolto un importante magistrato in prima linea contro le ecomafie, l’Anas è questo tutto quello che riesce a dire? Perché non c’è chiarezza nella dinamica e nelle cause di questo incidente? E’ troppo chiedere di leggere un verbale? Potete crederci o meno a questa mia ipotesi. Per smentirmi basta poco. E se non lo fanno, chiedetevi il perché! E se le parole non bastano riproponiamo la fotocronaca di questo presunto incidente.

Michele Santagata

Che cosa nasconde Anna Russolillo?

La donna che era con Bisceglia dice che è stato un incidente ma sta stranamente sulla difensiva
NAPOLI «È stato un incidente automobilistico, un tragico incidente automobilistico. Non ricamateci sopra». Anna Russolillo, medico, originaria di Nocera Inferiore, è la donna che era in macchina con Federico Bisceglia.
Nell’impatto la donna è rimasta ferita in modo non grave la donna.
Al dolore e all’incredulità per l’improvvisa scomparsa di un magistrato impegnato in prima linea nella difesa dell’ambiente e nel ripristino della legalità si sono presto affiancati inquietudine e sospetto.
Anna Russolillo è stata da poco dimessa dall’ospedale di Cosenza.
Ha ancora negli occhi quella terribile notte e non ha alcuna intenzione di raccontarla: il dolore è troppo recente.
L’ha intervistata il Corriere del Mezzogiorno.
Dottoressa, come sta?
«Adesso abbastanza bene, grazie. Non ho avuto gravi conseguenze fisiche, per fortuna».
Cosa è accaduto sabato notte?
«Penso che quello che ho da dire dovrò dirlo a chi di competenza, non sono abituata a parlare ai giornali, mi comprenda. Sono anche emotivamente provata. In questo momento posso solo esprimere tutto il mio dolore per la perdita di una persona che era cara a tanti».
È stata già interrogata?
«Ho riferito alla polizia che da parte mia c’è tutta la disponibilità a raccontare quello che è successo quel maledetto sabato notte, lo farò con loro».
Da qualche parte si insinua che potrebbe non essere stato un incidente.
«L’ho letto sui giornali, sono rimasta sorpresa, perché non ero a conoscenza di tutti questi legami… mi giungeva tutto nuovo».
Lei che ne pensa?
«Ci sono delle indagini in corso, le ripeto, non saprei cosa aggiungere a quello che si sta dicendo. Le indagini faranno il loro corso e io racconterò tutto alle autorità competenti».
È stato solo un incidente d’auto?
«È stato un tragico incidente automobilistico, non ricamateci sopra».
Il dottor Bisceglia le ha mai confidato una preoccupazione, una particolare ansia o paura per il delicato lavoro che svolgeva alla Procura di Napoli?
«Non mi ha mai espresso questi suoi pensieri qualora li avesse».
Come ricorderà Federico Bisceglia?
«Come un amico speciale, una bella persona che ha lasciato un grande vuoto. Le parole non riescono a rendere perfettamente quanto fosse importante e non rendono giustizia al suo valore».
Fin qui la dottoressa Russolillo.
A margine di quanto ha dichiarato al Corriere del Mezzogiorno ci sono da fare, come minimo, una serie di considerazioni e una serie di domande.
Come mai la dottoressa Russolillo è così guardinga e sulla difensiva alla richiesta di spiegazioni del giornalista? Se è stato davvero un incidente, che bisogno c’è di mettere in mezzo le dichiarazioni che certamente farà alle forze dell’ordine? Non sarebbe stato più semplice spiegare a tutti la dinamica dell’incidente in maniera completa ed esaustiva per mettere a tacere tutti i sospetti?
L’intervista della dottoressa Russolillo, se possibile, invece, aumenta ancora di più le ombre su questo stranissimo incidente stradale.
E, visto che ci siamo, potremmo capire come mai questa signora, che illustri colleghi giornalisti davano per ricoverata in prognosi riservata, improvvisamente viene dimessa dall’ospedale di Cosenza dopo una degenza di appena un giorno?
Un altro dei tanti misteri di questa storia. – See more at: http://www.laprovinciadicosenza.it/index.php/component/k2/item/354-che-cosa-nasconde-anna-russolillo#sthash.cXEX9031.dpuf

Il muro di gomma del solito giudice

Le inquietanti analogie con il caso Bergamini. Lo stato diventa sempre meno credibile 

COSENZA Per chi fa il giornalista, la notizia è sacra. Viene prima di tutto. Ci sono tanti modi di arrivarci ma l’essenziale è avere una rete di fonti (così si chiamano) che possano aiutarti a catturarla e a offrirla il giorno dopo a chi la leggerà. Per quante notizie potenziali girano in una provincia, ci sono quasi altrettanti giornalisti che ci possono arrivare. Perché hanno potere, contatti, mani in pasta e tutto quel che segue.
Esistono ancora giornalisti che vanno in giro a caccia di notizie? La categoria, specie nella nostra realtà, è in via di estinzione.
Michele Santagata, per sua fortuna (come spesso mi ricorda), non è un giornalista. E’ fortunato per non essere assoggettato, per esempio, a nessuna regola dell’Ordine. E già solo questo basterebbe per dargli ragione. Il fatto che non abbia il tesserino, inoltre, lo tiene fuori dalla logica delle appartenenze o delle bande.
Santagata, come me, ama autodefinirsi “piddrizzuni”. Se dovessimo tradurre il termine letteralmente in italiano non ci sarebbe un sinonimo adeguato.
“Piddrizzuni” non si può tradurre: è uno stile di vita. Che appartiene a lui così come a me e a (pochi) altri. E’ sinonimo di libertà e di onestà intellettuale soprattutto. Anche se l’atavica mancanza di soldi ti costringe, ogni tanto, a far ricorso al sistema consolidato. Ma mai a farne parte perché ormai è diventato tale e quale alla parte deviata della massoneria. E quindi non può accogliere gente di siffatta risma.
U “piddrizzuni” però passa molto del suo tempo in mezzo alla strada e crea contatti umani infiniti. E’ così che arriva alla notizia, spesso anche a quella più grossa. Lo scoop. Michele Santagata nel giornale di ieri ha spiegato in circa 10 mila battute come qualcuno ha eliminato il giudice della Terra dei Fuochi, Federico Bisceglia. Formalmente ha avanzato una serie di dubbi, sostanzialmente li ha circostanziati (e lo fa anche oggi) uno per uno.
Sono andato anche io con lui sul luogo del presunto incidente. Noi “piddrizzuni” certe cose le sentiamo prima. Non c’era bisogno di verifiche con Anas, polizia stradale, carabinieri, ospedale e così via. Lì bisognava andarci. E le sensazioni sono state univoche: Bisceglia è stato eliminato.
Quello non è uno scenario da incidente. Lo abbiamo documentato con una decina di fotografie, alcune delle quali riproponiamo anche oggi.
La macchina non può andare a velocità elevata perché è appena uscita da una curva, non può impattare in quel modo sul guard rail, che sembra accuratamente tagliato, magari con una motosega. La stessa che è stata usata nella scarpata per tagliare qualche albero e dare l’impressione che la macchina sia caduta lì. Ma la Lancia K di Bisceglia lì non c’è mai arrivata.
O quantomeno non esiste una prova. Nessuna fotografia, nessun video. Ed è chiaro che se uscissero fuori adesso, sarebbero posticci e poco credibili. Anche perché la zona (ma guarda un po’ che caso) non è videosorvegliata.
Sono impressionanti le analogie di questo strano incidente con l’omicidio di Denis Bergamini. In fondo, anche Bisceglia è stato “suicidato”. Con l’unica differenza che a lui è stato evitato l’affronto del suicidio.
Ma per il resto sembra quasi di vedere gli stessi personaggi. A partire dal pavido, oscuro burocrate Franco Giacomantonio, procuratore capo della Repubblica di Castrovillari. Quella che insabbia tutto. Volete ammazzare qualcuno? Dovete venire qui. In questa giurisdizione che somiglia tanto al triangolo delle Bermude. Quando ti ci portano non ne esci vivo.
Denis Bergamini e Federico Bisceglia. Due vittime dello stesso sistema. Hanno toccato entrambi interessi di qualche pezzo deviato dello stato e sono stati eliminati perché non potevano vivere in un sistema nel quale o ti adegui o ti fanno fuori. Suicidato o incidentato non fa differenza.
E c’è sempre la donna in questi casi come elemento di attrazione o, se volete, di semplice esca. Isabella Internò e Anna Russolillo.
“Cherchez la femme” dicono in Francia. Cercate la donna.
L’espressione viene dal libro del 1854 I Mohicani di Parigi di Alexandre Dumas (padre). Il passaggio originale è: c’è una donna in ogni caso; appena mi portano un rapporto, io dico: “Cherchez la femme”.
Sì, perché a quell’epoca c’era ancora qualcuno che faceva il suo dovere ed è evidente che, seguendo il motto, si sarebbe senz’altro risolto il caso Bergamini.
La Russolillo, come la Internò, è fondamentale per far stare in piedi il castello d’argilla dell’incidente. Ma, a differenza di Isabella, non ha deciso nulla, ha solo eseguito (e non dato) ordini di qualche pezzo deviato dello stato. Tanto, a Castrovillari si insabbia tutto. Non c’è problema. Garantisce Giacomantonio.
Io e Michele avevamo pochi dubbi sul fatto che ieri si scatenasse un putiferio per il reportage che abbiamo fatto: non ci calcolerà nessuno. E così è stato, anche se per qualche ora il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio ci aveva lasciato intendere che avrebbe fatto qualcosa. Poi evidentemente è stato sopraffatto dai suoi impegni e ci ha snobbato. Ma oggi è un altro giorno e magari ci ripenserà. O magari no. La sostanza però non cambia molto.
Oggi è facile fare controinformazione con il clima che c’è. Ma il vero problema è che nessuno si indigna. Tutto scorre. Si è alzato il muro di gomma che rappresenta da sempre lo stato che delinque e si autoassolve.
E non possono essere due “piddrizzuni” a cambiare il mondo.
Finchè ce lo faranno fare saremo qui. Quando ci elimineranno, magari non come Bergamini e Bisceglia, tutto resterà normale. Tutto scorre per chi esegue e per chi subisce passivamente gli ordini di uno stato sempre meno credibile. Che alza sempre muri di gomma invalicabili.

Gabriele Carchidi
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Le nostre domande al procuratore capo di Castrovillari

La morte di bisceglia: non esistono foto, riprese e verbali dell’incidente

Egregio Procuratore dottor Franco Giacomantonio, mi scuserà se la disturbo, impegnato com’è in mille altri casi più scottanti, ma è solo per una considerazione e qualche domanda, in merito all’incidente cha ha coinvolto, e in cui ha perso la vita, il dottor Federico Bisceglia. E non conoscendo il suo indirizzo, mi sono permesso di scriverLe dalle colonne di questo giornale. Del resto leggere i giornali, durante l’orario di lavoro, per i giudici, come per i politici, non è sinonimo di vacabbunneria (traduzione: scansafatiche). In genere si pensa questo quando si vedono gli impiegati pubblici che lavorano agli sportelli, o in altri servizi ai cittadini, che invece di fare il proprio dovere leggono il giornale. Speriamo sia il nostro. I giornali, per Lei, fanno parte dei ferri del mestiere. A tal proposito mi permetto di fare una prima considerazione: nella procura da Lei presieduta deve esserci qualche problema con i dipendenti pubblici dell’ufficio stampa. Evidentemente, o non leggono i giornali, e quindi non le passano niente, oppure, se li aprono (i giornali), è solo per guardare le figure. Perché è da tempo che Le scrivo. Sperando in un suo intervento. Non per questioni mie personali, ma per fatti che riguardano i cittadini. Una prima volta per comunicarLe (mi scusi se ci siamo permessi) incongruenze amministrative e possibili infiltrazioni mafiose nell’appalto che riguarda la costruzione del primo lotto della strada che avrebbe dovuto collegare Sibari alla Sila. Un’opera che non solo non si farà mai più, ma che lascia sul “terreno” uno sfregio oltraggioso al paesaggio e alle comunità che in quei luoghi vivono. Per non parlare del caso Bergamini. Fino ad arrivare allo strano caso dell’incidente che ha coinvolto lo sventurato pubblico ministero dottor Federico Bisceglia. Che riposi in pace. Ho provato pure a contattarLa attraverso il suo ufficio stampa ma, come dicevo prima, deve esserci qualche problema di comunicazione. Una sorta di ossimoro professionale. Eppure Lei è un uomo dello stato. Un pubblico dipendente. Un impiegato al servizio dei cittadini. Ma parlare con Lei è come chiedere udienza al Papa. Anzi. Il Santo Padre qualche telefonata ai suoi fedeli la fa. Mi scuso per il paragone. Visto che, chiedere informazioni, di interesse pubblico, all’ufficio da Lei presieduto, per via ufficiale, non funziona – forse perché non si ritiene opportuno informare i cittadini – mi permetto di rivolgerLe una supplica, confidando nella Sua riconosciuta capacità di accoglierle: ppe l’anima di muarti ni pù rispunna a sti domandi? (traduzione: per il sacro rispetto che si deve alle anime defunte, se non vuole rispondere a me, lo faccia per loro). A questo aggiungo, per invogliarla a rispondere, anche tanti, anzi tantissimi, per cortesia, per favore, per carità, per pietà, ppeppiaciri). E mi scusi se mi permetto – perché so che se Lei dovesse dar retta a tutti i ciuati (traduzione: persona fuori di testa in maniera giocosa) come me, non le basterebbe una giornata di 3456 ore – di pretendere da Lei che dedichi un pizzico del suo prezioso tempo a chi come me non ha niente da fare. E se proprio non vuol rispondere mi vedo costretto a dire quello che mai avrei voluto dire (mi gioco l’ultima carta): ho scoperto che quando faccio fattura, lo stato, trattiene una buona percentuale dei miei già esigui guadagni e, a far bene di conto, una percentuale di questi finisce nelle sue tasche. E allora, se non mi vuole rispondere per i motivi succitati, lo faccia per quello che mi è dovuto: ho calcolato che da quando verso l’iva, la percentuale che le ho destinato è pari a 134, 00 euro, all’anno. Ecco, mi dia 134,00 euro di confidenza. E per risolvere il problema dell’ufficio stampa, che non legge i giornali, e guarda solo le figure, abbiamo approntato, giusto per loro, sullo strano incidente del dottor Bisceglia, un bel book fotografico. Giusto per facilitarli. Foto che mostriamo anche a Lei ovviamente. Sicuro di un Suo accoglimento della mia supplica, le porgo i miei più sinceri e doverosi saluti. Che si devono a chi come Lei ricopre una carica così importante, e di delicata esecuzione. Di seguito le domande.
Come mai non esistono, a differenza di tutti gli altri sinistri automobilistici, foto di questo incidente?
Lei, che può, potrebbe, per cortesia e mai ppi cummannu (traduzione: non vorrei sembrare arrogante, né darLe ordini, non mi permetterei mai) chiedere alla polizia stradale se esistono riprese dell’incidente o riprese dell’auto del giudice prima dell’impatto che lo collocano (verosimilmente) a quell’ora e su quella carreggiata?
Giacchè c’è, può anche chiedere, sempre agli stessi, se sabato 28 Febbraio, intorno alle ore 20,45, nella carreggiata nord della Salerno – Reggio Calabria, all’altezza di qualche chilometro prima dell’autogrill di Castrovillari è avvenuto un incidente?
Esiste, come in tutti gli altri casi, una relazione di servizio, della polizia, del 118, dei pompieri, o dei puffi sulla dinamica di questo incidente? E, se si, si può leggere, o è un segreto di stato?
Come mai, su questo incidente, le notizie confluiscono alla stampa con ritardo notevole, eppure si tratta di un personaggio “noto” (vista l’era “digitale” non trovate strano che, nel mondo dei “selfie”, dove tutti riprendono tutto, solo in questo caso sembra di essere tornati al telefono a gettoni? Nessuno – sia chi interviene, sia qualche viaggiatore – sulla scena dell’incidente scatta una foto e la posta), e palesemente confuse? Alcuni scrivono che l’auto è precipitata da un viadotto alto 30 metri, come Marco Di Caterino del Mattino. Stessa cosa il Messaggero (http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CRONACA/morte-autostrada-federico-bisceglia/notizie/1211383.shtml). Mentre l’Anas nel comunicato “riparatore”, parla di una uscita del veicolo “fuori strada in un tratto rettilineo”. Riparatore perché è chiaro che esperti della materia come quelli dell’Anas, sanno benissimo che in un incidente in autostrada o si finisce sotto un burrone o in una scarpata, o si vola da un viadotto o si rimane “sulla strada” spiaccicato o su un muro o sul guardrail.
Ma sempre sulla strada. E dove è finita la macchina non è chiaro (vedi nostra cronaca fotografica). Questo “fuori strada” detto dall’Anas, non può essere un modo di dire.
E poi l’Anas nel diramare questo generico comunicato scrive ancora : “ha impattato contro le barriere laterali (plurale) dopo alcuni testacoda”. Questo lascia immaginare che l’auto sia “carambolata” tra una barriera e l’altra (che delimitano la carreggiata sud in questo caso) per poi fermarsi (o continuare, non si sa) contro una barriera (singolare). Ma noi che abbiamo ispezionato la scena (rivedi nostro book fotografico) del presunto incidente (insieme ad un esperto), non abbiamo riscontrato “impatti” sulla barriera di sinistra. Altri invece scrivono che la causa dell’incidente (l’Anas, con il responsabile con cui io ho parlato, dice “a velocità sostenuta”), dalle prime informazioni, è un colpo di sonno. Ipotesi smentita (se qualcuno smentisce significa che la notizia è circolata) in seguito “all’arrivo” di un’altra notizia (da dove è arrivata?), che vuole che il povero giudice abbia fatto una sosta una decina di chilometri prima dell’incidente. E quindi “quest’ultima circostanza porta a escludere l’ipotesi del colpo di sonno che avrebbe fatto perdere al conducente il controllo del veicolo”, come scrive Marco Cribari del Quotidiano del Sud, il 5 marzo 2015. Chi fornisce queste informazioni ai giornalisti?
E ancora, come mai, da subito per la dottoressa Anna Russolillo, si parla di prognosi riservata? Sappiamo che la prognosi è un giudizio di previsione sul probabile andamento della malattia, e la riserva si aggiunge quando la prognosi non è possibile, perchè la malattia è suscettibile di evoluzioni non prevedibili anche gravi a partire dalla diagnosi iniziale.
Ma questa espressione medica, inserita in un quadro di incidente automobilistico, tra voli da viadotti di 30 metri, testacoda, alta velocità, lasciano intendere, nell’immaginario collettivo, il peggio. Quasi a voler descrivere un tragicissimo incidente.
E con gioia apprendiamo che la dottoressa, invece, non ha riportato nessun danno grave mentre poi l’ospedale, e ne siamo lieti, la dimette solo dopo due giorni.
E per finire, sempre l’Anas, dice che “nell’incidente non sono stati coinvolti altri veicoli”. Secondo Lei può voler dire che da lì non è mai passato nessuno?

Michele Santagata

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Relazione Dna: altri articoli su Il Sole 24 Ore

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Relazione Dna/4 ‘Ndrangheta degli «invisibili» e potenza del “crimine” Giuseppe De Stefano, «universalmente riconosciuto»

Anna Canepa, Francesco Curcio, Diana De Martino, Antonio Patrono, Roberto Pennisi, Leonida Primicerio, Elisabetta Pugliese, coordinati da Giusto Sciacchitano, sono i sostituti procuratori nazionali antimafia che hanno elaborato la parte relativa alla ‘ndrangheta bella relazione della Dna presentata due giorni fa a Roma dal capo della Procura Franco Roberti e dalla presidentessa della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi.

La scorsa settimana, su questo umile e umido blog, avrete seguito la parte relativa alla mafia “borghese” di Reggio Calabria e all’unicum rappresentato dallo scioglimento del consiglio comunale della città sullo Stretto, oltre alla consapevolezza della Dna che il “cervello” della ‘ndrangheta è a Reggio Calabria, mentre le braccia sono ovunque nel mondo. Poi, venerdì scorso, abbiamo proseguito sulla stessa falsariga, analizzando ancora la capacità delle cosche reggine di legarsi alla politica (e condizionarla). Per la Dna un esempio calzante è il caso Matacena.

Un altro esempio che la Dna mette sotto la lente, proprio al fine di delineare le caratteristiche unitarie della ‘ndrangheta e la vocazione relazionale delle cosche cittadine, è quello relativo alle risultanze dell’attività dibattimentale più rilevante svolta sulle cosche di Reggio città, quelle, cioè relative al cd processo “Meta” a carico di Giuseppe De Stefano (ed altri). In particolare, dopo la lettura del dispositivo da parte del Tribunale di Reggio Calabria con cui, il 7 maggio 2014, venivano condannati tutti i grandi capi delle cosche cittadine (Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello, Pasquale Libri, Domenico Condello e Demetrio Condello) «...per avere promosso e diretto uno “specifico organismo decisionale di tipo verticistico di cui coordinano l’azione finalizzato a gestire la capillare attività d’imposizione di pagamento della tangente agli operatori commerciali ed imprenditoriali del territorio di Reggio Calabria…» nei mesi seguenti veniva depositata la motivazione, il cui tenore, proprio ai fini che qui rilevano appare di estremo interesse.

Segnatamente il Collegio, in primo luogo, ha chiarito e ribadito la struttura unitaria del mandamento di centro, affermando: «Il novum, invece, emerso dalle risultanze di questo lungo e complesso dibattimento, consiste nella strutturazione di un organismo decisionale di tipo verticistico, all’esito di un iter evolutivo costellato di alleanze, accordi, frizioni, fibrillazioni, che rappresenta un qualcosa di molto diverso, avendo come finalità quella di coordinare e dirigere la gestione – in via ordinaria e costante – di tutte le attività criminose che si consumano nel mandamento di centro (in particolare il capillare taglieggiamento di commercianti ed imprenditori ed il controllo del settore degli appalti pubblici), evitando il sorgere di conflitti, imponendo un controllo accentrato dall’alto al di là dei confini territoriali tradizionali, pur nella permanente limitata operatività delle singole consorterie. Si è venuta, dunque, a costituire un’autonoma associazione criminale distinta dalle singole associazioni – non un mero vertice collegiale di una super-associazione nata dalla integrazione delle associazioni medesime – avente autonomia funzionale, strutturale ed organizzativa, composta dai vertici delle cosche cittadine più potenti, con a capo De Stefano Giuseppe, in qualità di “Crimine”, universalmente riconosciuto, in grado di imporre regole da tutti condivise e rispettate, di dare stabilità, di intervenire con potere coercitivo, nonché di rapportarsi con le istituzioni, la massoneria e la politica, i cui collegamenti in questo processo sono emersi allo stato embrionale e sono in corso di esplorazione investigativa in altri procedimenti.

Naturalmente una tale configurazione giuridica del fenomeno in esame non appare per nulla incompatibile con il fatto che all’interno di tale super-associazione convivano ed operino distinti gruppi criminali a base familiare fortemente coesi in quanto costituiti da persone legate tra loro da rapporti di parentela o, comunque, da pregressa e salda conoscenza e complicità criminale».

Premessa una disamina storica sulla stessa funzione del grado di “Santa”, la cui funzione è essenzialmente quella che si è fino ad ora descritta come propria e tipica della ‘ndrangheta cittadina, cioè quella di relazionarsi con le cosiddette entità esterne, nello svolgere un parallelismo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, la motivazione ha enfatizzato correttamente, scrivono i sostituti procuratori nazionali della Dna a pagina 34, proprio il «profilo della segretezza dell’associazione e la sua funzionalità a penetrazioni in contesti diversi e di livello superiore, anche massonici».

Nelle motivazioni della sentenza “Meta” è stato dato rilievo anche al fenomeno dei cosiddetti «invisibili» e cioè di coloro i quali, nel sodalizio, per la loro capacità mimetica avevano proprio il compito di allacciare le relazioni : «…E però, non può disattendersi che la ‘ndrangheta, persino più di Cosa nostra, rispetto alla quale ha unanimemente assunto, non a caso, una posizione di riconosciuta primazia, è organizzazione altamente impermeabile alle indagini (e comunque all’esterno), è connotata da un elevatissimo grado di segretezza, possiede una sconcertante capacità di infiltrazione nella società – anche negli apparati pubblici ed istituzionali – congiunta ad una altrettanto elevata capacità di mimetizzazione. Si tratta, all’evidenza, di dati di cui occorre tener conto in occasione della valutazione sopra richiamata, con ciò non intendendosi ammettere la possibilità di uno svilimento dello standard probatorio, non essendo ciò concepibile, né parimenti ammissibile un’acritica ricezione (quasi una sorta di supina acquiescenza) delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Si tratta, piuttosto, di dover necessariamente tenere conto, nel leggere le prove, della specificità del fenomeno associativo in rilievo (cioè della ‘ndrangheta), del concreto contesto sociale e delle pieghe del peculiare humus di fondo di tale insidiosissima organizzazione, delle massime di esperienza ricavabili da pregressi studi della realtà interessata o da pregressi accertamenti giudiziari locali, nonché di evitare, per altro verso, un approccio meramente notarile».

Ecco, umilmente, dal basso di questo umido blog, direi che vanno sostenuti, incoraggiati e apprezzati i magistrati (da Reggio a quelli della Dna) che non sposano «approcci meramente notarili». Vale a dire che non si accontentano delle “mezze verità” per quanto sacrosantamente scolpite in sentenze passate in giudicato.

Relazione Dna/5 Lo Stato ha perso: il «governo del porto di Gioia Tauro» è nelle mani della ‘ndrangheta

Nelle ultime due settimane, su questo umile e umido blog, avrete seguito la parte relativa alla mafia “borghese” di Reggio Calabria e all’unicum rappresentato dallo scioglimento del consiglio comunale della città sullo Stretto, oltre alla consapevolezza della Dna che il “cervello” della ‘ndrangheta è a Reggio Calabria, mentre le braccia sono ovunque nel mondo. Poi, venerdì scorso, abbiamo proseguito sulla stessa falsariga, analizzando ancora la capacità delle cosche reggine di legarsi alla politica (e condizionarla). Per la Dna un esempio calzante è il caso Matacena.

Un altro esempio che la Dna mette sotto la lente, proprio al fine di delineare le caratteristiche unitarie della ‘ndrangheta e la vocazione relazionale delle cosche cittadine, è quello relativo alle risultanze dell’attività dibattimentale più rilevante svolta sulle cosche di Reggio città, quelle, cioè relative al cd processo “Meta” a carico di Giuseppe De Stefano (ed altri).

Oggi soffermiamo i  nostri sguardi sul porto di Gioia Tauro. Ebbene, la Dna è riuscita persino a fare di meglio del Procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione, Gianfranco Ciani, che il 24 gennaio 2014 (pagina 115, da riga 4) disse: «Sotto il profilo degli interessi del crimine organizzato calabrese, le indagini hanno evidenziato la perdurante posizione di assoluta primazia della ’ndrangheta nel traffico internazionale di stupefacenti, che continua a generare imponenti flussi di guadagni in favore della criminalità organizzata calabrese, la quale può avvalersi del controllo quasi totalizzante del porto di Gioia Tauro (tra il giugno 2012 ed il luglio 2013 quasi la metà della cocaina sequestrata in Italia – circa 1.600 kg. su circa 3.700 complessivi – è stata ivi intercettata) e reinveste, specie nel settore immobiliare, i proventi di tale attività» (si veda http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/24/il-pg-della-cassazione-la-ndrangheta-si-avvale-del-controllo-quasi-totalizzante-del-porto-di-gioia-tauro/)

La Procura nazionale è riuscita ad offuscare quel  «controllo quasi totalizzante del porto» parlando (rectius: scrivendo) di «governo del porto» da parte delle cosche.

La parte della relazione è in vero talmente limpida che non c’è bisogno di fare tanti commenti. Basta pubblicarla (compito mio) e leggerla (compito vostro) per capire come si infrangono i sogni (rectius: le utopie) di rinascita di uno scalo che avrebbe di tutto per ambire a diventare il motore dello sviluppo del Sud.

Anche la relazione della Dna certifica dunque il ruolo di crocevia del narcotraffico del porto della Piana, diventato, si legge da pagina 19 del testo, «una vera e propria pertinenza di casa della cosca Pesce e dei suoi alleati (i principali: Mancuso di Limbadi e i Bellocco pure di Rosarno, i Molè). E ciò, non solo, per la stringente osservazione di carattere logico secondo cui sarebbe singolare che questa cosca, e quelle che gli ruotano intorno, controllando anche le più minute attività economiche presenti sul loro territorio, non controlli proprio le attività portuali, che, invero, sono le più importanti attività economiche presenti in quel contesto (ed in tutta la Calabria), ma soprattutto perché plurime investigazioni – a partire dall’indagine della DdaA di Reggio Calabria, denominata Kim 2011 (dell’ottobre 2011, nel cui ambito vennero sequestrati crica 560 kg di cocaina) fino alla nota indagine All Inside sulla ‘ndrangheta della Piana (che ha già determinato sentenze definitive di condanna, per la parte celebrata in abbreviato, passate in giudicato con sentenza della Suprema Corte del 15 luglio 2014 e sentenze di condanna in primo grado emesse in data 4 maggio 2013 dal Tribunale di Palmi a carico di Pesce ed altri) consentivano di accertare il controllo totalizzante dei Pesce sul Porto di Gioia Tauro ove, attraverso una penetrante azione collusiva, riuscivano a godere di inesauribili appoggi interni».

Poco dopo la relazione della Dna sul porto e su quanto ruota intorno è ancora, se possibile, più impietosa e si ritiene opportuna proporla integralmente perché nulla potrebbe essere più chiaro di quanto scrive il gruppo di lavoro coordinato dal sostituto procuratore aggiunto Giusto Sciacchitano.

Un controllo totale

«Ma più ampiamente (e realisticamente) deve dirsi che il controllo della cosca dei Pesce sul Porto non era caratterizzato dalla sola capacità d’intervento, per così dire “chirurgico” sullo stupefacente in transito o in arrivo, finalizzato, cioè, ad estrarre dai cargo e dai container le tonnellate di cocaina inviate per farle uscire dal Porto – si continua a leggere nella relazione –; era, invece, ad un tempo, globale e minuzioso, diffuso e monopolistico su tutta la struttura portuale.

In primo luogo, questo tipo di controllo, ma sarebbe meglio dire, questo tipo di governo del Porto, riguardava un ambito in relazione al quale il Porto di Gioia Tauro offriva, rispetto a qualsiasi altro porto del mondo, una peculiarità assolutamente straordinaria e non replicabile per la ‘ndrangheta: la possibilità – ampiamente sfruttata – di determinare (nella misura necessaria e, soprattutto, nei gangli sensibili) chi potesse lavorare al suo interno e chi no. Da questo dato discendeva e discende, come effetto ineludibile e necessario (fra l’altro) anche il controllo dei flussi di stupefacente in transito o in arrivo nel Porto, controllo che veniva assicurato attraverso quella parte, certamente minoritaria, ma, ad un tempo, collusa, ed intoccabile, che vi opera. E non si tratta di un dato che è conseguenza solo delle mere tendenze criminali di chi dovendo svolgere un pubblico servizio preferisce, invece, servire la ‘ndrangheta; si tratta invece della semplice fedeltà verso chi è il vero e concreto datore di lavoro. Risultava infatti, da intercettazioni svolte dalla Dda reggina nei citati contesti investigativi, che la stessa assunzione del personale nel Porto era prerogativa dei Pesce e dei loro sodali. Se si voleva essere assunti in una delle cooperative operanti sul Porto di Gioia Tauro, la strada diretta era quella di ricorrere – senza mediazioni – alla famiglia Pesce. Avendo in mano il personale, ne seguiva l’egemonia sul Porto.

Possiamo pensare che una attività del genere, che coinvolge simili interessi, che è stata, ed è, essenziale per spiegare la ragione per cui la ‘ndrangheta è fra le più potenti associazioni criminali del pianeta, possa essere affidata all’estemporanea interazione fra diversi trafficanti ?

Possiamo pensare davvero che se, come risulta da numerose investigazioni, le famiglie della Jonica utilizzano il Porto di Gioia Tauro (luogo, ovviamente, al di fuori dei territori sottoposti alla giurisdizione dei loro “locali”) anche per cedere quintali di stupefacente ad organizzazioni campane o pugliesi o di altra origine, lo facciano sulla base di un rapporto di simpatia con la terra calabrese ovvero perché ritengono che quel luogo di approdo porti loro fortuna?

Se così non è, come davvero non può essere, allora la risposta agli interrogativi sopra posti, non può che essere in linea con la rilevanza della posta in gioco: la scelta del Porto di Gioia Tauro, lungi dall’essere casuale o dovuta ad una qualche consuetudine locale, è strategica ed è da ritenersi – attesa la sua stabilità nel tempo (perdurando, invariata, fin dagli anni 90’) – connaturata alla stessa struttura che ha assunto la ‘ndrangheta.

Come in un corpo in cui ciascun organo assolve ad una diversa funzione, ognuna teleologicamente finalizzata al benessere dell’intero organismo e sinergicamente collegata ad una funzione complementare, così la ‘ndrangheta ha specializzato le sue diverse componenti in modo che ciascuna possa svolgere diverse ma complementari funzioni che, nel loro insieme, accrescono il potere e la forza dell’associazione.

Nel caso del traffico di stupefacenti appare evidente che la spiegazione del funzionamento del meccanismo (oramai fisiologico e continuo nel tempo) grazie al quale le grandi famiglie della Ionica concentrano l’arrivo di varie tonnellate annue di cocaina, su di un territorio che non è, in astratto, il loro (ma, come si è visto, di quel coagulo di cosche che ruota unito e compatto intorno alla famiglia Pesce) sia da rinvenirsi in una regola fondante dell’unità della ‘ndrangheta, regola secondo la quale, mentre le cosche del mandamento ionico mettono a disposizione dell’associazione le loro basi logistiche ed i loro referenti in Sud-America, quelle tirreniche mettono a fattore comune la loro capacità di controllo del Porto di Gioia Tauro.

Si tratta, naturalmente, di una regola che se vincola le diverse cosche ad una necessaria, continua, faticosa e reciproca cooperazione nel superiore interesse dell’organizzazione unitaria non impone, tuttavia, la reiterazione di tale formula di collaborazione in modo esclusivo e totalizzante, nel senso che la regola non esclude affatto che le cosche possono avere una propria autonomia in una parte del traffico di droga. Così avviene ad esempio che le cosche tirreniche possono importare in proprio lo stupefacente, facendolo giungere presso la “loro” Gioia Tauro senza dovere rendere conto a nessuno, ovvero che le cosche ioniche possono utilizzare come approdo della loro cocaina il porto di Rotterdam attesa la loro forte presenza in Olanda o, infine, come pure è emerso da recenti indagini, che si crea – già nella fase dell’importazione – un asse Ionio/Tirreno nella gestione dell’ affare. Parliamo di un caso concreto e, in particolare, del “consorzio” tra le cosche Jerinò di Gioiosa Jonica, Aquino di Marina di Gioiosa Jonica, Bruzzese di Grotteria, Comisso di Siderno e Pesce di Rosarno che organizzava l’arrivo in Europa della cocaina. Il tutto con la collaborazione del cartello messicano dei “Los Zetas” (indagine cd “Crimine 3” del 2011).

E se, dunque, questa diversificazione delle strategie per importare la cocaina, è ampiamente ammessa ciò che, invece, rileva è che la indicata e specifica regola di mutua assistenza nel traffico di stupefacenti fra cosche appartenenti ad aree diverse, sia rispettata e costituisca, nella ‘ndrangheta, diritto vivente, impedendo che ciascuno dei Mandamenti possa mettere sotto scacco l’altro, circostanza questa che, vista la rilevanza degli interessi in gioco, determinerebbe continue lotte fratricide che, alla fine, avrebbero come effetto inevitabile la fine del monopolio ‘ndranghetista sul traffico di cocaina; ne conseguirebbe ancora, attraverso una serie di effetti a catena, il ridimensionamento, se non il collasso, dell’intero sistema di potere del sodalizio, essendo evidente che l’inaridimento delle risorse provenienti dal narcotraffico determinerebbe, tanto per fare uno dei possibili esempi, l’impoverimento delle imprese di ‘ndrangheta operanti in Nord-Italia, la stessa capacità dell’organizzazione di fagocitare le aziende settentrionali in crisi, ovvero la capacità delle cosche di creare sempre nuove imprese.

I citati effetti letali sono impediti esattamente da questo: dalla esistenza di un sistema che avendo già sperimentato le conseguenze nefaste dell’anarchia criminale, ha ricondotto ad unità, attraverso l’imposizione di regole oramai consolidate, non solo l’intero arcipelago della ‘ndrangheta, ma le pulsioni egoistiche, capaci di determinare l’implosione dei meccanismi che determinano l’accumulazione di capitali in capo alla organizzazione».

Fermiamoci qui. Forse è meglio.

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/03/10/relazione-dna5-lo-stato-ha-perso-il-governo-del-porto-di-gioia-tauro-e-nelle-mani-della-ndtrangheta/

 

 

Ndrangheta, confiscati beni per 10mln: arrestato imprenditore

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L’uomo è accusato di intestazione fittizia di beni

ROMA – Un blitz della Dia a Roma, in zona Pantheon, ha portato al sequestro di due noti ristoranti del posto, “Er faciolaro” e “La rotonda”, entrambi frequentatissimi dai turisti, e all’arresto di un imprenditore calabrese, Salvatore Lania, 47 anni, reale proprietario dei due noti locali e responsabile, in concorso con altri, del reato di intestazione fittizia di beni. Il valore dei beni sequestrati ammonta a circa 10 milioni di euro. Al momento sono in corso le perquisizioni nei confronti di tutti gli indagati, tra i quali ci sono i familiari e i dipendenti dello stesso Lania.

Il nome dell’imprenditore calabrese era già emerso nel corso delle indagini che aveva portato al sequestro e alla successiva confisca del “Caffè de Paris”, in via Veneto, sulle infiltrazioni a Roma della cosca Alvaro di Sinopoli (RC). Precisamente, erano emersi rapporti tra Lania e personaggi collegati alla cosca, tutti convolti nel commercio transnazionale di prodotti contraffatti, realizzati in Cina, “sdoganti” a Gioia Tauro con la complicità della cosca Piromalli-Molè e destinati alla Repubblica Ceca. Le indagini hanno permesso di individuare alcuni investimenti milionari che l’imprenditore ha effettuato in un lasso di tempo troppo breve per essere proporzionati ai redditi dichiarati al fisco, che hanno destato i sospetti delle autorità circa la lecita provenienza dei beni.

Oltre ai ristoranti è stata messa sotto sequestra nei pressi del Pantheon anche un’attività commerciale di vendita di souvenir, elementi di arredo e soprammobili, denominata “Mi&Chi”, e sono state sequestrate le società di comodo quali la “Suriaca srl”, la “Rotonda srl” e la “Fiorenza il Faciolaro srl”, che Lania, in considerazione del proprio coinvolgimento nelle indagini, aveva intestato a parenti e dipendenti per celare la reale proprietà delle attività ed evitare provvedimenti di sequestro a suo carico.

L’imprenditore è stato sottoposto agli arresti domiciliari. Insieme a lui, anche altre otto persone, tutte indagate per concorso nell’intestazione fittizia dei beni.

di Vanessa Ioannou

http://www.casertalive.it/notizia/ndrangheta-confiscati-beni-per-10mln-arrestato-imprenditore/349425_1.html


Continua il Processo Minotauro: la ‘ndrangheta in Piemonte

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Il procuratore generale Antonio Malagnino durante la requisitoria

Inchiesta Minotauro, al processo d’appello chiesti oltre 600 anni di carcere

Gli imputati sono 63: chiesta la conferma della condanna per Nevio Coral, ex sindaco di Leini

Le mafia al Nord esistono perchè , divenute una sorta di società di servizi, in tanti accorrono a chiedere i servizi che quelle offrono. ll processo Minotauro, in corso a Torino, è giunto alla fase  dell’Appello. Il processo Minotauro, lo ricordiamo, è il processo che ha fatto “scoprire” la quantità e la qualità della presenza mafiosa in “pezzi” del tessuto civile, politico e imprenditoriale della regione piemontese.

Pesanti richieste del Pubblico Ministero per gli imputati principali del processo: è stata chiesta la conferma per Nevio Coral, ex sindaco di Leinì condannato a 10 anni in primo grado. Chiesti 15 anni per Rosario Marando, assolto in primo grado e arrestato pochi giorni fa a Roma per sequestro di persona. La procura generale ha chiesto la conferma della pena di 14 anni per Giorgio De Masi, considerato il “padrino di Rivoli”, “l’uomo che parlava con la politica” ( leggi qui). Su questo tema sono stati chiesti sette anni per l’ex segretario comunale di Rivarolo Canavese Antonino Battaglia

Mano pesante del procuratore generale Antonio Malagnino al processo d’Appello Minotauro che si sta celebrando con rito ordinario. Il pg ha chiesto 609 anni di carcere per 63 imputati. Tra di loro è stata chiesta la conferma per Nevio Coral ex sindaco di Leinì condannato a 10 anni in primo grado. Chiesti 15 anni per Rosario Marando, assolto in primo grado e arrestato pochi giorni fa a Roma per sequestro di persona. Chiesta anche la riforma della condanna per Antonino Occhiuto, condannato a 4 anni e 6 mesi in primo grado. Per lui l’accusa ha chiesto 16 anni. La procura generale ha chiesto la conferma della pena di 14 anni per Giorgio De Masi, considerato il “padrino di Rivoli”, l’uomo che parlava con la politica. Su questo tema sono stati. Chiesti sette anni per l’ex segretario comunale di. Rivarolo Canavese Antonino Battaglia secondo la Procura colpevole di voto di scambio politico mafioso.

In primo grado erano state comminate pene per 266 anni di carcere a carico di 74 imputati. Di questi 36 erano stati condannati e 38 assolti. Altri 50 imputati del prossimo Minotauro sono stati giâ condannati in Cassazione pochi giorni fa. In primo grado erano stati inflitti 266 anni di carcere a Fronte di richieste per poco più di 700 anni.
In primo grado erano state comminate pene per 266 anni di carcere a carico di 74 imputati. Di questi 36 erano stati condannati e 38 assolti. Altri 50 imputati del prossimo Minotauro sono stati già condannati in Cassazione pochi giorni fa (leggi qui). 

Fonte: La Stampa

http://liberapinerolo.blogspot.it/2015/03/continuan-il-processo-minotauro-la.html

 

“Santa Tecla”: la Cassazione conferma le condanne ai fratelli Barilari

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La sentenza definitiva nei confronti del già capo ‘ndrina di Corigliano e del suo congiunto è stata pronunciata nella tarda serata di ieri

I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno confermato le condanne inflitte dalla Corte d’Appello di Catanzaro (Presidente Anna Maria Saullo, a latere Isabella Russi ed Alessandro Bravin) nei confronti dei fratelli Maurizio e Fabio Barilari di Corigliano Calabro nell’ambito del maxiprocesso “Santa Tecla” contro la locale organizzazione di ‘ndrangheta.
Gli “ermellini” romani di Piazza Cavour hanno in pratica confermato l’intera ragnatela accusatoria nei loro confronti, costruita a suo tempo dall’attuale Procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, e fatta propria dal Procuratore generale presso la Corte d’Appello catanzarese, Salvatore Curcio, il quale aveva ottenuto, in appello, la conferma delle condanne inflitte in primo grado presso l’ex Tribunale di Rossano.
Per il 46enne presunto capo ‘ndrina di Corigliano, Maurizio Barilari, 19 anni e sei mesi di reclusione; 12 anni, invece, per il fratello 44enne, Fabio Barilari.
Entrambi erano accusati d’associazione mafiosa
e d’una lunga sequela d’estorsioni consumata negli anni scorsi proprio nel Coriglianese.
I giudici di primo e secondo grado avevano condannato i due fratelli e, nella tarda serata di ieri, la sentenza d’appello è divenuta dunque definitiva.
Il processo ai fratelli Barilari era uno dei due tronconi del maxiprocesso “Santa Tecla”, che aveva portato, tra l’altro, allo scioglimento del Consiglio comunale di Corigliano per infiltrazioni mafiose, e che ha già visto decine di persone, quasi tutte coriglianesi, definitivamente condannate in Cassazione lo scorso 9 gennaio.
Maurizio Barilari – il quale è stato difeso dagli avvocati Salvatore Sisca ed Andrea Salcina – secondo le sentenze di Rossano e di Catanzaro fu esattore del “pizzo” nonché capo della ‘ndrina attiva ed operante nel Coriglianese sotto l’egida del locale di ‘ndrangheta guidato dagli “zingari” di Cassano Jonio e capeggiato da Franco Abbruzzese alias “Dentuzzo”.
Almeno a partire dall’anno 2000 e fino al suo arresto, avvenuto il 16 luglio del 2009 con la maxioperazione “Timpone Rosso” nell’ambito del cui maxiprocesso è stato di recente condannato a 28 anni, in appello, dai giudici della Corte d’Assise di Catanzaro, per la propria supposta partecipazione agli omicidi di Giorgio Cimino, vittima nel 2001 d’una vendetta trasversale di ‘ndrangheta perché padre dei due collaboratori di giustizia Giovanni ed Antonio Cimino, e poi di Vincenzo Fabbricatore e Vincenzo Campana, trucidati in un plateale agguato a colpi di kalashnikov consumato nel marzo dell’anno successivo lungo il tratto coriglianese della Statale 106 jonica.
Per questo Maurizio Barilari è da oltre cinque anni detenuto nelle carceri di Parma prima e attualmente de L’Aquila in regime di 41-bis.
Il fratello Fabio, detenuto nel carcere di Catanzaro e difeso dall’avvocato Sisca, rispondeva invece di soli quattro capi d’imputazione a fronte degli undici contestati al primo.

http://www.sibarinet.it/index.php/blog/27-cronaca/5200-%E2%80%9Csanta-tecla%E2%80%9D-la-cassazione-conferma-le-condanne-ai-fratelli-barilari.html

“Gentleman”: dopo i fermi arriva l’ordinanza del Gip distrettuale

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Oltre una trentina gl’indagati per mafia e traffico internazionale di droga catturati nel blitz del 16 febbraio. Ora la “palla” passa ai difensori che ricorreranno al Riesame

Scadeva nella giornata di ieri l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Castrovillari, Carmen Ciarcia, nei confronti di quel nugolo d’indagati nell’ambito della maxi-inchiesta antimafia “Gentleman” che lo scorso 16 febbraio ha portato al fermo, disposto dai magistrati della Dda di Catanzaro, d’una trentina di persone accusate a vario titolo d’associazione mafiosa e d’un colossale traffico internazionale ed intercontinentale di sostanze stupefacenti.
Il gip di Castrovillari aveva infatti convalidato i fermi e al contempo emesso le misure cautelari – per tutti in carcere – trasmettendo l’intero incartamento giudiziario al giudice distrettuale di Catanzaro dichiarando la propria incompetenza sugli specifici reati contestati.
E proprio alla scadenza, nella stessa mattinata di ieri, il gip distrettuale, Ilaria Tarantino, ha spiccato l’ordinanza applicativa delle misure cautelari in carcere per tutti gl’indagati.
Si chiude così il primo “cerchio” – quello, appunto, relativo alla fase cautelare – nell’ambito dell’ultima operazione antimafia vergata dal Procuratore capo della Dda catanzarese, Antonio Vincenzo Lombardo, dai procuratori aggiunti Vincenzo Luberto e Giovanni Bombardieri, e dal sostituto Domenico Guarascio, a contrasto del traffico planetario di droga con “al centro” il locale di ‘ndrangheta degli “zingari di Cassano Jonio e di Corigliano Calabro.
Solo un passaggio formale di carattere procedurale, dunque, che non cambia la sostanza delle accuse mosse agli arrestati all’alba di lunedì 16 febbraio.
Tra gl’indagati i nomi che spiccano, per l’estrema gravità dei reati contestati dalla Procura distrettuale, sono quelli del 46enne Filippo Solimando di Corigliano, ritenuto capo ‘ndrangheta e “mente” dell’organizzazione dedita al narcotraffico, il 25enne Luigi Abbruzzese di Cassano – sfuggito alla cattura ed ancora e tuttora attivamente ricercato – il 42enne Salvatore Nino Ginese di Corigliano, il 48enne Francesco Policastri di Corigliano, il 50enne Leonardo Policastri di Corigliano, il 32enne Francesco Abbruzzese di Cassano, il 30enne Antonio Pavone di Cassano – anch’egli sfuggito al blitz e costituitosi diversi giorni dopo ai carabinieri del Comando provinciale – il 60enne Carmine Alfonso Maiorano di Corigliano, l’argentino 61enne Pedro Juan Petrusic di Terranova da Sibari.
Per alcuni di essi, oltre all’accusa di narcotraffico internazionale v’è quella d’associazione mafiosa.
Ora la “palla” passa al collegio difensivo – composto, tra gli altri, dagli avvocati Fabio Salcina, Giovanni Zagarese, Pasquale Di Iacovo, Antonio Sanvito, Giorgia Greco, Francesca Gallucci, Rossana Cribari e Natale Morrone – che presto ricorrerà al Tribunale del Riesame.

http://www.sibarinet.it/index.php/blog/27-cronaca/5218-%E2%80%9Cgentleman%E2%80%9D-dopo-i-fermi-arriva-l%E2%80%99ordinanza-del-gip-distrettuale.html

‘Ndrangheta, nuovo colpo della Finanza al clan degli zingari – Disposti 32 arresti e sequestrate 3 tonnellate di droga

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Dopo i fermi dello scorso 16 gennaio arrivano gli arresti disposti dal gip di Catanzaro e il sequestro di 3 tonnellate di droga contro il clan degli Abbruzzese di Cassano allo Ionio e gli affiliati del locale di Corigliano Calabro

CATANZARO – La maxi operazione antidroga, denominata “Gentlemen” che ha sgominato una organizzazione attiva in tutta Italia messa a segno lo scorso 16 febbraio (LEGGI LA NOTIZIA) ha vissuto nel corso della notte un ulteriore approfondimento da parte della Guardia di Finanza coordinata dalla procura distrattuale di Catanzaro che ha dato esecuzione a diversin ordini di arresto.

In tutto 32 persone sono state arrestate in quanto ritenute collegate a vario titolo al locale di ‘ndrangheta di Corigliano Calabro e nello specifico alla cosca degli zingari di Cassano allo Ionio.

Nel corso dell’operazione, che ha portato prima ai fermi e ora agli arresti, sono state anche sequestrate tre tonnellate di droga (cocaina, eroina e marijuana) che una volta lavorata ed immessa in commercio, avrebbe fruttato all’organizzazione oltre 45 milioni di euro, e diverse armi,tra le quali anche armi da guerra come kalashnikov. Tra i 32 arrestati figura anche un latitante.

LEGGI DI COME IL CLAN PAGAVA LA COCAINA CON LE ARMI

Gli arresti sono stati disposti dal giudice per le indagini preliminari di Catanzaro che ha accolta la richiesta formulata dai magistratti Giovanni Bombardieri, Vincenzo Luberto, Domenico Guarascio e Vincenzo Lombardo della procura distrettuale di Catanzaro che hanno lavorato in sinergia con il magistrato Sandro Raimoni della procura di Brescia, e con il pm Alessandra Susca della procura di Matera. Le indagini hanno consentito di delineare «l’attività delittuosa dei sodalizi criminali riconducibili a Filippo Solimando e Luigi Abbruzzese, ritenuti i soggetti alla cui egemonia risultano soggiogate la locale di Corigliano Calabro e la ‘ndrina degli zingari di Cassano allo Ionio, compagini storicamente dotate di autonomia ed accertata operatività criminale nell’ambito del traffico internazionale di stupefacenti. nel corso degli anni “gli zingari” si sono emancipati da una situazione di dipendenza che li relegava ai margini delle associazioni ‘ndranghetistiche sino ad assurgere alla preposizione di un locale di ‘ndrangheta».

Le indagini sono durate due anni ed hanno dimostrato come l’organizzazione «avesse accesso ai mercati sudamericani, per la cocaina ed a quelli dell’est europeo, per l’eroina e la marijuana, così da importare a prezzi assolutamente concorrenziali ingenti partite di stupefacente». Inotlre, le investigazioni hanno svelato «l’esistenza di una fitta rete di pericolosi narcotrafficanti internazionali in grado di movimentare grossi quantitativi di marijuana dall’Albania verso l’italia, avvalendosi di vettori marittimi dell’organizzazione, nonchè di cocaina ed eroina, mediante l’impiego di automezzi modificati nella struttura al fine di ricavarne appositi vani funzionali all’occultamento».

L’inchiesta ha consentito «di identificare la totalità dei soggetti coinvolti, legati per lo più da “vincoli di sangue” nel rispetto della migliore tradizione ‘ndranghetistica, e di individuare, tra l’altro, i differenti ruoli svolti in seno al sodalizio criminoso».

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/735026/-Ndrangheta–nuovo-colpo-della.html

‘Ndrangheta, sequestrate armi e 3 tonnellate di droga: 32 arresti

Più di tre tonnellate di droga, tra cocaina, eroina e marijuana, oltre a numerose armi (tra cui kalashnikov), 32 ordinanze di custodia cautelare e la cattura di un pericoloso latitante: questo l’esito dell’operazione antidroga ‘Gentleman’, condotta dalla guardia di finanza di Catanzaro, Brescia e Matera, che ha svolto le indagini insieme al Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata. I 32 arresti, eseguiti in Calabria, Puglia, Basilicata, Piemonte, Emilia Romagna e Lombardia, riguardano persone riconducibili a Filippo Solimando e Luigi Abbruzzese, a capo della ‘locale’ di ‘Ndrangheta di Corigliano Calabro e della ‘ndrina degli ‘Zingari’ di Cassano allo Ionio, specializzati nel traffico internazionale di stupefacenti. Il commercio della cocaina avveniva in collaborazione con i mercati sudamericani, mentre per l’eroina e la marijuana si privilegiava la pista dell’est europeo. Entrambe le rotte hanno permesso di importare a prezzi assolutamente concorrenziali ingenti partite di droga. La marijuana, in particolare, arrivava in Italia dall’Albania via mare mentre cocaina ed eroina viaggiavano su automezzi modificati in cui erano stati ricavati appositi vani per nascondere la droga. La droga sequestrata, una volta lavorata e immessa in commercio, avrebbe fruttato oltre 45 milioni di euro. Colpito anche il patrimonio accumulato dai principali arrestati, che comprende beni immobili, quote societarie, automobili di lusso e imbarcazioni.

http://www.lapresse.it/video/cronaca/ndrangheta-sequestrate-armi-e-3-tonnellate-di-droga-32-arresti-1.672901

‘Ndrangheta, 11 arresti cosca Piromalli: sequestri per 210mln di euro

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REGGIO CALABRIA – Dalle prime luci dell’alba, i Finanzieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, del Nucleo Speciale Polizia Valutaria e dello S.C.I.C.O. di Roma, stanno eseguendo tra Calabria, Campania e Toscana, un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Giudice per le Indagini preliminari presso il locale Tribunale su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, nei confronti di 11 soggetti (di cui 1 in carcere, 7 ai domiciliari e 3 con l’obbligo di dimora) e il contestuale sequestro delle quote di 12 società e altri beni per un valore di oltre 210 milioni di euro, tra cui il complesso immobiliare del Parco Commerciale “ANNUNZIATA” di Gioia Tauro.

Il sequestro in questione rappresenta, per importanza e per consistenza uno dei più significativi operati negli ultimi anni.

In particolare l’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa:

- nei confronti di ANNUNZIATA Alfonso (custodia in carcere) per il delitto di associazione di cui all’art. 416 bis c.p. e per quello di associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di cui agli artt. 473 e ss., 515 e ss., 648 c.p.;

- nei confronti di EPIFANIO Domenica, ANNUNZIATA Rosa Anna, ANNUNZIATA Valeria, ANNUNZIATA Marzia, AMBESI Carmelo, PONTORIERO Claudio, BRAVETTI Roberta (arresti domiciliari), BRAVETTI Andrea, FANI’ Andrea e ANNUNZIATA Fioravante (obbligo di dimora) per i delitti di associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di cui agli artt. 473 e ss., 515 e ss., 648 c.p..

Nell’ambito delle indagini delegate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria – D.D.A. sviluppatesi attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali, attività di riscontro sul campo quali servizi vari di osservazione, pedinamento e controllo nonché attraverso un’attenta analisi di un vasto e variegato materiale documentale ed infine tramite l’apporto dichiarativo di vari collaboratori di giustizia, è stato acquisito il grave quadro indiziario dimostrativo dell’intraneità dell’imprenditore ANNUNZIATA Alfonso – di origini campane, ma stabilitosi in Gioia Tauro sin dalla fine degli anni ’80 – alla ‘ndrangheta e, in particolare, all’articolazione territoriale operante in Gioia Tauro, nota come cosca “PIROMALLI”.

Sul punto, giova osservare come tale cosca sia una delle più potenti della ‘ndrangheta, come – peraltro, nel corso degli anni – svariate sentenze hanno reiteratamente confermato.

Le indagini portate a termine dalle Fiamme Gialle hanno evidenziato che i rapporti tra l’imprenditore e il gruppo criminale risalgono agli albori dell’attività commerciale di ANNUNZIATA Alfonso, ovvero ad oltre un trentennio, e che il suo iniziale ruolo di vittima, estorto dalla ndrangheta, si è poi trasformato nel tempo in un chiaro rapporto simbiotico, dal quale sia l’organizzazione criminale che l’imprenditore hanno tratto vantaggio indiscutibili.

Difatti, le indagini hanno permesso di documentare attraverso la viva voce dell’Annunziata, intercettato mentre raccontava ai suoi congiunti ed al suo commercialista vari episodi del passato, come i primi rapporti dell’imprenditore con l’allora capocosca latitante PIROMALLI Giuseppe cl. 21 iniziano proprio a metà degli anni ’80, allorquando l’imprenditore, da poco abbandonato il commercio ambulante di abbigliamento nei mercati rionali, apriva un negozio nel cuore della città di Gioia Tauro.

Proprio in quegli anni si verificavano i primi attentati che costringevano l’imprenditore ad allontanarsi da Gioia Tauro e a farvi rientro solo dopo aver chiesto personalmente il consenso al capocosca, durante la celebrazione di uno dei tanti processi che vedevano alla sbarra il Piromalli.

Ebbene, da quel momento, ottenuto il placet, l’Annunziata inizia la sua scalata imprenditoriale, che lo ha visto in poco tempo divenire unico proprietario di un vero e proprio impero con la creazione del più grande centro commerciale della Calabria e tra i primi del Sud Italia.

Il rapporto sinallgmatico fra l’imprenditore e la cosca, come detto, portava indiscutibili vantaggi per entrambe le parti: da un canto, l’Annunziata poteva lavorare in un regime sostanzialmente di monopolio, senza alcun tipo di problema “ambientale”, anzi – ove necessario – ottenendo anche trattamenti di favore da parte della P.A. presso cui intervenivano pressioni da parte della cosca; quest’ultima, poi, poteva arricchirsi e svilupparsi nel settore imprenditoriale, cosa che altrimenti – considerata la normativa antimafia – le sarebbe stata assolutamente preclusa.

Dalle indagini emerge che, in questa veste, l’imprenditore gioiese, unico e indiscusso leader commerciale dell’abbigliamento nella piana di Gioia Tauro, è addirittura interpellato da chiunque voglia intraprendere un’attività economica all’interno dell’omonimo centro commerciale, non già per discutere di vincoli contrattuali o commerciali, ma per avere dallo stesso rassicurazioni sulla tranquillità ambientale, garantendo il suo fattivo contributo quale referente della ‘ndrangheta locale.

Più in particolare, l’attività investigativa ha dimostrato che già il primo terreno, sul quale è stato costruito l’originario capannone del Centro Commerciale “ANNUNZIATA”, è stato in realtà acquistato nel 1993 dall’allora capocosca PIROMALLI Giuseppe cl. 45, ma intestato proprio all’imprenditore gioiese, e che la costruzione dei capannoni realizzati nel tempo – e tutt’ora in fase di ampliamento – era appannaggio di imprese legate o autorizzate dalla cosca di ‘ndrangheta dei PIROMALLI.

Dalle indagini portate a termine dalla Guardia di Finanza risulta, inoltre, che tra le motivazioni dell’omicidio di Rocco MOLÈ, avvenuto nel febbraio del 2008 e che ha fatto da spartiacque nei rapporti tra le due cosche, vi fossero anche i contrasti per accaparrarsi la costruzione dei capannoni del centro commerciale ANNUNZIATA.

Dalle indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria è anche emerso che l’imprenditore gioiese non ha avuto alcuna voce in capitolo in tale affare, non potendo decidere neanche la ditta cui affidare i lavori in quanto tale decisione era appannaggio esclusivo della locale malavita, non per mera e semplice imposizione mafiosa, ma nella piena compartecipazione alle scelte strategiche della cosca Piromalli, attesa la consapevolezza che tale progetto imprenditoriale fosse una loro creatura.

Tale dato risulta, peraltro, corroborato da quanto si è potuto accertare circa la disponibilità di numerosi appezzamenti di terreno nella zona circostante il centro commerciale ed adiacente lo svincolo autostradale di Gioia Tauro.

Nel corso delle investigazioni è stato possibile documentare, altresì, l’esistenza di una parallela e fiorente attività criminosa, finalizzata alla vendita di articoli di abbigliamento ed accessori (e/o prodotti affini) recanti marchi o segni distintivi contraffatti (artt. 473, 474 e 648 c.p.), nonché – in taluni casi – alla consumazione del delitto di frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.) ovvero della fattispecie di “vendita di prodotti industriali con segni mendaci” (art. 517 c.p.).

Si tratta di una pluralità indeterminata di condotte delittuose, che ruotano in sostanza attorno a due compagini associative, che solo apparentemente e formalmente sono risultate distinte tra loro, ma che – attesa la medesima tipologia di merce commercializzata, l’identico contesto territoriale in cui operano, nonché l’esistenza di reciproci e strettissimi rapporti di parentela (e di frequentazione), oltre che le cointeressenze economiche, tra i soggetti coinvolti – sono state concretamente considerate operanti in connessione e stretta sinergia tra di loro.

La prima compagine facente capo e promossa da Alfonso ANNUNZIATA – ha operato (ed opera) più propriamente nell’ambito delle attività commerciali della società Annunziata s.r.l. e della omonima ditta individuale, e costituisce un sodalizio criminoso, che annovera tra i partecipi, oltre al predetto ANNUNZIATA, il fratello Fioravante, la moglie EPIFANIO Domenica, le figlie Valeria, Rosa Anna e Marzia ANNUNZIATA, nonché AMBESI Carmelo.

L’altra associazione capeggiata da PONTORIERO Claudio (genero di Annunziata Alfonso e marito della figlia di quest’ultimo Rosa Anna) è attiva più specificatamente nell’ambito degli interessi economici della società MAIPON LINE SNC di PONTORIERO Claudio & C., con punto vendita aperto, anch’esso, all’interno del Parco commerciale Annunziata. Tale sodalizio criminale contempla quali partecipi, oltre al citato PONTORIERO e alla moglie ANNUNZIATA Rosa Anna nonché i sodali BRAVETTI Roberta (con il ruolo di promotrice ed organizzatrice), BRAVETTI Andrea e FANI’ Andrea.

http://www.lameziaclick.com/calabria/2015_03_12/ndrangheta-11-arresti-cosca-piromalli-sequestri-210mln-di-euro_8740

Protestano i dipendenti del parco commerciale sequestrato

GIOIA TAURO (RC) – Un gruppo di lavoratori delle aziende sequestrate nel centro commerciale dell’imprenditore Alfonso Annunziata, il più grande della Calabria, hanno protestato stamane nei pressi della struttura per chiedere che venga fatta chiarezza sulla vicenda.

Il centro commerciale è stato sequestrato nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria chiamata ‘Bucefalo’ contro la cosca della ‘ndrangheta dei Piromalli che ha portato anche all’arresto di Alfonso Annunziata e di altre persone.

L’ipotesi investigativa è che la struttura commerciale sia interamente nelle mani dei Piromalli.

Nel corso della protesta i lavoratori hanno espresso solidarietà nei confronti dell’imprenditore arrestato sostenendo che non c’è mai stata “nessuna interferenza da parte della ‘ndrangheta”. I lavoratori hanno anche auspicato che venga fatta chiarezza sulla vicenda nella speranza di non perdere il loro posto di lavoro.

(ANSA)

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