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Il caso Bisceglia in Parlamento

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Il testo dell’interrogazione di Molinari e Pepe a tre ministri della Repubblica

Per noi de La Provincia il momento tanto atteso è arrivato. Dopo giorni di inchiesta serrata, qualcuno si è accorto di noi e del reportage di Michele Santagata sull’omicidio del magistrato Federico Bisceglia. Il Corriere del Mezzogiorno ovvero l’edizione meridionale del Corriere della Sera ha dato ampio risalto alla nostra inchiesta. Ma la notizia ieri dilagava un po’ su tutto il web. Solo i media calabresi continuano a ignorarla vergognosamente.
Nel corso della giornata di ieri si è mosso qualcosa anche in Parlamento. E così i senatori del Gruppo Misto Pepe e Molinari hanno presentato un’interrogazione ai ministri dell’Interno, della Giustizia e delle Infrastrutture e Trasporti interamente ispirata all’inchiesta di Michele Santagata su La Provincia.
Ecco il testo integrale dell’interrogazione.
Nella pagina a destra il testo integrale dell’articolo del Corriere del Mezzogiorno scritto da Roberto Russo e Concetta Schiariti.

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA

PEPE, Molinari, – Ministri dell’Interno, della Giustizia e delle Infrastruttture e Trasporti
Premesso che:
lo scorso 28 febbraio moriva in un presunto incidente stradale, tra le ore 23,30 e le 23,45, al Km. 205,700 della carreggiata sud dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (comunicato ANAS), il Pubblico Ministero Dr. Federico Bisceglia, magistrato che svolgeva indagini delicate sulle attività criminose delle ecomafie;
in data 9 marzo, un articolo sul quotidiano “La Provincia di Cosenza” dall’eloquente titolo “Il giudice Bisceglia è stato eliminato” , ha diffuso notizie tendenti a ricostruire una dinamica inquietante sul sinistro mortale suddetto, che invita piuttosto ad ascriverlo come sospetto omicidio;
da attendibili testimonianze oculari, il giornalista estensore dell’articolo rivela che, nei pressi del viadotto di San Leonardo – Km. 195 carreggiata nord dell’autostrada SA-RC – alle ore 21 del 28 febbraio – due ore e mezza prima dell’incidente in cui sarebbe incorso il magistrato – ci sarebbe stato un grave incidente stradale, con contorno di auto della polizia, vigili del fuoco e 118 : incidente del quale non si ha riscontro;
Considerato che:
alle ore 9,46 di domenica 1° marzo dalle colonne de il Mattino.it, esce il titolo: “Tragico incidente in autostrada: muore Bisceglia, il pm che indagava sul caso Fortuna e sui reati ambientali. Auto fuori strada, volo di 30 metri. Ferita nello schianto una seconda persona”;
un incidente stradale che coinvolge un magistrato di tale rilievo, vede un primo comunicato della stampa 11 ore dopo, ad opera di Adnkronos, che solo alle ore 10,57 del 1° marzo pubblica il comunicato dell’Anas, il cui contenuto è assolutamente diverso da quello riportato da il Mattino.it;
lo stato dei luoghi dell’incidente, che ha importato la chiusura per cinque ore del tratto autostradale interessato, sembra – a giudizio degli interroganti – contraddire meccanica e modalità di svolgimento dello stesso;
dai testacoda che sono costati la vita al magistrato è uscito miracolosamente indenne il passeggero (una dottoressa, amica del magistrato): un esito non diverso da quello diversamente descritto da il Mattino.it come volo di 30 metri da un cavalcavia, per quanto più inverosimile;
Considerato, inoltre, che
il magistrato risulterebbe partito da una non meglio specificata località della Toscana, per poi deviare durante il tragitto in direzione agro nocerino, per prelevare la dottoressa e dirigersi verso Botricello, per far visita ai propri familiari e che, durante il viaggio, già nella A3, ad una decina di chilometri da dove avrebbe trovato la morte (verosimilmente l’autogrill, o un’area di sosta nei suoi pressi), i due avrebbero fatto una sosta (così rendendo meno plausibile come motivo dell’incidente il colpo di sonno;
si chiede di sapere, ai ministri citati in epigrafe, per le rispettive competenze,
se il P.M. era sottoposto a regime di sorveglianza, data la delicatezza delle indagini da lui condotte ovvero, in caso negativo, perché non lo fosse, perlomeno in questa circostanza;
se risultano le circostanze citate (ingressi nei caselli autostradali, soste nelle aree di servizio ed altre eventuali) assistite da prove (video, fotografiche o radio) utili a tracciare gli spostamenti del magistrato;
se le necessarie indagini investigative e giudiziarie stiano procedendo speditamente all’accertamento delle modalità del sinistro, oltre le genericità del comunicato ANAS sul caso in questione;
se sia stata disposta nel modo più celere possibile l’autopsia del malcapitato.

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Benvenuti nella terra dell’omertà tra collusi e assassini di stato

Siamo un popolo in vendita. Chiunque può comprarci e usarci

Povero Federico, amico della gente. La stessa gente che oggi di fronte alla tua tragedia gira la faccia dall’altra parte. Abituata com’è ad accettare supinamente tutto quello che la mala giustizia ci propina. Una accettazione che sa di rassegnazione. Una terra amara la nostra. Dove la verità non ha casa. Vive raminga nei cuori dei singoli. E lì muore. Non c’è pace per noi quaggiù. Nessuno vuol sentire più parlare più di te, Federico. Oramai sei sepolto. Così come hanno sepolto la verità su quella sera. Un sabato come tanti per te. Spensierato, e con la gioia di tornare a casa. Magari per qualche giorno. A respirare l’aria fina della tua terra. Ma qui nessuno ti ricorderà. Se non i tuoi cari. E la tua memoria insozzata dalla retorica dei tuoi assassini. Alcuni di loro molto probabilmente si battevano il petto in chiesa davanti alla tua bara. Tutto è compiuto. E ciò che è stato è stato. Non serve rinvangare per disseppellire la tua verità. Non si può. E provarci è inutile. Non basta essere testardi, capaci, onesti, rispettosi degli altri, per suscitare ammirazione, appartenenza, affetto e solidarietà. Nessuno mai ti ricambierà. Dovevi fare di più. Bussare alla porta di ognuno di noi. Prenderci uno per uno. Scuoterci. Urlarci in faccia che ciò che facevi era solo per noi. Per il rispetto che ci portavi. Per il bene dei nostri figli. Quei bambini che tu amavi. Come solo un padre sa fare. Anche se tu padre non eri. Una rinuncia che tanto ti è costata. Ma fatta con consapevolezza. E solo per amore. Amore verso quel figlio che non avresti mai voluto restasse orfano. E’ dura da mandare giù. Tu sapevi che sarebbe finita così. Ma non ti sei tirato indietro. Capace nel tuo lavoro come pochi altri. Chissà quante volte sfogliando le tante carte delle tue importantissime (per la gente) inchieste, ti sarà capitato di leggere il nome del tuo assassino. Perché di assassini della terra e degli uomini, parlano le tue carte. Gente spietata. Senza scrupolo. Capace di avvelenare interi territori e lasciar morire, dopo lenta agonia, uomini, donne e bambini. Assassini con coperture importanti. Che muovono somme enormi di denaro e possono comprare tutto e tutti. Politici, giudici, poliziotti, giornalisti. Nulla è impossibile per loro. Ed è talmente tanto il loro potere che se mai dovessero incappare in una “norma” che li ostacola possono permettersi pure di cambiare la Legge. Così, dalla sera alla mattina. Senza che nessuno di noi se ne accorga. Impuniti per Legge. E così resteranno per il tuo assassinio. Archiviato come un “banale” incidente. E’ questa la mesta conclusione. Solo un bravo e onesto investigatore come te, a guardare “il fatto” non ci sarebbe mai cascato. Avresti sin da subito iniziato a fare domande sulle tante cose di questo presunto incidente che non tornano. Ma purtroppo a Cosenza non c’è un giudice come te. Che ci posso fare! Noi ci abbiamo provato a dire che tu mai sei passato dal chilometro 205,700 carreggiata sud della Sa-Rc alle ore 23,45 di quel sabato. Non esiste nulla di concreto che ti collochi lì. E’ chiaro. Andate sul posto! E capirete. Avevo sperato che questo tuo strano incidente suscitasse in qualche tuo collega un moto di orgoglio e di appartenenza. Alla verità. Ma è stata una speranza vana. Vili e codardi! E molto probabilmente alcuni di loro collusi. Nessuno ci ascolta. Qui vale ancora: non vedo non sento non parlo. E’ meglio fare così. Perché il tuo è un “caso che scotta”. Si rischia la pelle. E chi ce lo fa fare. Meglio campare sfruttati, nella miseria, e senza dignità, che morire ammazzati. Perché qui per reclamare uno straccio di vita giusta e dignitosa bisogna essere degli eroi. Dei martiri. Bisogna essere disposti all’estremo sacrificio. Qualunque cosa giusta che fai, dal più semplice gesto quotidiano fino al più profondo dei sentimenti, costa fatica. Denaro. E qui di soldi non ce n’è. Siamo un popolo in vendita. Chiunque può acquistarci, usarci e poi buttare via. E’ questo quello che spiegava Federico, nei suoi incontri coi ragazzi. Voleva dirci che è l’ora di parlare, di non stare più zitti. Di uscire da quelle vetrine dorate “dell’antimafia”, mettersi in gioco veramente. Imparare che difendere la nostra terra non è sempre stare seduti su poltrone in sonnacchiosi convegni. Bisogna dare l’esempio. Quello che rompe la grammatica. E datelo allora questo esempio! Mostrateci che non state con gli assassini di Federico e delle nostra terre! Fate luce e chiarezza su questo presunto incidente. Fugate ogni nostro dubbio. Parlate alla gente, se non volete farlo con noi. Diteci che è stata solo una fatalità guardandoci negli occhi. E noi vi crederemo. Perché, checchè ne pensiate, è solo la verità che cerchiamo. E non capiamo perché qui, nella nostra terra, deve essere sempre tradita. Lo so che qualcuno dirà che noi siamo abituati a vedere il marcio dappertutto. Altri invece diranno i soliti complottisti. Per finire al classico: chi non si adegua alla false verità dello stato, diventa un matto. Un folle. Uno che non ha niente da perdere o da fare. E che magari vuole pure specularci sopra. Va bene anche così. Ognuno è libero di pensare quello che vuole. Come noi siamo liberi di pensare che il mondo dell’informazione in Calabria ci fa ribrezzo. Schifo. Perché se possiamo “capire” che a non volerci dare retta sono i soliti collusi che lavorano nelle nostre istituzioni, i giornalisti no! Questi non li possiamo giustificare. Perché quello che abbiamo scritto, sul presunto incidente in cui è incappato il povero Federico, merita un pizzico di considerazione. Almeno sugli elementi “banali” da noi presentati, così, semplicemente, senza nessuna congettura. Ipotesi. Nudi e crudi : perché non esistono foto di questo incidente? Perché non c’è nessun verbale della polizia, del 118, dei vigili del fuoco? Che fine ha fatto la macchina, un Lancia K? Esiste qualche immagine che collochi Federico, e la dottoressa, verso il chilometro 205,700 dell’A3 alle ore 23,45 di sabato 28 febbraio 2015, carreggiata sud? Perché la notizia della morte di un importante pm, arriva alla stampa 11 ore dopo? Penso che solo questo, senza aggiungere altro, possa bastare a far sorgere qualche dubbio. E se così non è, vuol dire che anche voi siete collusi. Pagati per non scrivere. Per raccontarci cazzate. E nel paese della Libertà, ognuno è libero di credere alle cazzate che vuole.

Michele Santagata

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Tonnetti contaminati, Presa diretta sul Tirreno

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Il programma di Iacona, in onda stasera su Raitre, si occuperà dell’inchiesta curata dal Corriere della Calabria. Nel corso della trasmissione anche la vicenda della valle dell’Oliva e del cattivo funzionamento dei depuratori del Tirreno

LAMEZIA TERME La vicenda dei tonnetti contaminati pescati nel Tirreno cosentino denunciata dal Corriere della Calabria, ma anche la storia della valle dell’Oliva con i suoi veleni interrati e i depuratori che funzionano a singhiozzo lungo la costa tirrenica. Le telecamere di Presa diretta, la trasmissione condotta da Riccardo Iacona, torneranno nella nostra regione per comprendere lo stato di salute dell’ambiente, ma soprattutto dei corsi d’acqua e del mare in Calabria. Durante la trasmissione dal titolo “Salviamo il mare”, in onda stasera alle 21.45 su Raitre, l’inviata Elena Stramentinoli affronterà il caso dei tonnetti alletterati pescati al largo di Fiumefreddo e rinvenuti con un’elevata concentrazione di Idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) e Policlorobifenili (Pcb) nelle lische. Un caso scoperto grazie a un’inchiesta pubblicata sul Corriere della Calabria. Ai microfoni della Rai il giornalista Roberto De Santo, che ha curato l’inchiesta per il Corriere, racconterà la vicenda che ha destato tanta preoccupazione nella popolazione della costa tirrenica cosentina.

Ma il programma di Iacona tratterà anche la questione della bonifica dei terreni della valle dell’Oliva – contaminati da metalli pesanti – sollecitata ancora una volta dagli attivisti del Comitato Natale De Grazia. Come anche l’inchiesta portata avanti dal procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, sullo stato di salute dei depuratori dell’intera costa tirrenica cosentina. Un tema delicato visto che proprio in materia di scorretta depurazione dei reflui fognari pende la spada di Damocle delle sanzioni dell’Europa. «L’Unione europea – denunciano i curatori della trasmissione Presa diretta – ci ha già condannato due volte e ha aperto una terza procedura di infrazione che, con ogni probabilità, porterà a una terza condanna. Il ministero dell’Ambiente ha stimato in 9 milioni di euro, le multe che dovremo pagare se continuiamo a inquinare il Mediterraneo».

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/31377-tonnetti-contaminati,-presa-diretta-sul-tirreno

I riflettori di Presa diretta sui tonnetti contaminati

L’inviata della trasmissione andata in onda su Raitre si è recata lungo il Tirreno cosentino per approfondire l’inchiesta curata dal Corriere della Calabria. Focus anche sul cattivo funzionamento dei depuratori e l’inquinamento della valle dell’Oliva

PAOLA È finita sotto i riflettori di “Presa diretta”, la trasmissione curata da Riccardo Iacona, la vicenda dei tonnetti alletterati pescati lungo il Tirreno cosentino nelle cui lische è stata riscontrata la presenza di un alto grado di concentrazione di Idrocarburi policiclici aromatici (Ipa). Ma anche di Policlorobifenili (Pcb). Elementi considerati dalla letteratura scientifica altamente pericolosi per la salute umana e causa anche di mutazione genetica dei pesci. Una storia emersa grazie all’inchiesta del Corriere della Calabria. Ai microfoni di Elena Stramentinoli, l’inviata dalla trasmissione andata in onda su Raitre, il giornalista Roberto De Santo ha ricostruito la vicenda pubblicata sul settimanale e rilanciata anche sito dello stesso Corriere della Calabria. Una storia che rientra nella più complessa emergenza che attiene il Mediterraneo contaminato da varie forme di inquinamento. Ed è proprio su questo fronte che la puntata andata in onda domenica sera – dal tema emblematico “Salviamo il mare” – si è concentrata passando in rassegna il mondo di rifiuti di ogni sorta che in vari modi finisce nelle nostre acque: dalle plastiche ai reflui fognari non depurati.

Giordano

Su quest’ultima situazione l’inviata di “Presa diretta” ha intervistato il procuratore capo della Repubblica di Paola, Bruno Giordano, titolare di una complessa indagine che ha portato a scoprire decine di casi di malfunzionamento di depuratori lungo la costa tirrenica cosentina. Stando a quanto emerso dalle parole del procuratore capo, quattordici depuratori che servono altrettanti comuni della costa avrebbero presentato disfunzioni che, in alcuni casi, avrebbero prodotto lo sversamento in acqua dei reflui senza alcuna depurazione.

Ma la puntata di Presa diretta si è occupata anche della vicenda dell’inquinamento della Valle dell’Oliva con un’intervista al responsabile del Comitato “Natale De Grazia”, Gianfranco Posa. Una storia già finita al centro di un’inchiesta della Procura di Paola e che è alla base del processo davanti la Corte d’Assise di Cosenza dove si trova alla sbarra un imprenditore di Amantea, Cesare Coccimiglio con altre 4 persone accusate a vario titolo di aver interrato nell’area fino a 140mila metri cubi di materiale pericoloso – soprattutto metalli pesanti, ma anche cesio 137 – provocando la contaminazione dell’ambiente e cagionando anche la morte di un pescatore che abitualmente si recava in zona. Il viaggio di “Presa diretta” ha consentito di far comprendere la complessità dei problemi che riguardano il pianeta mare e la necessità di intervenire per ridurre l’inquinamento delle acque e conseguentemente il rischio di contaminazione della catena alimentare che proviene dal mare.

Clicca quì per approfondimenti sull’inquinamento e sull’aumento dei tumori nel Meridione

Paola: dossier “Tela del Ragno” (condanne per oltre 100 anni di carcere), il caso Bruni e il pentito Foggetti

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‘Ndrangheta, arrestati i presunti omicidi di Luca Bruni
Il figlio del boss “bella bella” ucciso in uno scontro di potere

Due arresti e una persona ancora ricercata. Questo il bilancio dell’operazione che ha fatto luce sulla morte di Luca Bruni figlio del boss Francesco detto “Bella bella”. La morte decisa dai clan Rango-Zingari

COSENZA – Nuovo scacco al clan degli zingari di Cosenza, nelle prime ore del mattino, infatti, i Carabinieri e la Squadra Mobile di Cosenza hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Maurizio Rango, 38 anni, e di Franco Bruzzese, 47 anni, ritenuti i “reggenti” della cosca di ‘ndrangheta “Rango- Zingari”, attiva in tutta la provincia di Cosenza.

Secondo quanto chiarito dagli inquirenti i due sono sospettati di concorso in omicidio pluriaggravato, porto e detenzione illegale di armi e occultamento di cadavere, reati tutti aggravati dalle metodologie mafiose. La vittima dell’omicidio è Luca Bruni (LEGGI LA NOTIZIA DEL RITROVAMENTO DEL SUO CADAVERE), di cui si sono perse le tracce il 3 gennaio 2012. I provvedimenti sono stati emessi sulla scorta delle indagini coordinate dal Procuratore Vincenzo Lombardo, dai procuratori aggiunti Vincenzo Luberto e Giovanni Bombardieri e dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni e condotte dal Nucleo Investigativo del Reparto Operativo e dalla Squadra Mobile.

L’indagine era stata avviata dopo la denuncia di scomparsa di Luca Bruni, avvenuta il 3 gennaio 2012, poco prima scarcerato e assunto al vertice del proprio gruppo a seguito della prematura scomparsa del fratello Michele, che stava tentando di organizzarsi per ampliare il raggio d’azione degli interessi illeciti della propria cosca, evidentemente in contrasto con gli accordi già stabiliti da un ”patto” intercorso tra la cosca degli “italiani” con quella degli “zingari”, la prima capeggiata da Ettore Lanzino e verso la quale, spiegano gli inquirenti, lo stesso Bruni nutriva un forte risentimento ritenendola “storicamente” responsabile della morte del padre Francesco, inteso come “bella bella”, e la seconda retta, nel periodo storico di riferimento, da Franco Bruzzese.

L’indagine ha tratto vantaggio anche dal contributo di alcuni collaboratori di giustizia come Adolfo Foggetti, ed ha consentito di raccogliere indizi di colpevolezza nei confronti degli arrestati che avrebbero agito in concorso tra loro, con premeditazione ed al fine di agevolare l’attività delittuosa della cosca mafiosa di riferimento. I due avrebbero attirato la vittima in un tranello, ordito facendogli credere di partecipare a un incontro al vertice dell’organizzazione mafiosa con gli allora latitanti Ettore Lanzino e Franco Presta per poi ucciderlo a colpi di arma da fuoco. Una volta ucciso i due avrebbero nascosto il cadavere che poi è stato rinvenuto dagli inquirenti a distanza di alcuni anni.

Ai due si aggiunge anche una terza persona, Daniele Lamanna, 40 anni, esponente di spicco dello stesso gruppo criminale e destinatario dello stesso provvedimento che però si è reso irreperibile ed è allo stato ricercato.odierne.

mercoledì 18 marzo 2015 11:22

 http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/735276/-Ndrangheta–arrestati-i-presunti.html

Tela del Ragno – Foggetti: «La responsabile era Nella Serpa»

marzo 15, 2015

Concluso il processo “Tela del Ragno”, per gli inquirenti paolani si paventa la possibilità di un procedimento “bis”. Già anticipata dal Pm Eugenio Facciolla durante la sua requisitoria, l’esigenza di una nuova inchiesta è emersa grazie alle confessioni di Adolfo Foggetti, l’ultimo collaboratore di giustizia sorto dopo la retata che ha smantellato il clan degli zingari.

Facendo un riordino dello scambio di battute tra il magistrato ed il collaboratore, è possibile comprendere la sua ascesa criminale, gli interessi rappresentati per conto della cosca e i riferimenti precedenti e successivi al processo che ha cambiato i connotati della malavita paolana.

P.M.: «Lei prende posto diciamo su Paola, diventa in qualche modo il capo un po’ di tutte le attività che si svolgono su Paola… »; Adolfo Foggetti: «Tutte esclusa nessuna, diciamo anche se non… diciamo omicidi non ce ne sono stati»; P.M.: «Ecco, perché proprio Foggetti Adolfo? »; A. F.: «Su Paola io conoscevo il territorio, conoscevo… conosco cioè le persone che stanno sul paolano…»; P.M.: «E perché siete andati ad incontrare a Mario Serpa?»; A.F.: «Siamo andati lì ad incontrare a Mario Serpa per il fatto che lì si stava effettuando l’operazione diciamo del porto di Paola…dovevamo fare le spartizioni… e dice “Cetraro perché ce la chiude, Paola voi, perché siete di Paola e il porto è di Paola, San Lucido rientra con noi, perché sono amici nostri… e Cosenza per il fatto che ci sono Michele bella – bella…”»; P.M.: «Lei si è reso conto di… ha avuto modo di verificare i rapporti che diciamo c’erano nella fase successiva, dopo tela del ragno, tra Cosenza e Paola, cioè c’era qualcuno a Paola che ha preso il posto delle persone che noi abbiamo arrestato? »; A.F.: «Io per qualsiasi… cioè io quando ho diciamo di… che dovevo andare a Paola il duemila e undici a prendere… »; P.M.: «Si, i soldi per la fiera di San Francesco…»; A.F.: «…Questi soldi, per la fiera, in quanto noi avevamo difficoltà per gli arresti che avevamo subito, e io dovevo andare solo ed esclusivamente da Nella Serpa…»; P.M.: «E questo perché ve lo aveva detto qualcuno? O lo sapevate che…»; A.F.: «E io lo sapevo già dall’epoca che Nella Serpa… »;P.M.: «Eh, quindi lo sapevate»; A.F.: «…Cioè dopo la morte di suo fratello… anche se non ha mai diciamo fatto azioni, però è stata sempre responsabile, cioè…» P.M.: «Responsabile era lei»; A.F.: «Tutto il responsabile era lei, tutte cose che ci diceva lei, tutte cose che lei pagava… il punto di riferimento a Paola era Nella».

Francesco Frangella

http://www.marsilinotizie.it/tela-del-ragno-adolfo-foggetti-la-responsabile-era-nella-serpa/

Tela del ragno, condanne per oltre 100 anni

La decisione al termine di una lunga camera di consiglio. Le pene più severe per Gennaro Ditto, a cui il Tribunale di Paola ha inflitto l’ergastolo. Complessivamente sono state 28 le condanne e 14 le assoluzioni per l’inchiesta sui clan del Tirreno cosentino

Mercoledì, 11 Marzo 2015 19:39

PAOLA Un ergastolo, oltre cento anni di carcere e quattordici assoluzioni. La pena più severa è stata comminata a Gennaro Ditto, a cui è stata inflitta la detenzione a vita con l’isolamento. È la decisione assunta dal Tribunale di Paola in seduta collegiale – presidente Paola Del Giudice – e che dopo nove lunghe ore di camere di consiglio ha concluso così il primo grado del troncone con rito ordinario – celebrato davanti ai giudici togati della cittadina tirrenica – della maxioperazione contro le cosche egemoni del Cosentino. Un filone dell’inchiesta che riguardava reati avvenuti tra gli anni 90 e il 2000 lungo il Tirreno cosentino e vedeva alla sbarra 44 imputati (di cui due poi deceduti) accusati a vario genere di associazione mafiosa, per tre tentati omicidi, dieci estorsioni, numerose violazioni in materia di armi, furto della divisa e di un’arma in casa di un carabiniere, simulazione di reato, minacce e usura aggravata. Per questi reati la Corte ha così inflitto pene pesantissime superiori anche alle richieste dall’accusa, come nel caso, appunto, di Ditto, per cui il pm Eugenio Facciolla, titolare dell’inchiesta che aveva portato a disarticolare i clan operanti sia nel capoluogo bruzio che lungo il Tirreno cosentino, aveva chiesto 24 anni. La pena massima richiesta nella sua requisitoria del 12 febbraio scorso. Come anche per Mario Serpa condannato a 20 anni a fronte della richiesta di 15 anni.

Pesante anche la pena comminata a Francesco Tundis – ritenuto dagli inquirenti il boss dell’omonima cosca di Fuscaldo – condannato a 20 anni e 6 mesi di carcere. Mentre 15 anni sono stati inflitti a Giovanni Abruzzese (l’accusa ne aveva chiesto 17). Condanne anche per capi e gregari del clan Serpa di Paola a cominciare da Mario Serpa (20 anni) e Nella Serpa, 18 anni, ritenuta dagli inquirenti la reggente del cosca della cittadina tirrenica in assenza degli altri capostipiti della famiglia.

Si attenderanno ora le motivazioni di questa sentenza per la quale i legali degli imputati annuciano già ricorso.

L’OPERAZIONE
Nell’operazione – coordinata dalla Dda di Catanzaro e alla quale parteciparono nel marzo del 2012 500 militari, oltre a elicotteri e unità cinofile – furono eseguiti 58 arresti e il sequestro di beni per 15 milioni di euro. A finire nel mirino degli inquirenti, in particolare, furono i presunti capi e gregari del clan Perna-Cicero di Cosenza, Gentile-Africano-Besaldo di Amantea, Scofano-Martello-Rosa-Serpa di Paola, Carbone di San Lucido. Oltre alle cosche Tundis di Fuscaldo e Muto di Cetraro. Secondo la ricostruzione effettuata dalla Distrettuale, i clan –attraverso una fitta rete di connivenze – sarebbero riusciti negli anni a infiltrarsi nella ricca torta degli appalti pubblici i cui proventi illeciti sarebbero finiti in una unica “cassa” e ripartiti poi tra i vari affiliati compresi quelli della costa tirrenica.
Ma quell’inchiesta permise anche di ricostruire ben dodici omicidi e tre tentati omicidi avvenuti nel Cosentino tra il 1979 e il 2008.
Una tesi, in realtà, parzialmente ridimensionata poi dal Tribunale di Catanzaro. Infatti, nel rito abbreviato davanti al gup distrettuale, furono emesse nel luglio del 2013 nove assoluzioni e condanne per più di 145 anni di carcere.

Allora l’accusa, rappresentata sempre dal pm Facciolla, aveva chiesto sei ergastoli e 293 anni complessivi per tutti gli imputati. I condannati ottennero una riduzione di un terzo della pena per aver scelto la procedura abbreviata. Mentre rimane pentente a Cosenza davanti alla Corte d’assise un altro filone che vede alla sbarra 17 persone. Gli stessi protagonisti dei clan dominanti nella zona e incriminati per gli omicidi che in trent’anni hanno insanguinato il capoluogo bruzio e la fascia tirrenica cosentina soprattutto nella stagione della guerra di mafia.

LA DECISIONE DELLA CORTE
Giovanni Abruzzese (la richiesta dell’accusa:17 anni) : anni 15
Paolo Brillantino: anni (la richiesta dell’accusa:12 anni): assolto
Adamo Bruni (la richiesta dell’accusa:6 anni) : anni1 mesi 6
Antonio Buono (la richiesta dell’accusa:13 anni) : anni 3
Giovanna Carratelli (la richiesta dell’accusa:15 anni) : anni 10
Aldo Caruso (la richiesta dell’accusa:10 anni) : anni 4
Valerio Salvatore Crivello (la richiesta dell’accusa:20 anni) : anni10
Giuseppe Curioso (la richiesta dell’accusa:12 anni) : anni 4 mesi 3
Vincenzo Dedato, collaboratore di giustizia (la richiesta dell’accusa: 6 anni) : anni 2 mesi 6
Antonio Ditto (la richiesta dell’accusa:13 anni) : anni 3
Gennaro Ditto (la richiesta dell’accusa: 24 anni) : ergastolo
Stefano Di Vanno (la richiesta dell’accusa: 6 anni) : assolto
Antonio Esposito (la richiesta dell’accusa:assoluzione): assolto
Carmela Gioffrè (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : anni 3
Maurizio Giordano, collaboratore di giustizia (la richiesta dell’accusa: 4 anni) : anni 1 mesi 6
Giancarlo Gravina (la richiesta dell’accusa: 17 anni) : anni 7
Luca La Rosa (la richiesta dell’accusa: assoluzione) : assolto
Domenico La Rosa (la richiesta dell’accusa: assoluzione) : assolto
Giuseppe Lo Piano (la richiesta dell’accusa: 20 anni) : anni 11
Alessio Martello (la richiesta dell’accusa: 17 anni) : anni 3 mesi 4
Francesco Martello (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : assolto
Mario Martello (la richiesta dell’accusa: 24 anni) : anni 9 mesi 3
Liberato Martello Panno: anni (la richiesta dell’accusa: 13 anni)
Mario Matera (la richiesta dell’accusa: assoluzione) : assolto
Mario Mazza (la richiesta dell’accusa: 20 anni) : anni 15
Umile Miceli (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : assolto
Andrea Occhiuzzo (la richiesta dell’accusa: assoluzione) : assolto
Fabrizio Poddighe (la richiesta dell’accusa: 20 anni) : anni 10
Francesco Porco (la richiesta dell’accusa: assoluzione) : assolto
Ilario Pugliese (la richiesta dell’accusa: 15 anni) : anni 3 mesi 6
Alessandro Serpa, (la richiesta dell’accusa: 9 anni): assolto
Gino Serpa (la richiesta dell’accusa: 9 anni) : anni 3
Giuliano Serpa, collaboratore di giustizia (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : anni 6 mesi 5
Ulisse Serpa, collaboratore di giustizia (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : anni 3
Livio Serpa (la richiesta dell’accusa: 18 anni) : anni 10
Mario Serpa (la richiesta dell’accusa: 15 anni) : anni 20
Nella Serpa (la richiesta dell’accusa: 20 anni) : anni 18
Giuseppe Sirufo (la richiesta dell’accusa: 9 anni) : assolto
Francesco Pino Trombetta (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : anni 3 mesi 4
Francesco Tundis (la richiesta dell’accusa: 24 anni) : anni 20 mesi 6
Michele Tundis (la richiesta dell’accusa: assoluzione) : assolto
Pietro Sebastiano Vicchio (la richiesta dell’accusa: 13 anni) : anni 3 mesi 6

A questi si aggiungono ulteriori due imputati – Giuseppe Martello e Luca Bruni – per cui l’accusa aveva formulato la richiesta di non doversi procedere per sopravvenuto decesso

Roberto De Santo

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/31265-tela-del-ragno,-condanne/31265-tela-del-ragno,-condanne

Paola

Processo “Tela del ragno”, inflitte 27 condanne

12/03/2015

A Nella Serpa “reggente” dell’omonima cosca mafiosa, 18 anni di carcere. È detenuta al 41 bis. Il Tribunale di Paola è rimasto riunito per otto lunghe ore prima della sentenza in camera di consiglio

“Tela del Ragno”, pene dimezzate e tante assoluzioni. Cade per molti imputati il reato principale, quello dell’associazione. Ma nel complesso l’accusa rappresentata dal pm Eugenio Facciolla ha tenuto per i principali indiziati. Un processo storico quello di Paola che ha ricostruito nel corso del dibattimento, durato due anni, un ventennio di ’ndrangheta. Un processo che ha portato sul banco degli imputati le consorterie criminali organizzate del Tirreno cosentino e in particolare i Serpa di Paola. Si chiude così il secondo capitolo di “Tela del Ragno” dopo i riti abbreviati a Catanzaro dove è in corso l’Appello. Il terzo troncone dedicato agli omicidi si tiene invece a Cosenza. È stato il processo in cui il collegio difensivo e l’accusa si sono confrontati senza esclusione di colpi e in cui il pm ha calato tutti gli assi a disposizione in fase preliminare e dibattimentale. Facciolla ha puntato molto non soltanto sulle intercettazioni ambientali ma anche e soprattutto sui pentiti. Sono stati proprio i collaboratori di giustizia ad avvalorare le sue tesi. Una sentenza molto attesa. Il tribunale è gremito fin dal primo pomeriggio, ma il collegio presieduto da Paola Del Giudice entra in aula, dopo otto ore di camera di consiglio attorno alle 20 e 30. Lo storico capo clan, Mario Serpa si becca una delle pena più alte: 20 anni di reclusione. Mentre la reggente Nella Serpa si ferma a 18 anni. Per Francesco Tundis di Fuscaldo invece sono stati chiesti 20 anni e 6 mesi. C’è anche qualche sorpresa come le assoluzioni di Umile Miceli, Paolo Brillantino e Francesco Martello e per i quali il pm aveva chiesto rispettivamente 13, 12 e 13 anni. E tra gli assolti c’è anche Alessandro Serpa per il quale Facciolla aveva chiesto 9 anni. Il giudice inoltre ha dichiarato la perdita di efficacia della misura cautelare applicata nei confronti di Antonio Buono, Giuseppe Lo Piano, Alessio Martello, Umile Miceli, Ilario Pugliese, Mario Serpa Francesco Pino Trombetta e Francesco Tundis limitatamente però per alcuni capi di imputazione e per effetto ne ordina la liberazione se non detenuti per altro. Per Gennaro Ditto invece 18 mesi di isolamento diurno nell’esecuzione della pena all’ergastolo comminata dalla sentenza in corte di Appello a Catanzaro. Per i genitori Antonio Ditto e Carmela Gioffrè la pena è di tre anni. Sono estinti i reati nei confronti di Luca Bruni e Giuseppe Martello (per morte dei due imputati). Diversi gli imputati condannati dal Tribunale di Paola al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituitesi a processo, Regione Calabria, Provincia di Cosenza, comuni di Paola, Amantea, Fuscaldo e San Lucido che liquida in 80mila euro per ognuna delle parti civili. Nutrito il collegio difensivo composto tra gli altri dagli avvocati Giuseppe Bruno, Armando Sabato, Antonio Managò, Federico Sirimarco, Nicola Guerrera, Marcello Manna, Sabrina Mannarino, Gino Perrotta, Antonio Ingrosso, Francesco Sapone, Francesca Lamberti, Giorgio Zicarelli, Antonio Quintieri, Mimmo De Rosa.

Francesco Maria Storino

http://www.gazzettadelsud.it/news//132821/Processo–Tela-del-ragno-.html

Tela del Ragno – Il Pm Facciolla reitera le richieste di pena

marzo 11, 2015

Tra qualche ora sarà emessa la sentenza di primo grado che metterà la parola fine alla parte “paolana” del processo Tela del Ragno.

Ieri, intanto, si è tenuta la requisitoria finale del pubblico ministero, il magistrato che sino ad oggi ha sostenuto le tesi dell’accusa.

Dopo oltre sei ore di requisitoria, Eugenio Facciolla ha concluso l’opera della parte accusatoria, rispondendo alle puntualizzazioni formulate dalla difesa nel corso delle ultime udienze e ribadendo le richieste di condanna già espresse in occasione della sua prima dissertazione.

Iniziata con considerevole ritardo, l’udienza di ieri ha dato modo alle parti di chiarire le reciproche posizioni su questioni di natura giuridica, come ad esempio l’evocato “ne bis in idem” con cui i difensori hanno cercato di ridurre la portata delle accuse a carico dei loro assistiti, perché ridondanti rispetto allo stesso reato (l’espressione latina significa “non due volte per la medesima cosa”). Eugenio Facciolla, per rispondere a questa puntualizzazione, ha fatto ricorso ad una serie di circostanze che – a suo parere – ne dimostrerebbero non solo l’insussistenza, ma rafforzerebbero il convincimento dell’accusa ad intensificare la prosecuzione delle indagini per un altro procedimento in grado di dar forma al “nuovo sodalizio” generatosi dalle ceneri di quello attualmente alla sbarra. «Il richiesto ne bis in idem – ha detto il Pm – non sussiste per totale differenza tra i fatti contestati nel presente processo e quelli pretesi». Un altro argomento su cui Facciolla ha canalizzato il suo intervento, è stato quello relativo alla credibilità dei collaboratori di giustizia, messa spesso in discussione dai legali degli imputati nelle loro arringhe. I “pentiti”, secondo il magistrato, sono stati considerati tali perché hanno portato elementi di assoluta novità rispetto alle indagini condotte. Per rafforzare questo concetto, il Pm ha citato diversi casi, sui quali spicca – in ordine temporale – quello relativo ad Adolfo Foggetti, figura chiave per ricostruire il quadro generale in cui si sono verificati eventi delittuosi come quello, ad esempio, relativo all’omicidio di Luca Bruni. «Il Foggetti narra in particolare di quella rottura venutasi a creare tra i “Bruni” e gli “Zingari” (in particolare con i due fratelli Abruzzese Giovanni e Bruzzese Franco) per un ammanco economico e per il rischio di collaborazione con la giustizia di Luca Bruni, superstite alla prematura scomparsa del fratello Michele deceduto a seguito di grave malattia, come causa scatenante dell’eliminazione del Bruni».

Polemizzando con alcune posizioni difensive, relative alla considerazione attribuita all’interpretazione di alcune sentenze considerate, alternatamente, “buone” o “cattive” a seconda degli esiti per gli imputati, Eugenio Facciolla ha caratterizzato il suo operato come quello di un “novello Erode” che – secondo il parere degli avvocati – starebbe compiendo una vera e propria “strage degli innocenti”. Quindi, per dirimere la “tela”, definita «Foresta Amazzonica predatoria», il magistrato ha reiterato i motivi che lo hanno indotto a credere nella colpevolezza degli imputati, insistendo sulle conclusioni già rassegnate nell’udienza di un mese fa.

http://www.marsilinotizie.it/tela-del-ragno-il-pm-facciolla-reitera-le-richieste-di-pena/

 

 

 

 

 

Clicca quì per l’approfondimento sulla requisitoria del PM Facciolla

 

Tela del Ragno – I nomignoli dei Ditto per distinguere i Serpa

febbraio 13, 2015

Dopo la requisitoria del pubblico ministero, il processo “Tela del Ragno” è ripreso ieri così come era stato anticipato e, dopo le manifestazioni delle parti civili, è toccato alla difesa degli imputati prendere la parola.

Le arringhe difensive sono partite con quelle relative alle posizioni dei collaboratori di giustizia, ad iniziare dai fratelli Giuliano e Ulisse Serpa ed a seguire con Maurizio Giordano, terminando con quella dell’avvocato Zicarelli in merito alla situazione di Antonio Esposito, per il quale Facciolla ha comunque chiesto l’assoluzione.

Per quanto concerne i tre pentiti, gli avvocati hanno sostanzialmente utilizzato gli stessi assiomi, basati sull’applicazione della prescrizione per alcuni dei reati contestati (soprattutto quelli di “minaccia”), sul riconoscimento dell’art. 8 (contenente le norme per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia) da estendere anche negli altri gradi di giudizio e nelle massime modalità previste dalla legge, ed infine sulle “attenuanti generiche”.

Richieste, queste, che i legali degli altri imputati non potranno avanzare, dovendosi disporre a difesa di accuse e richieste di pena pesanti. Tra coloro contro i quali si abbattuta maggiormente la scure di Eugenio Facciolla, figura senz’altro Gennaro Ditto (24 anni e 30.000 € di multa), verso il quale il Pm non ha usato mezze misure. «Non è che Gennaro Ditto risponde per l’omicidio di Tonino Maiorano e basta. Ha rappresentato in quel momento – ha sostenuto il magistrato nella sua requisitoria – non solo l’ala armata, ma l’ala pensante, l’ala criminale di più alto livello che questo territorio potesse esprimere. Luciano Martello gestiva le vacche, gestiva le mucche, come dice qualcuno nelle conversazioni, Mario Scofano beveva, lo chiamavano, dicevano che era un ubriacone e non poteva comandare lui; Ditto Gennaro faceva i fatti, uccideva, ammazzava in maniera spietata e aveva i suoi fedeli accompagnatori».

E proprio tra coloro che lo affiancavano e lo vedevano come futuro boss della città, Gennaro Ditto poteva contare su Rolando Siciliano, giovane misteriosamente scomparso (o per dirla nei termini di Facciolla: «fatto scomparire») nel periodo successivo all’omicidio di Pietro Serpa. Durante le intercettazioni delle sue conversazioni con i genitori, Ditto ha manifestato preoccupazione per il destino di «Celeste» (nomignolo per identificare il giovane amico) insidiato da «Aldo, Giovanni e Giacomo» (nel codice dei Ditto rispettivamente: Giuliano, Livio e Nella Serpa).

http://www.marsilinotizie.it/tela-del-ragno-i-nomignoli-dei-ditto-per-distinguere-i-serpa/

Foggetti indica il nome del killer

20/12/2014

Il nuovo pentito ha fatto ritrovare i resti del boss Luca Bruni scomparso a Rende il tre gennaio del 2012. La vittima uccisa con due colpi alla testa. La fossa scavata il giorno prima

Una storia di raggiri e tradimenti. «Chi ti proporrà un incontro è il traditore!»: lo scrittore Mario Puzone “Il padrino” mise in bocca a don Vito Corleone il più prezioso dei consigli destinato al figlio Michael. Era in atto uno scontro e Tessio, solo apparentemente un fedele amico del mammasantissima, propose un incontro con l’emissario dei nemici. Era una trappola. Chi ha letto il libro sa come andò a finire. In Calabria succedono cose che sembrano ispirate alla fantasia dei grandi autori. Luca Bruni, 42 anni, “reggente” del – l’omonimo clan di Cosenza, uscito dal carcere chiese conto nel dicembre del 2011 del denaro destinato alla sua “famiglia”. Denaro che non era stato ritualmente corrisposto dalle altre consorterie. Mostrò la faccia feroce e pretese delle spiegazioni. I suoi due più fedeli “amici”, Daniele Lamanna e Adolfo Foggetti, il tre gennaio del 2012 gli comunicarono che i due boss più importanti della provincia all’epoca latitanti – Ettore Lanzino e Franco Presta – volevano vederlo per chiarire ogni cosa. Non era vero. Bruni, però, non poteva immaginarlo. Così accettò l’appuntamento e si mise in auto con i “compari”. Di Foggetti e Lamanna si fidava perché facevano parte da tanto tempo del suo gruppo ed erano stati fedelissimi compagni d’arme del fratello, Michele, morto in carcere per un male incurabile. La vettura si diresse verso un’area di campagna posta in località Saporito di Rende. Appena giunti sul posto, Luca scese dal veicolo e venne fulminato con due colpi di pistola alla testa. Eppoi immediatamente sepolto dentro una buca che era già stata opportunamente preparata. La tomba era pronta da un giorno. A raccontare i retroscena di questa barbara esecuzione è stato proprio Foggetti che, finito in manette nelle scorse settimane per estorsione e indagato per l’omicidio del “reggente”, ha deciso di vuotare il sacco. Ai pm antimafia Vincenzo Luberto e Pierpaolo Bruni della Dda di Catanzaro ha confessato tutto facendo persino ritrovare i miseri resti di Bruni nascosti da due anni sotto quaranta centimetri di terriccio e riconosciuti grazie all’orologio che la vittima portava al polso. Foggetti avrebbe tirato pesantemente in ballo il complice indicandolo come il presunto autore materiale del delitto. Daniele Lamanna è peraltro latitante da alcune settimane perché destinatario di un provvedimento di fermo per omicidio (poi non convalidato) e di una ordinanza di custodia cautelare per estorsione fatti notificare dalla procura distrettuale diretta da Antonio Vincenzo Lombardo. Lamanna e Foggetti erano stati indicati come i probabili esecutori dell’assassinio del “reggen – te” già lo scorso anno da Edyta Kopaczynska, cognata di Luca Bruni.

http://www.gazzettadelsud.it/news//121307/Foggetti-indica-il-nome-del-killer.html

TELA DEL RAGNO Il pentito: «Bruni voleva uccidere Mario Scofano»

dicembre 20, 2014

Considerando che l’economia del clan era complementare a quella su cui si reggeva Paola, gli affari più grossi che Giuliano Serpa e suoi sodali potevano permettersi ruotavano tutt’intorno a ciò che era pubblico. Dagli appalti alle ristrutturazioni, fino agli interventi di manutenzione, non c’era opera messa in cantiere che non dovesse dare conto al sodalizio criminale.

Così è stato anche in occasione dei lavori che hanno riguardato la stazione di Paola, un’opera per la quale l’estorsione richiesta ha raggiunto cifre che la ditta, deputata ad eseguire i lavori in subappalto, non poteva permettersi.

«La somma che mio fratello Ulisse, insieme a Giancarlo Gravina, avevano richiesto all’ingegnere che si occupava dei lavori – ha dichiarato il collaboratore di giustizia – ha subito un forte ribasso durante la trattativa condotta presso l’Hotel Ostrica. A quel tempo ero da poco uscito dal carcere e, siccome eravamo nell’imminenza del periodo natalizio, quando l’ingegnere mi portò 20.000 euro sotto casa in una busta, chiamai Ulisse e Giancarlo per dividerli insieme». Proprio in relazione a questi comportamenti, aggravatisi fino a giungere a richieste estorsive persino sull’allora costruendo istituto alberghiero in via Sant’Agata, il Comune di Paola decise di costituirsi “parte civile” nel procedimento che vedeva alla sbarra Mario Scofano, boss che nel 2006 continuava a rappresentare il riferimento “formale” di Giuliano Serpa. «In occasione di quella presa di posizione, inviai a Roberto Perrotta (all’epoca sindaco di Paola, ndr) un “avvertimento”. Siccome stava schierandosi contro Scofano per l’estorsione a Siciliano, una mattina gli facemmo trovare una pallottola sul cofano dell’auto di sua moglie». L’escalation intimidatoria però s’arrestò improvvisamente, perché dal momento dell’avvertimento (Aprile 2006) all’arresto di Giuliano Serpa, scaturito nell’ambito dell’inchiesta “Missing” (Ottobre 2006) fino al pentimento dello stesso “intimidatore” (2007), passò pochissimo tempo.

La solidarietà che l’ex picciotto manifestava nei confronti del suo superiore, non era limitata alla sola interferenza nei confronti dei suoi oppositori istituzionali, bensì s’era già estesa anche all’interno del clan dove qualcuno aveva deciso di farlo fuori. «Michele Bruni era pronto ad uccidere Mario Scofano – ha dichiarato il collaboratore di giustizia – e per farlo era andato a studiarsi tutti i movimenti che lui compieva dal momento in cui smetteva di lavorare. A quel tempo lui era impiegato presso una ditta paolana, il cui titolare si era messo a disposizione per fargli ottenere le agevolazioni necessarie a farlo stare lontano dal carcere. In quell’occasione, insieme a Marcello Calvano, facemmo in modo che l’azione non si concretizzasse». Interrogato dal Pm Facciolla sulla questione, il pentito ha riferito che era usanza – a quel tempo – che l’imprenditore coinvolto nell’assunzione di Scofano, venisse ricambiato con favoritismi culminanti nel monopolio assoluto relativo alle vendite di materiale edile per tutte le ditte che operavano su Paola. Questione per la quale Facciolla ha concluso chiedendo: «Quindi ci guadagnava?»; sentendosi rispondere: «Si, ci guadagnava».

A proposito di guadagni, la storia più curiosa messa in luce da Giuliano Serpa, ha riguardato i festeggiamenti in onore del Santo Patrono della città, occorrenza religiosa che si tramutava in ghiotta occasione estorsiva. «Non abbiamo mai chiesto soldi ai bancarellari – ha detto Giuliano Serpa – perché gli introiti che consideravamo importanti erano quelli delle giostre. A quel tempo, per nostro conto agivano i Foggetti di Cosenza che, in veste di esattori, raccoglievano da ogni giostraio la quota relativa al suo spazio e poi venivano a consegnarcela integralmente a me, Ulisse e Giancarlo Gravina», unici referenti di quel “mercato” esclusivo. «Se capitava l’annata storta – ha concluso l’ex picciotto – e magari il maltempo condizionava la festa, ci accontentavamo di cifre complementari ai giorni di lavoro».

http://www.marsilinotizie.it/tela-del-ragno-il-pentito-bruni-voleva-uccidere-mario-scofano/

Ritrovato il corpo del figlio del boss “Bella Bella”
Pentito svela il luogo: era in casolare nel Cosentino

Luca Bruni era scomparso a gennaio 2012, nell’ambito della guerra di mafia tra le cosche di Cosenza. Pochi giorni fa i carabinieri avevano fermato i presunti assassini e uno dei due ha deciso di collaborare

COSENZA – Quasi tre anni. Tanto è passato dalla scomparsa di Luca Bruni. Il suo corpo non era stato mai ritrovato, fino ad oggi, quando i carabinieri hanno rinvenuto i resti del figlio del boss “Bella Bella”.

La scoperta è stata fatta dai carabinieri del Nucleo Operativo di Cosenza, nei pressi di un casolare ad Orto Matera di Castrolibero, dove è emerso lo scheletro di un uomo. Al ritrovamento si è giunti tramite le dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia, che è stato sentito, nei giorni scorsi, dai militari e dalla Dda di Catanzaro. Si tratta di Adolfo Foggetti, 29 anni, fermato il 25 novembre scorso insieme a Maurizio Rango, 38 anni (LEGGI IL FERMO DEI DUE). Entrambi sono ritenuti elementi di spicco del clan della ‘ndrangheta degli “zingari” e responsabili della scomparsa di Luca Bruni, avvenuta il 3 gennaio del 2012.

Il corpo di Bruni, esponente dell’omonimo clan del cosentino, non fu mai ritrovato. Si suppone che i resti rinvenuti siano proprio di Bruni. Luca Bruni, al momento della sua sparizione, era stato da poco scarcerato ed aveva assunto un ruolo di vertice nel proprio gruppo criminale, dopo la morte di suo fratello Michele, tentando una riorganizzazione ed espansione della cosca.

La decisione di espandersi era però in contrasto con gli accordi stabiliti da un “patto” tra la cosca degli “italiani”, capeggiata da Ettore Lanzino, e quella degli “zingari”, con a capo Franco Bruzzese. Bruni aveva anche risentimento nei confronti della cosca capeggiata da Lanzino, che era ritenuta responsabile della morte di suo padre Francesco, conosciuto come “bella bella”. Si suppone che Luca Bruni decise di partecipare ad un incontro al quale pensava sarebbero intervenuti i vertici delle cosche cosentine, Ettore Lanzino e Franco Presta, ora in carcere ma che all’epoca dei fatti erano latitanti. Ma in realtà si sarebbe trattato solo di una trappola ideata per ucciderlo.

giovedì 18 dicembre 2014 22:57

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/732404/Ritrovato-il-corpo-del-figlio-del.html

«A Cosenza ci sono più pentiti che cristiani»

La collaborazione dei Foggetti conferma le parole di Vincenzo Curato. Più di cento ‘ndranghetisti hanno saltato il fosso dal 1986 a oggi
24 Ott 2014

COSENZA ::: «A Cosenza ci sono più pentiti che cristiani». Vincenzo Curato, già fuoriuscito dalle cosche sibarite, usa parole semplici, ma dice una verità. Non a caso, sono più d’un centinaio gli uomini d’onore che, dal 1993 in poi, hanno saltato il fosso, scegliendo di collaborare con la giustizia. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono stati Vincenzo ed Ernesto Foggetti, padre e figlio, provenienti entrambi dal clan “Bella bella”. Loro, come gli altri, vantano un antenato illustre in Antonio De Rose, il primo che, in tempi non sospetti (era il 1986), si presentò dai carabinieri deciso a vuotare il sacco. Non fu creduto, ma ormai era solo questione di tempo.

Nell’ultimo ventennio, infatti, dalla città capoluogo allo Jonio, dall’entroterra e fino al Tirreno, un po’ tutti i gruppi della zona hanno dovuto fare i conti con il bubbone del pentitismo. Fin qui, solo la cosca Muto è risultata immune ai “tradimenti”, ma è un’eccezione che finisce per confermare la regola, considerato che finanche l’impenetrabile malavita rom registrò nel 2001 la diserzione del capo-clan Francesco Bevilacqua. Cosenza città dei pentiti, dunque. E pure di spessore, dato che ancora prima di Bevilacqua, altri leader avevano deciso di voltare le spalle al crimine. E’ il caso di Franco Pino e Francesco S. Vitelli, già a capo delle due bande armate che, negli anni ’80. si contendevano il dominio del capoluogo. Sulla carta, dunque, ce n’era abbastanza da scrivere una verità definitiva su tutte le malefatte compiute nel secolo scorso nella città dei Bruzi e dintorni.

Il primo fu Antonio De Rose: non venne creduto

perché «Cosenza doveva essere un’isola felice»

come disse il boss Franco Garofalo

E invece, mai come a Cosenza, il romanzo criminale registra dei buchi narrativi ormai impossibili da colmare. E’ vero che, seppur tra dubbi e incertezze, il contributo dei pentiti ha permesso di accertare dinamiche e protagonisti delle numerose guerre di mafia combattute sul territorio, ma che dire dell’omicidio insoluto dell’avvocato Silvio Sesti, trucidato nella sua abitazione del 1982? Una macchia difficile da cancellare, proprio come quella rappresentata da un altro caso “eccellente”: l’agguato teso, tre anni più tardi al direttore del carcere Sergio Cosmai. Per quei fatti, è stato condannato il mandante, individuato nel boss Franco Perna. Ma i killer di Cosmai, quelli l’hanno fatta franca. Giudicati e assolti nell’immediatezza dei fatti, i fratelli Dario e Nicola Notargiacomo, non possono essere più processati. Oggi, sono entrambi collaboratori di giustizia. E non solo. Un’ulteriore distorsione è rappresentata proprio dallo spessore criminale di molti dei soggetti in questione. Oltre a Pino e Vitelli, infatti, l’esercito dei pentiti annovera Giuseppe Vitelli, Angelo Santolla e Aldo Acri, ovvero l’intero gruppo di fuoco del clan Perna. Non è un caso, dunque, che al maxi-processo “Missing” celebratosi tra il 2007 e il 2012, a beccarsi le pene più severe siano stati solo i gregari, gli autisti, le staffette. Insomma, i personaggi di contorno.

E va da sé che la patente di inattendibilità, appioppata spesso dai giudici a Pino & co. (vedi box in basso) abbia fatto naufragare alcune inchieste che segnavano il coinvolgimento dei colletti bianchi: il vero cono d’ombra, in riva al Crati, è rappresentato proprio dall’intreccio, mai svelato, tra il crimine e settori della politica, dell’imprenditoria, finanche della magistratura. L’unico a pagare per tutti, è stato l’ex consigliere regionale del Psi, Pino Tursi Prato, mentre l’ex sindaco della città, Giacomo Mancini, finito a suo tempo nel tritacarne giudiziario, ne uscì poi assolto.

Per il resto, solo ombre e misteri destinati a rimanere tali. Proprio come il vaticinio espresso, molti anni addietro, da un altro collaboratore di peso, l’ex santista Franco Garofalo, secondo il quale, «c’era la volontà di far passare Cosenza come un’isola felice. Un posto dove non esisteva la mafia». Parole alle quali, più pentiti che cristiani, non sono riusciti a dare un senso, ma che a distanza di vent’anni, pesano ancora come macigni.

Tutti i guai delle gole profonde. Croce e delizia. Più croce che delizia, forse. Sono i pentiti di ‘ndrangheta a Cosenza. Storia tormentata la loro. Negli ultimi vent’anni, infatti, la genuinità di molti dei “nostri” collaboratori di giustizia è stata messa più volte in discussione. Negli anni scorsi, ad esempio, è capitato all’ex rapinatore Oreste De Napoli, di non vedersi riconosciute, al momento della sentenza, le attenuanti della collaborazione e, più di recente, è toccato a Pierluigi Terrazzano e Roberto Calabrese Violetta inciampare nelle bacchettate dei giudici, con Calabrese che, addirittura, è sospettato di aver continuato a delinquere anche dopo il suo pentimento. In precedenza, invece, Antonio Di Dieco, già padrino di Castrovillari, era stato sorpreso a intrattenere rapporti, anche di tipo economico, con un suo ex picciotto, quel Cosimo Scaglione pure lui transitato, in quel periodo, nelle fila dei collaboratori di giustizia. Sospetti analoghi, però, non avevano risparmiato, vent’anni fa, altri pezzi grossi del Crimine locale come Franco Pino e Umile Arturi. E’ noto, infatti, che i due ebbero modo di incontrarsi più volte durante il periodo della loro collaborazione iniziata a metà degli anni ‘90, e proprio tale circostanza, in seguito, aveva spinto molti giudici a dichiarare «inquinate» le prove d’accusa che poggiavano sulle loro confessioni. Il risultato di questo pasticcio sono state poi le assoluzioni collettive del maxi-processo Luce e quelle registrate nel duplice delitto Nigro-Portoraro. Marco Cribari

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Nella “la bionda” guidava i Serpa

01/10/2014

Sigilli al tesoro della donna-boss. Sequestrati bar, lidi, un albergo e una società beneficiaria di appalti pubblici
Nella “la bionda”<br /><br /><br /><br /><br />
guidava i Serpa

  Nella “la bionda”. Cinquantanove anni, paolana, in carcere da ventiquattro mesi, questa donna che ha le pupille come scintille è indicata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro come il “reggente” di uno dei clan più antichi e temuti dell’alta Calabria. I Serpa, a Paola, rappresentano da decenni un potere parallelo a quello dello Stato. Un potere che hanno conquistato combattendo guerre di mafia e sopportando in silenzio la galera. Mario Serpa, il capo carismatico della consorteria, è in carcere da vent’anni per omicidio e – così sostiene la pubblica accusa –da dietro le sbarre avrebbe “benedetto” il ruolo apicale della cugina nell’ambito della cosca. Una cosca indebolita dal pentimento di due esponenti di un altro ramo della famiglia, Giuliano e Ulisse Serpa, ma ancora attiva e pugnace lungo tutta la fascia tirrenica cosentina. Intorno a Nella ruoterebbero – a parere del procuratore distrettuale Antonio Vincenzo Lombardo e del pm antimafia Pierpaolo Bruni – interessi variegati legati all’imprenditoria turistica e ricettiva e alla fornitura di servizi agli enti pubblici. Ieri la Guardia di finanza ed i carabinieri hanno sequestrato beni del valore di 11 milioni di euro in esecuzione di un decreto emesso dal Tribunale per le misure di prevenzione di Cosenza (presidente Enrico Di Dedda; Pingitore e Gallo a latere) su richiesta del pm Bruni. I sigilli giudiziari sono stati apposti su appartamenti, quote societarie, polizze assicurative, un bar, due strutture ricettive e un lido il “Jamaica”. Ma c’è di più. Da circa 20 anni –secondo gli inquirenti –una ditta riconducibile alla Serpa agiva in regime di quasi monopolio nell’aggiudicazione di lavori nel settore pubblico. Si tratta della «Clima planet system», operante nel settore dell’installazione di impianti idraulici, che ha ottenuto, per anni, lavori anche dall’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza e dal Comune di Paola. Lavori ottenuti grazie all’affidamento diretto. Un aspetto questo su cui la Dda di Catanzaro e gl’investigatori stanno facendo ulteriori accertamenti. Nel corso del blitz compiuto ieri sono stati pure sequestrati 600.000 euro in contanti. Ma quanto temuta, rispettata e forte fosse Nella “la bionda” prima d’essere arrestata dai carabinieri, l’ha spiegato un killer pentito. Si chiama Adamo Bruno e venne assoldato nel 2007 per eliminare, in cambio di 50.000 euro, vari esponenti del clan Serpa. Alla prima “missione”, tuttavia, l’uomo sbagliò clamorosamente bersaglio uccidendo un incolpevole operaio forestale – Antonio Maiorano – e decise perciò di collaborare con la giustizia. Il sicario racconta di una riunione tenuta dai componenti del clan Martello – Scofano durante la quale molti insistevano perché Nella venisse assassinata prima di chiunque altro perché disponeva di denaro e poteva reclutare “azionisti” da contrapporre al gruppo rivale. I cugini della “bionda”, Ulisse e Giuliano Serpa, indicano la donna come partecipe alle attività della cosca tanto da essere personalmente impegnata nei summit convocati per pianificare attività delittuose come, per esempio, l’omicidio di Luciano Martello, avvenuto davanti a un ristorante di Fuscaldo nell’estate del 2007. Non solo: sempre Giuliano Serpa addebita alla cugina d’aver dato l’ordine di ammazzare Rolando Siciliano, un giovane paolano che riteneva corresponsabile dell’agguato costato la vita al fratello, Pietro, caduto sotto i colpi dei killer nel parcheggio di un albergo della cittadina tirrenica. Il provvedimento di sequestro eseguito da finanzieri e carabinieri si basa sull’assunto che Nella Serpa «abbia condotto in passato e conduca attualmente un tenore di vita superiore alle proprie possibilità economiche». Un’accusa tutta ancora da dimostrare che coinvolge non solo la presunta “reggente” ma pure i suoi diretti congiunti. L’udienza per decidere sulla eventuale confisca dei beni sollecitata dal pm Bruni si svolgerà il 17 dicembre prossimo.

Arcangelo Badolati

http://www.gazzettadelsud.it/news//110560/Nella–la-bionda–.html

I familiari dei Foggetti trasferiti in una località protetta

Vincenzo e il figlio Ernesto stanno collaborando con la giustizia. Al momento avrebbero riferito quello che sanno in merito a fatti di sangue, traffico di droga ed estorsioni

Venerdì, 19 Settembre 2014 13:25

COSENZA Stanno raccontando i fatti di cui sono a conoscenza. Vincenzo Foggetti, 57 anni, e il figlio Ernesto, 26, da alcuni giorni stanno collaborando con la giustizia sulle vicende della criminalità cosentina. I due, nelle scorse settimane, sono stati arrestati dalla polizia stradale di Cosenza, per riciclaggio di auto di grossa cilindrata. Padre e figlio stanno riferendo quello che sanno ai carabinieri del Reparto operativo di Cosenza, guidato dal tenente colonnello Vincenzo Franzese. I Foggetti avrebbero fornito particolari su episodi estorsivi, traffico di droga e di armi, e su alcuni fatti di sangue. Al momento si tratta di colloqui generici. Padre e figlio sono ritenuti collegati al clan degli zingari e a quello capeggiato dal boss Ettore Lanzino, che adesso si trova in regime di carcere duro. Vincenzo ed Ernesto Foggetti hanno rapporti di parentela con i Bruni. Da quanto è trapelato i familiari di Foggetti sarebbero stati trasferiti in una località protetta. Nei prossimi giorni dovrebbero svolgersi i primi interrogatori ufficiali che saranno condotti dai carabinieri e dalla Dda di Catanzaro.

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/25354-i-familiari-dei-foggetti-trasferiti-in-una-localit%C3%A0-protetta/25354-i-familiari-dei-foggetti-trasferiti-in-una-localit%C3%A0-protetta

Gli appalti della sanità a società della ‘ndrangheta
Sequestrato l’impero della donna che comanda il clan

Duro colpo alla rete economica del clan Serpa di Paola. Sigilli anche alla società chegestiva le commesse pubbliche dell’Asp per conto della donna che comanda la cosca. E poi bar, hotel e un lido. Indagini per scoprire chi ha affidato i lavori pubblici
COSENZA – Tremano gli amministratori pubblici dopo il duro colpo all’impero economico creato dalla ‘ndrangheta cosentina grazie alla gestione degli appalti. Guardia di finanza e carabinieri sono stati impegnati, dalle prime ore del giorno, in un’operazione che ha portato ad un max sequestro di beni. Nel mirino le proprietà che, secondo le indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, sono riconducibili al clan Serpa, attivo nella zona di Paola, sulla costa tirrenica della provincia di Cosenza.

Il patrimonio sul quale sono stati posti i sigilli con l’operazione – che è stata denominata “Tramonto” – ha un valore di circa 11 milioni di euro. Ci sono anche le società con le quali, secondo gli inquirenti, la cosca si accaparrava appalti pubblici nella sanità, gestendo le commesse dell’Asp, e sul territorio grazie agli incarichi del Comune di Paola. Proprio su questo aspetto si concentrano ora le indagini.

LA DONNA CHE TIENE IN MANO IL CLAN - Le proprietà sono riconducibili, direttamente o indirettamente, a Nella Serpa, la donna ritenuta la reggente dell’omonima cosca operante a Paola e attualmente detenuta.

Le indagini patrimoniali, coordinate dal procuratore della Dda di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo e dal pm Pierpaolo Bruni, hanno evidenziato che non c’era coerenza tra i bassissimi redditi dichiarati ed il considerevole incremento patrimoniale registrato nell’ultimo ventennio nei confronti di Nella Serpa e del suo nucleo familiare.

La donna è attualmente in carcere dopo essere stata arrestata nell’ambito dell’operazione «Tela di ragno» condotta dai carabinieri di Cosenza sotto la direzione dalla Dda catanzarese per associazione mafiosa, tentato omicidio, detenzione e porto illegale in luogo pubblico di armi da fuoco, omicidio, furto ed estorsione in concorso.

IL MONOPOLIO DEGLI APPALTI PUBBLICI – Tra i beni sottoposti a sequestro, la ditta «Clima planet system» che si occupa di installazione di impianti idraulici che negli anni è riuscita ad ottenere appalti pubblici, anche dall’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza e il Comune di Paola. Lavori ottenuti grazie all’affidamento diretto e in una sorta di effettivo monopolio: un aspetto questo su cui la Dda di Catanzaro ed i carabinieri del Comando provinciale di Cosenza stanno facendo ulteriori accertamenti sui quali c’è uno stretto riserbo.

SIGILLI A BAR, HOTEL E UN LIDO - Nel sequestro figurano anche 15 tra magazzini di metrature considerevoli e appartamenti, cinque attività commerciali – tra cui un bar, due importanti strutture alberghiere e un frequentatissimo lido balneare situati a Paola - 11 tra automobili e motoveicoli, nonché diverse decine di rapporti bancari. Carabinieri e finanzieri hanno sequestrato anche 600 mila euro in contanti custoditi su conti correnti, depositi bancari, polizze e titoli.

«La sottrazione di tali ingenti ricchezze – hanno sostenuto gli investigatori – priva la ‘ndrina di preziosa linfa vitale per la sussistenza ed il prosieguo delle attività criminose. Da qui il nome dell’operazione Tramonto».

martedì 30 settembre 2014 08:08

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/730113/Gli-appalti-della-sanita-alle-societa.html

I primi verbali della pentita

22/10/2013

Edyta Kopaczynska rivela ai Pm le ragioni che l’hanno spinta a collaborare con la giustizia. Le confessioni sulla scomparsa per lupara bianca del cognato Luca Bruni

Spuntano i primi verbali degli interrogatori resi dalla pentita Edyta Kopaczynska, moglie del defunto boss Michele Bruni. La donna spiega la decisione di collaborare con la magistratura antimafia. «L’intendimento di collaborare è maturato in conseguenza della morte di Michele e, soprattutto, della scomparsa di Luca Bruni, verificatasi il tre gennaio 2012. Da allora non ricevo più nessun sussidio di carattere economico. Prima ricevevo 1000 euro al mese e 1800 di stipendio mensile». La donna aggiunge pure che  tre ex uomini del clan del marito si sono «impossessati del denaro che un cugino di Michele gestiva per mio conto facendo usura». La polacca non esita  a riferire particolari anche sulla tragica fine del cognato. Il suo è un racconto dal di dentro, basato sulle informazioni giunte alla famiglia Bruni dopo la sparizione del “reggente”. Ecco quanto rivela: «La scomparsa di Luca è stata determinata sicuramente dall’intento di mettere da parte la famiglia Bruni. Luca era l’ultimo del quale si poteva avere paura anche in considerazione che Fabio (l’altro fratello ndr) è, ancora oggi, ristretto in carcere. Già qualche mese prima della scomparsa di Luca – aggiunge la donna – avevo avuto delle avvisaglie di quello che sarebbe successo».

http://www.gazzettadelsud.it/news//66092/I-primi-verbali—della.html

S’è pentita la moglie del boss Bruni

05/09/2013

La polacca Edyta Kopaczynska ha deciso di lasciare il mondo della criminalità organizzata bruzia. Lo scorso anno è stata condannata a 6 anni per associazione mafiosa

La ’ndranghetista venuta dall’Est. Edyta Kopaczynska, condannata a sei anni per associazione mafiosa, è stata la fedele consorte di Michele Bruni, capo dell’omonimo clan, morto per un male incurabile due anni addietro. È di origine polacca, ma non si direbbe. Parla, infatti, il dialetto cosentino e, soprattutto, ha acquisito la mentalità “giusta”. Quella che serve per farsi “rispettare” negli ambienti della ’ndrangheta. Dopo la prematura scomparsa del marito, Edyta è rimasta a Cosenza. Pensava di poter “contare” ancora e di mantenere inalterato lo status di “primadonna”. Non è stato così. Gli “amici”si sono lentamente allontanati scegliendo nuovi “capi”da servire, mentre il “reggente” della cosca, il cognato Luca Bruni, è sparito per lupara bianca il tre gennaio del 2012. Con la sparizione del trentasettenne, Edyta ha capito che era stata di fatto azzerata la consorteria. Una consorteria fondata negli anni ’90 dal suocero, Francesco Bruni, inteso come “Bella-bella”. Per questo la donna, stanca di una vita di lutti e sofferenze, potrebbe aver deciso di collaborare con la giustizia. Da dieci giorni non si hanno sue notizie e non può escludersi che sia stata già affidata alle cure dei pm antimafia Vincenzo Luberto e Pierpaolo Bruni due magistrati abituati a non fare sconti alle cosche.

http://www.gazzettadelsud.it/news//60373/S-e-pentita-la-moglie-.html

Paola, Tela del ragno: trattative con le cosche

Martedì 19 Marzo 2013 13:40

PAOLA – 19 mar. – Commercianti pronti a prevenire ritorsioni e qualsiasi tipo di problemi con la criminalità. Trattative dirette con le cosche, prima di iniziare la propria attività. E’ quanto emerge dalla nuova inchiesta Tela del Ragno 2, condotta dalla Dda di Catanzaro, che in gran parte richiama l’attività investigativa contenuta nel primo fascicolo della maxioperazione che a marzo dello scorso anno aveva inflitto un duro colpo ai clan della zona.

Negli atti, si legge che esponenti della cosca locale, mediante minacce: “implicite nell’atteggiamento e violenze consistite nel danneggiare con l’incendio i furgoni della ditta si procuravano dalla ditta aggiudicataria dei lavori di ristrutturazione della stazione ferroviaria di Paola, l’ingiusto profitto della corresponsione di somme di danaro imprecisate, e comunque per quanto accertato cinquemila euro in tre tranche, a titolo di protezione”. I clan non solo alle grosse ditte estorcevano somme di denaro, ma anche ad allevatori. E’ il caso di due vittime costrette a corrispondere mille euro per la restituzione di 50 capre rubate in precedenza. Altro caso, quello di un imprenditore edile di Longobardi impegnato con la propria azienda nella realizzazione di un fabbricato privato per civile abitazione, finito anch’egli nel mirino delle cosche nell’ambito del racket delle estorsioni. Una sorta di trattativa tra aziende e ‘ndrangheta.

http://www.miocomune.it/cms/tirreno/tirreno-news/cronaca/6465-paola-tela-del-ragno-trattative-con-le-cosche.html

Guerra di mafia nel Cosentino, reggono le accuse per l’operazione “Tela di Ragno”

Il procuratore aggiunto della Dda, Giuseppe Borrelli, sottolinea l’esito favorevole davanti al Riesame. Venticinque misure cautelari rispetto alle quali l’ordinanza è stata confermata, nove ricorsi completamente rigettati, tre provvedimenti rispetto ai quali i giudici hanno riformato parzialmente le accuse contestate, e ventuno provvedimenti rispetto ai quali l’ordinanza cautelare è stata annullata

CATANZARO – Venticinque misure cautelari rispetto alle quali l’ordinanza è stata confermata, nove ricorsi completamente rigettati, tre provvedimenti rispetto ai quali i giudici hanno riformato parzialmente le accuse contestate, e ventuno provvedimenti rispetto ai quali l’ordinanza cautelare è stata annullata. È questo il quadro che emerge dopo le varie pronunce del Tribunale del riesame di Catanzaro in merito ai cinquantotto ricorsi presentati da altrettanti indagati coinvolti nella maxi operazione contro la ‘ndrangheta battezzata «Tela del ragno», portata a termine a fine marzo dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e dall’Arma dei carabinieri contro sette cosche operanti nell’area del Tirreno cosentino e nel capoluogo, e con interessi in varie regioni d’Italia. Regge bene dunque per il momento l’impianto accusatorio, nel quale sono complessivamente contestati un’impressionante numero di reati che vanno dall’associazione mafiosa, agli omicidi consumati e tentati, all’usura ed all’estorsione. Ciò anche considerato che in alcuni casi il tribunale del capoluogo calabrese è intervenuto sulle misure impugnate solo in virtù del fatto che i reati contestati sono molto risalenti nel tempo e ritenendo dunque non sufficienti le esigenze cautelari. E l’esito delle decisioni dei ricorsi ha suscitato grande soddisfazione alla Dda di Catanzaro, espressa all’Agi dal procuratore aggiunto, Giuseppe Borrelli, che ha sottolineato come abbia «tenuto» un’indagine lunga e complessa, che ha consentito la ricostruzione di una guerra di mafia che ha viste contrapposte, tra il 1999 e il 2004, diverse cosche del cosentino per il controllo delle attività illecite sul territorio, ed in particolare i Lanzino-Locicero di Cosenza – subentrati ai Perna-Ruà – Muto di Cetraro, Scofano-Mastallo-Ditto-La Rosa e Serpa di Paola, Calvano e Carbone di San Lucido, e Gentile-Besalvo di Amantea.

«La maggior parte dei provvedimenti cautelari è stata confermata dai giudici del riesame – ha detto il magistrato – e ciò si unisce al fatto che neppure tutti gli indagati hanno presentato ricorso, e non ultima alla considerazione, che possiamo fare considerate le motivazioni che abbiamo visto fino ad ora, che sia pur quando il quadro indiziario è stato ritenuto valido è stato il tempo trascorso dalla commissione dei reati a portare il tribunale ad intervenire sull’ordinanza. Attendiamo comunque di leggere tutte le motivazioni dei provvedimenti del riesame per l’ulteriore valutazione in merito ai ricorsi in Cassazione. Al momento, comunque – ha concluso Borrelli – siamo ampiamente soddisfatti». Dopo le pronunce del tribunale del riesame, l’ordinanza cautelare è stata confermata per: Mario Attanasio, Pasqualino Besaldo, Romolo Cascando, Domenico Cicero, Valerio Salvatore Crivello, Gennaro Ditto, Guerino Folino, Giancarlo Gravina, Ettore Lanzino, Domenico La Rosa, Giuseppe La Rosa, Vincenzo La Rosa, Pietro Francesco Lofaro, Sonia Mannarino, Alessio Martello, Mario Martello, Fabrizio Poddighe, Ilario Pugliese, Mario Scofano, Gianluca Serpa, Livio Serpa, Mario Serpa, Nella Serpa, Salvatore Serpa, Francesco Pino Trombetta. Ricorso rigettato per: Giovanni Abruzzese, Antonio Buono, Giovanna Caratelli, Antonella D’Angelo, Antonio Ditto, Carmela Gioffrè, Carlo Lamanna, Giuseppe Lo Piano, Umile Miceli. Ordinanza riformata per: Francesco Desiderato (rispetto a tre capi d’accusa), Mario Mazza (rispetto a due capi d’accusa), Francesco Tundis (reato contestato al capo 11 riqualificato con esclusione dell’aggravante della «mafiosità»). Ordinanza annullata per: Natale Alessio, Paolo Brillantino, Luigi Bruni, Paolo Calabria, Sergio Carbone, Aldo Caruso, Giuseppe Curioso, Antonio Esposito, Tommaso Gentile, Giacomino Guido, Luca La Rosa, Daniele Lamanna, Pier Mannarino, Francesco Martello, Mario Matera, Giovanni Neve, Alessandro Pagano, Alfredo Palermo, Luciano Carmelo Poddighe, Fabrizio Rametta, Giuseppe Sirufo.

sabato 09 giugno 2012 13:50

http://www.ilquotidianoweb.it/news/Il%20Quotidiano%20della%20Calabria/351043/Guerra-di-mafia-nel-Cosentino-reggono-le-accuse-per-l-operazione-Tela-di-Ragno.html

Nuovo pentito di ‘ndrangheta

Si tratta di Luigi Bruni. ventisettenne di Paola arrestato lo scorso 30 marzo nell’ambito dell’operazione Tela del Ragno che ha inflitto un duro colpo alle ‘ndrine del Tirreno cosentino. Bruni ha iniziato a collaborare dopo che prima di lui aveva avviato i suoi rapporti con la giustizia anche il padre Gennaro

di ROBERTO GRANDINETTI

COSENZA – Verso la strada della collaborazione. Protagonista Luigi Bruni, 27 anni di Paola (Cs), coinvolto nell’operazione “Tela del Ragno” dello scorso 30 marzo, quando fu cioè assestato un duro colpo alla criminalità organizzata gravitante nel Tirreno cosentino. La notizia del suo pentimento è stata di fatto ufficializzata ieri dal procuratore generale Eugenio Facciolla, della Procura di Catanzaro, tra i titolari dell’inchiesta coordinata dalla Distrettuale Antimafia, prima che si procedesse, dinanzi ai giudici del Tribunale della Libertà, coi Riesami di alcuni imputati. Facciola ha depositato una serie di nuovi documenti d’indagine, tra cui il verbale riassuntivo delle dichiarazioni rese proprio dal giovane Bruni.  La curiosità è che era stato da poco rimesso in libertà dal Riesame di Catanzaro. Poche settimane fa stessa decisione fu presa dal padre Gennaro, 56 anni, i cui verbali sono già in mano agli addetti ai lavori. I due si sono ora affidati all’avvocato Capparelli, del foro di Castrovillari, che difende proprio i collaboratori di giustizia.

Lo scorso 30 marzo Luigi Bruni era stato tratto in arresto dai carabinieri con l’accusa di essere tra gli “azionisti del clan in occasione di danneggiamenti e atti intimidatori funzionali alle finalità illecite dell’associazione, nonchè nelle attività di supporto nella consumazione di agguati mafiosi contro esponenti del clan avverso”. La Dda di Catanzaro cita ad esempio l’omicidio di Luciano Martello, ucciso a Fuscaldo il 12 luglio del 2003, nel quale il padre Gennaro figura tra coloro i quali avrebbero preso parte alla fase esecutiva.

mercoledì 25 aprile 2012 08:37

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La violenza delle ‘ndrine finite nella “tela del ragno”: ucciso e fatto a pezzi con la motosega

Il collaboratore di giustizia racconta la macabra scomparsa di Rolando Siciliano. Sono 63 le ordinanze di custodia cautelare contro gli esponenti delle cosche della provincia di Cosenza, colpite anche diramazioni in Lazio, Lombardia e Veneto. Il magistrato: «Dopo 30 anni ristabilita la legalità»
La violenza delle 'ndrine finite nella "tela del ragno": ucciso e fatto a pezzi con la motosegaLa conferenza stampa degli inquirenti

COSENZA – Una spirale di violenza che ha insanguinato la provincia di Cosenza, su cui ha fatto luce l’operazione “Tela del ragno”, portata a termine dai carabinieri di Cosenza. E’ dalla corposa ordinanza che ha portato in carcere 63 persone (5 ancora irreperibili), emergono fatti inquietanti. Come l’omicidio di Rolando Siciliano, assassinato il 20 maggio 2004. A raccontare tutto agli inquirenti è il collaboratore di giustizia Giuliano Serpa, e le parole sono drammatiche: “Fu ucciso da Tundis Francesco, Mazza Mario e Poddighe Fabrizio, a colpi di pistola”. Il cadavere “venne poi fatto a pezzi con una motosega” e occultato. Ma a tutt’oggi non si sa dove sono finiti i resti. E’ così che le cosche si facevano giustizia, dunque.

Alla fine degli anni Novanta le cosche cosentine tornano a influenzare quelle della costa tirrenica, costituendo una nuova organizzazione finalizzata a commettere crimini mettendo una pietra sopra su ogni conflittualità del passato, compresa l’eliminazione dei cosiddetti scissionisti, Marcello Calvano, Vittorio Marchio, Francesco Bruni e Antonio Sena. Principale obiettivo l’attività estorsiva da estendere all’amministrazione pubblica.

Tutti i proventi illeciti dovevano essere versati in una cassa comune e divisi tra gli affiliati della nuova consorteria, guidati dal “capo zona” Mario Scofano. Ma qualcosa non funzionò come previsto, non tutti versavano i soldi nella cassa del clan. Una situazione che diede fastidio a Giuliano Serpa, il quale si staccò insieme al fratello Ulisse e a Giancarlo Gravina e formò un nuovo gruppo, che operò in altra fetta di territorio, ma in maniera pacifica con quello di Scofano. La tranquillità non durò però molto, forse anche per le nuove alleanze, e scaturì un’altra guerra di mafia che vedeva contrapposti gli Scofano – Martello e i Serpa Bruni.

Omicidi e tentati omicidi si susseguirono, tra cui, come accennato, l’uccisione di Rolando Siciliano, legato agli Scofano – Martello e che poco prima della sua scomparsa si era avvicinato ai Tundis, del gruppo dei Serpa, in particolare a Franco Tundis, amico di suo zio Romeo Calvano. Il trentenne fu prelevato e condotto nelle montagne di Fuscaldo. Il collaboratore racconta quindi che qui venne ucciso dopo che rilevò gli esecutori dell’omicidio di Pietro Serpa, avvenuto poco tempo prima.

L’OPERAZIONE. «Dopo 30 anni si è ristabilita la legalità» ha affermato il sostituto procuratore generale di Catanzaro Eugenio Facciolla, applicato alla Dda per coordinare l’inchiesta che, ha affermato il magistrato «è una grande operazione che disarticola alcune pericolose consorterie criminali».

Nell’inchiesta, denominata “tela del ragno” sono indagate complessivamente 250 persone. Gli arresti sono stati eseguiti oltre che in Calabria, anche nel Lazio, in Lombardia ed in Veneto, con la partecipazione di 500 militari dell’Arma, supportati da elicotteri e da unità cinofile.

Le cosche che sono state colpite sono Lanzino-Cicero di Cosenza (subentrata a quella dei Perna-Ruà), Muto di Cetraro, Scofano-Mastallo-Ditto-La Rosa e Serpa di Paola, Calvano e Carbone di San Lucido, Gentile-Besalvo di Amantea.

Tra gli arrestati ci sono anche gli autori e i mandanti di diversi omicidi che hanno insanguinato il Cosentino nell’ambito di una guerra di mafia che ha visto tra il 1999 e il 2004 i clan locali contendersi il controllo del territorio. In particolare sono stati ricostruiti 12 omicidi e tre tentati omicidi.

Ma tra le attività dei clan c’erano anche usura ed estorsioni. E secondo le indagini, coordinate dalla Dda di Catanzaro, la rete dei boss era riuscita a infiltrarsi anche in numerosi appalti pubblici della provincia, specie nella zona tirrenica. Su tutti, quelli relativi alla stazione ferroviaria di Paola, ma c’è anche un capitolo relativo alla Salerno Reggio Calabria. Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati anche beni per un valore di 15 milioni di euro.

Durante la conferenza stampa, il sostituto procuratore generale ha rivolto un appello ai cittadini: «Devono collaborare, devono avere fiducia nelle forze dell’ordine e della magistratura. Le risposte ci saranno come ci sono oggi».  Il magistrato ha proseguito facendo esplicito riferimento ai commercianti, agli imprenditori e alle altre vittime della prepotenza mafiosa.

venerdì 30 marzo 2012 08:55

http://www.ilquotidianoweb.it/news/Il%20Quotidiano%20della%20Calabria/349665/Scacco-alle-cosche-del-Tirreno-cosentino–Decine-di-arresti-in-tutta-Italia.html

Il miraggio di una “locale” provinciale
minato dalla corsa agli appalti

L’obiettivo dei clan era garantire una pax mafiosa e trovare un equilibrio nella gestione degli affari: per questo furono eliminati i dissidenti. Ma i lavori pubblici hanno creato dissidi tra i clan
COSENZA – Una pax mafiosa cercata negli anni, ma non sempre trovata per lo scontro tra cosche per alcuni appalti pubblici come l’ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria negli anni scorsi e, più recentemente, per quelli della stazione ferroviaria di Paola. È lo spaccato che emerge dall’inchiesta coordinata dalla Dda di Catanzaro e condotta dai carabinieri di Cosenza e del Ros che stamani ha portato a 58 arresti, tra vertici e gregari, accusati anche di una serie di delitti commessi tra il ’79 ed il 2008.   All’indagine hanno collaborato anche alcuni boss della ‘ndrangheta cosentina, quali Giuliano Serpa, capo dell’omonima cosca di Paola, Francesco Bevilacqua, capo della cosca degli Zingari di Cosenza, Francesco Pino, reggente dell’omonima cosca di Cosenza, Francesco Modio, dei Lanzino di Cosenza.

Ad avviare il progetto di pacificazione, sul finire degli anni ’90, secondo le indagini, è stata la cosca Lanzino – Cicero, facente capo ai boss storici Gianfranco Ruà e Francesco Perna. L’obiettivo era costituire una «locale» con competenza provinciale, composta da più ‘ndrine attive sul territorio, per accentrare la gestione degli interessi sulla realizzazione di alcune opere pubbliche, superando le conflittualità interne, anche attraverso l’eliminazione dei soggetti che si opponevano. Eliminati i dissidenti, fra i quali Vittorio Marchio, Marcello Calvano, Francesco Bruni e Antonio Sena, i Lanzino-Cicero indicarono come referenti, sulla costa tirrenica, Mario Scofano a Paola, Sergio Carbone a San Lucido, Tommaso Gentile e Pasqualino Besaldo ad Amantea, stabilendo un’alleanza con i Muto di Cetraro. Si è formata così una nuova compagine allargata con gli Scofano, i Martello i Serpa ed i La Rosa. I proventi illeciti confluivano in una cassa comune, detta «bacinella».   Il nuovo assetto provocò lo scontro con il nascente gruppo degli Imbroinise, il cui capo, Salvatore, fu ucciso il 13 marzo 2000. La cosca capeggiata da Mario Scofano assunse così la gestione di tutte le attività illecite. Ma nuovi attriti si verificarono ben presto tra Scofano e Giuliano Serpa, superati con una sorta di tregua armata. Un nuovo scontro ben più profondo si verificò il 19 dicembre 2002 con il tentato omicidio, a Paola, di Giancarlo Gravina, legato a Giuliano Serpa, ad opera della cosca Scofano-Martello-La Rosa-Ditto.

Ne nacque un violento conflitto tra la stessa consorteria e i Serpa che nel frattempo si erano alleati con i Bruni di Cosenza, con Francesco Tundis di Fuscaldo e Pasqualino Besalto di Amantea che portò a quattro delitti ed a due tentati omicidi.   Le perdite subite sia per lo scontro che per gli arresti, portò a nuovi assetti tra le cosche; all’omicidio di Stefano Mannarino, ucciso a Paola il 25 ottobre 2008; al ruolo centrale di Mario Serpa che, dalla semilibertà, riprese il controllo.   Tra gli omicidi su cui è stata fatta luce ce ne sono anche due «storici», quello di Giovanni Serpa, ucciso a Paola l’11 settembre 1979 durante la prima guerra di mafia, e quello di Alfredo Sirufo, ucciso a Paola il 17 dicembre 1993, nell’ambito di una faida sorta all’interno della cosca Serpa.

venerdì 30 marzo 2012 13:32

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/349676/Il-miraggio-di-una–locale.html

Cosenza: operazione “Tela del ragno” i nomi dei 58 arrestati

30 marzo 2012

Sono in tutto 58 le persone arrestate questa mattina dai carabinieri del comando provinciale di Cosenza in collaborazione con il Ros e il nucleo Cacciatori di Vibo Valentia. Tre destinatari sono risultati irreperibili, altri due sono morti recentemente. L’accusa per tutti è di associazione mafiosa, omicidio, tentato omicidio, porto abusivo di armi da fuoco, materiale esplodente, estorsioni e usura. Nell’indagine oltre agli arrestati ci sono anche altre 190 persone che risultano indagate a piede libero. Alcuni amministratori locali saranno sentiti, già nelle prossime ore, dai magistrati della Dda di Catanzaro. Con questa indagine i carabinieri sono riusciti a ricostruire una serie di delitti in una arco temporale di oltre trent’anni, che hanno disegnato le nuove mappature delle ‘ndrine della provincia di Cosenza. Al centro dell’attività investigativa, anche una pax mafiosa dei clan coinvolti che avrebbe consentito le infiltrazioni delle cosche più potenti negli appalti pubblici nei territori di competenza.

Diciannove immobili, nove società, sedici automobili, quattro moto: sono questi i beni sequestrati, per un ammontare di 15 milioni di euro, ai sette clan coinvolti nell’operazione “la tela del ragno” dei carabinieri del comando provinciale di Cosenza. Nel mirino della Dda di Catanzaro, capi e gregari di clan operanti nel capoluogo e sul tirreno cosentino. Cinquantotto le ordinanze eseguite su 63 emesse.

Gli arresti: Gennaro Bruni, 16/01/1956, Residente Paola; Luigi Bruni, Il 07/05/1985; Antonio Buono, 08/12/1964; Paolo Calabria, 05/05/1979 tutti di Paola; Giovanna Caratelli 14/08/1971, di Roma; Sergio Carbone, 25/10/1958 di San Lucido; Aldo Caruso, 11/04/1980; Romolo Cascardo, 01/02/1945, entrambi di Paola; Valerio Salvatore Crivello, 27/09/1979, residente Preganziol (Tv); Giuseppe Curioso, 12/09/1979 di Paola; Antonella D’angelo, 17/01/1961, di Roma; Francesco Desiderato, 03/10/1988, residente a Fuscaldo; Antonio Esposito, 27/01/1956, di Fuscaldo; Guerino Folino, 31/07/1967, nato a Paola residente a Dorno (Pv); Giacomino Guido, 24/06/1967, di Amantea; Giuseppe La Rosa, 06/11/1980; Luca La Rosa, 18/09/1978, entrambi di Paola; Vincenzo La Rosa, 09/01/1957, nato a Paola residente a Roma; Daniele Lamanna, Nato 03/05/1974, di Cosenza; Giuseppe Lo Piano, 09/12/1967, di Fuscaldo; Pietro Francesco Lofaro, 02/04/1982, residente a Paola; Pier Mannarino, 18/07/1980, residente Amantea; Sonia Mannarino, 09/02/1964, Paola; Alessio Martello, 18/06/1990, Fuscaldo; Francesco Martello, 24/09/1988, Fuscaldo; Mario Matera, 18/08/1981, San Lucido; Mario Mazza, 18/07/1984, Fuscaldo; Giovanni Neve, 25/02/1972, Fuscaldo; Alfredo Palermo, 21/05/1983, Paola; Fabrizio Poddighe, 04/11/1978, Fuscaldo; Luciano Carmelo Poddighe, 13/12/1981, Fuscaldo; Ilario Pugliese, 12/11/1982, Paola; Fabrizio Rametta, 20/12/1972, Amantea; Gianluca Serpa, 24/03/1975, Paola; Livio Serpa, 23/09/1967, Paola; Mario Serpa, 30/01/1953, nato a Paola semilibero Presso Casa Circondariale Pavia; Nella Serpa, 14/07/1955, Paola; Francesco Pino Trombetta, 07/04/1984, Fuscaldo; Giovanni Abruzzese, 23/07/1959, di Cosenza detenuto presso casa circondariale Parma; Natale Alessio, 25/12/1974, detenuto presso casa circondariale Cosenza; Mario Attanasio, 01/05/1972, detenuto presso casa circondariale Cosenza; Pasqualino Besaldo, 11/06/1966, nato ad Amantea detenuto presso casa circondariale Ascoli Piceno; Michele Bloise, 02/03/1975, nato a Laino Borgo detenuto Presso Casa Circondariale Roma Rebibbia; Domenico Cicero, 28/07/1957, nato a Cosenza detenuto presso casa circondariale Viterbo; Antonio Ditto, 03/04/1950, nato a Seminara (detenuto Presso Casa Circondariale Napoli Secondigliano; Gennaro Ditto, 21/09/1976, nato a Paola detenuto Presso Casa Circondariale Messina; Tommaso Gentile, /02/1958, nato ad Amantea detenuto Presso Casa Circondariale Parma; Carmela Gioffrè, 01/04/1954, nata a Seminara detenuta Presso Casa Circondariale Taranto; Giancarlo Gravina, 17/05/1965, nato a Cosenza detenuto Presso Casa Circondariale Vibo Valentia; Domenico La Rosa, 12/03/1955, nato a Paola detenuto Presso Casa Circondariale Melfi; Carlo Lamanna, 16/10/1967, nato a Cosenza detenuto Presso Casa Circondariale San Gimignano; Mario Martello, 25/01/1976, nato a Paola detenuto Presso Casa Circondariale Volterra; Umile Miceli, 26/05/1966, detenuto Presso Casa Circondariale Cosenza; Mario Scofano, 21/03/1960, nato a Paola detenuto Presso Casa Circondariale Palermo; Salvatore Serpa, 15/04/1987, Detenuto Presso Casa Circondariale Cosenza; Giuseppe Sirufo, 05/04/1983, detenuto Presso Casa Circondariale Cosenza; Francesco Tundis, 04/02/1968, detenuto Presso Casa Circondariale Cosenza; Pietro Sebastiano Vicchio, 31/07/1979, nato a Siracusa detenuto Presso Casa Circondariale Rossano.

http://www.cn24tv.it/news/44352/cosenza-operazione-tela-del-ragno-i-nomi-dei-58-arrestati.html

 

Per approfondimenti sul clan Bruni clicca quì

Calabria, Grande Oriente chiude 3 logge massoniche: ‘Infiltrate dalla ‘ndrangheta’

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Molte inchieste giudiziarie della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria hanno toccato iscritti del Grande Oriente d’Italia. Così nei mesi scorsi i vertici hanno preso importanti provvedimenti: con il decreto numero 40 del 21 novembre 2014, infatti, sono state cancellate la logge “Cinque Martiri” di Gerace, “Rocco Verduci” di Brancaleone e “Domenico Salvadori” di Caulonia

Massoneria e ‘ndrangheta. In Calabria le cosche infiltrano anche le logge massoniche. Lo hanno rivelato numerosi pentiti molti anni fa quando i boss hanno deciso di entrare in contatto con ambienti capaci di aprire qualsiasi porta. Molte sono le inchieste giudiziarie della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che hanno toccato iscritti alla massoneria.

Proprio alla luce di quelle indagini, nei mesi scorsi i vertici del Grande Oriente d’Italia avevano avviato delle verifiche interne alle logge reggine e, in particolare nella Locride dove il Gran Maestro Stefano Bisi, come riporta la rivista ufficiale della massoneria “Erasmo”, ha preso importanti provvedimenti. Con il decreto numero 40 del 21 novembre 2014, infatti, è stata cancellata la loggia “Cinque Martiri” di Gerace (che si riuniva nel tempio di Siderno) già travolta da alcune inchieste antimafia. Stesso destino, era toccato alla loggia “Rocco Verduci” di Brancaleone e “Domenico Salvadori” di Caulonia.

Tre logge cancellate e non più attive nel giro di pochi chilometri e questo secondo i vertici del Goi, oltre alla maggiore attenzione sulle abitudini di chi frequenta le logge, dimostra l’apertura della massoneria ufficiale nei confronti della società civile. Non è un caso che qualche anno fa nell’inchiesta “Saggezza”, almeno sei personaggi arrestati per reati di mafia facevano capo, oltre alla ‘ndrangheta, anche alla “loggia massonica con sede in via Mazzini di Siderno, facente capo alla più grande loggia madre denominata Camea (Centro attività massoniche esoteriche accettate)”.

Seduti al fianco di politici, imprenditori e professionisti massoni, c’erano gli affiliati al locale di Ardore come Nicola Nesci riuscito a fare carriera anche tra i grembiulini della Locride. “L’indagato – avevano scritto i magistrati della Dda – è Maestro segreto di 31° grado”, ma anche “presidente della camera di 4° grado”.

Qualche anno fa, è stata cancellata anche una loggia massonica a Reggio Calabria. Si chiamava “Araba Fenice numero 98”. La decisione era stata presa dal Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia, Fabio Venzi, il quale aveva emesso un provvedimento tecnicamente chiamato di “abbattimento della loggia” che si riuniva in uno stabile al numero 178 di via Santa Caterina, al centro di Reggio Calabria. Un provvedimento che è stato adottato in seguito alle vicende giudiziarie che hanno coinvolto Giovanni Zumbo, il commercialista-talpa in odore di servizi segreti che sussurrava notizie riservate alle orecchie dei boss Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara.

L’abbattimento sarebbe stato determinato dal fatto che l’inchiesta contro Zumbo avrebbe potuto gettare discredito sulla loggia inaugurata “il 2 dicembre 2006 alla presenza del Gran Maestro regionale Antonio Mazzei e di numerosi fratelli provenienti da tutta la Calabria e dalla Sicilia”.

“Araba Fenice” era finita qualche anno prima in una dettagliata informativa della guardia di finanza che indagava sui rapporti politica e imprenditoria reggina. Proprio in quell’informativa era finito il nome dell’imprenditore Pasquale Rappoccio, iscritto alla stessa loggia di Zumbo e condannato in primo grado a 5 anni di carcere nel processo “Reggio nord” per intestazione fittizia di beni, con l’aggravante di aver favorito la ‘ndrangheta. Stando alle risultanze investigative, Giovanni Zumbo non è stato iscritto solo all’ “Araba Fenice” il cui “secondo principale” (uno degli incarichi), fino a pochi anni fa, era l’imprenditore Pasquale Rappoccio. Prima, infatti, Giovanni Zumbo era uno dei fratelli della storica loggia massonica “Tommaso Campanella numero 41”, una delle più famose della città dello Stretto.

Quello della massoneria era un ambiente che, stando alle indagini, Zumbo conosceva bene e che, probabilmente, gli ha aperto molte porte, comprese quella della politica, delle forze dell’ordine e dei servizi segreti. Non è un caso che il commercialista, nel corso dell’interrogatorio del 13 giugno 2011, aveva riferito circa l’esistenza dei suoi rapporti con il numero 2 del Sismi Marco Mancini e con Corrado D’Antoni. Rapporti dei quali non ha voluto spiegare i contorni limitandosi, invece, a negare il “contenuto di tutte le annotazioni e relazioni di servizio” redatte dall’appuntato Roberto Roccella, il carabiniere che ha segnalato la presenza delle armi nella Fiat Marea nera parcheggiata il 21 gennaio 2010 lungo il tragitto del corteo di auto blu dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Anche il carabiniere Roberto Roccella, per il quale la Procura nel settembre scorso ha chiesto il processo falsità ideologica in atti pubblici, era iscritto alla loggia massonica “Araba Fenice”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/18/musolino-logge-massoniche/1508927/

 

Pusher lo minaccia ma lui parla: smantellata rete di trafficanti di coca

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Operazione contro tre bande criminali, con 29 arresti. Coinvolte Milano, Monza-Brianza, Vibo Valentia e Novara. Indagine iniziata grazie alla denuncia di un tossicodipendente

Aveva un negozio che è andato in rovina a causa della droga e quando il tossicodipendente non ha più potuto pagare il suo pusher, di fronte alle minacce di quest’ultimo, si è rivolto al commissariato della Polizia di Stato di Sesto San Giovanni. Da qui è partita l’indagine della Direzione distrettuale antimafia e della squadra mobile di Milano, in collaborazione con gli agenti sestesi, che ha permesso di individuare tre bande criminali dedite – secondo quanto hanno ricostruito gli inquirenti – al traffico di droga e di armi nel Nord Italia, a Milano. Bande con amicizie nella ‘ndrangheta calabrese. Gli agenti hanno eseguito un provvedimento restrittivo emesso dal gip del Tribunale di Milano, nei confronti di 29 persone. Accertamenti e perquisizioni sono state effettuate in varie località, con sequestri preventivi di beni disposti dalla Dda nelle province di Milano, Monza-Brianza, Vibo Valentia e Novara. Le 29 persone indagate sono accusate a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, per lo più cocaina ed hashish, cessione di sostanze stupefacenti, detenzione e cessione di armi da fuoco ed estorsione volta ad ottenere con la minaccia il pagamento di una partita di droga. I fatti, risalenti a quasi tutto il 2013, sarebbero stati commessi nelle province di Milano, Monza-Brianza, Novara ed Imperia. Durante le prime fasi delle indagini, già due anni fa, erano già stati operati 13 arresti col sequestro di 26 kg di cocaina, 6 kg di hashish, 5 armi da fuoco e un ordigno esplosivo.

L’indagine è partita dalla denuncia di un ex negoziante, ormai ridotto a tossicodipendente, che era stato minacciato da un pusher, il quale, per riscuotere un credito, gli aveva detto di avere amici calabresi importanti e pericolosi. Gli investigatori hanno analizzato i contatti dell’uomo. Lo spacciatore faceva riferimento a due pregiudicati di Cinisello Balsamo, di origine calabrese, che rifornivano di droga il Rione Sant’Eusebio. Gente pronta a usare le armi, tanto che la polizia aveva sventato un agguato nei confronti di rivali alla vigilia di Natale del 2013. Costoro ricevevano droga da un altro personaggio già noto alle forze dell’ordine, residente nelle case Aler di Sesto San Giovanni, attualmente in carcere dopo che gli sono stati revocati gli arresti domiciliari. Quest’ultimo a sua volta prendeva ordini dalla famiglia Desiderato, con ramificazioni nella Brianza e nel Milanese, legata al clan dei Mancuso. L’altra banda sgominata, che operava insieme ai Desiderato, è quella dei Lisotti a Novara. La droga arrivava da referenti in Calabria mentre non è stato possibile accertare il canale di rifornimento delle armi.

18 marzo 2015 | 14:38

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/15_marzo_18/pusher-minaccia-ma-lui-parla-smantellata-rete-trafficanti-coca-88dcba10-cd71-11e4-a39d-eedcf01ca586.shtml

Lombardia, sgominate 3 bande criminali: 29 arresti per traffico di armi e droga

 

I gruppi erano attivi tra Cinisello Balsamo, Desio, Sesto San Giovanni e i comuni a nord di Milano. In tutto 49 indagati. Tra le accuse anche quelle di spaccio, detenzione e cessione di armi da fuoco ed estorsione

 

di Alessandro Bartolini | 18 marzo 2015

Luglio 2013. Un ragazzo tossicodipendente si presenta al commissariato di Sesto San Giovanni (Milano). Vuole sporgere denuncia contro uno spacciatore. Racconta che gli deve dei soldi per una partita di cocaina. Racconta di essere stato minacciato. Racconta che il suo creditore – per convincerlo a pagare – fa leva sulle sue amicizie “calabresi”. Sì, perché anche lo spacciatore ha acquistato la droga a credito. E adesso deve pagarla. E le persone a cui deve i soldi sono Claudio Favorido e Michele Zanzarelli, che al telefono con un amico spiega quale sia la sorte di chi non rispetta i patti: “Tu allora cominci a gambizzare qualcuno. E quello dice ‘minchia guarda Michele, l’ha bucato oh! Vediamo di dargli subito i soldi!’ La gente ragiona così ormai, o no?”. Favorido e Zanzarelli sono due figure rispettate e temute nel giro del quartiere Sant’Eusebio di Cinisello Balsamo. I capi – secondo la Dda di Milano – di una banda che spacciava droga tra Limbiate, Bovisio Masciago e Novara. E che contava su agganci di peso con Francesco Orazio Desiderato, broker della droga nel nord Italia legato alla ‘ndrangheta.

E’ questo l’istante – immortalato nell’ordinanza di 180 pagine firmata dal gip Luigi Gargiulo su richiesta del pm Laura Pedio – in cui partono le indagini della Squadra mobile di Milano contro tre gruppi criminali attivi tra Cinisello Balsamo, Desio, Sesto San Giovanni e i comuni a nord del capoluogo lombardo. In manette sono finite 29 persone (49 in tutto gli indagati), accusate a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, cocaina e hashish, spaccio, detenzione e cessione di armi da fuoco ed estorsione. Sequestrati anche beni mobili e immobili tra il nord Italia e Vibo Valentia.

Il lavoro degli investigatori è durato due anni, durante i quali gli uomini guidati dal capo della Mobile Alessandro Giuliano hanno captato le conversazioni dei presunti affiliati e catturato gli scambi di droga e di armi automatiche e da guerra. Ricostruendo così la filiera del traffico e dello spaccio di cocaina che partiva molto probabilmente dalla Calabria. Veniva stoccata in bar, autolavaggi, box e abitazioni. Venduta, distribuita alle batterie di “cavallini” e riversata nelle strade dell’hinterland milanese.

Gli accordi per vendere e piazzare le partite milionarie venivano presi in via Canturina, a Barlassina (tra Meda e Seveso, nord di Monza). Nella villetta di Francesco Orazio Desiderato, originario di Vibo Valentia, considerato un pezzo da novanta del narcotraffico del nord Italia. Desiderato è stato arrestato già nel 2010 per un’indagine che smantellò un traffico tra clan slavi e calabresi. Poi di nuovo a ottobre 2013, dopo un inseguimento con la polizia lungo la strada statale Barlassina. In auto aveva un chilo di cocaina e tre armi da guerra, tra cui un kalashnikov. Ma a balzare agli occhi sono i suoi rapporti di parentela e di affari con la cosca di ‘ndrangheta dei Mancuso di Limbadi, anche se il dirigente della Mobile sottolinea che “questa non è un’indagine contro la criminalità organizzata”.

Era lui – secondo gli inquirenti – il capo del gruppo dal quale Zanzarelli e Favorido si rifornivano. Era lui a concordare la vendita della cocaina e a fissare il prezzo e lo faceva direttamente a casa sua, dove le telecamere piazzate dagli uomini della sezione antidroga hanno registrato un continuo viavai di acquirenti. Sì, perché Desiderato non si fidava dei telefoni. Per fissare gli appuntamenti sguinzagliava i suoi uomini di fiducia: Mariolino Caruso, Michele Di Dedda, Giuseppe Maria Baratta e Massimiliano Rocco. E riceveva direttamente di persona. Nonostante avesse l’obbligo di firma e il divieto di incontrare pregiudicati per via di un altro procedimento giudiziario. Bastava una telefonata del suo braccio destro: “Lo zio vuole vederti”. E lo scambio andava in porto. Non si parla di grammi, ma di chili di droga. Un’altra banda, quella di Pantaleone Lisotti e di Alfonso Cuturello (proprietario dell’autolavaggio Car Wash di Limbiate, uno dei centri di stoccaggio da cui prende il nome l’indagine), ad esempio, ne vuole 19: Desiderato li accontenta.

Nella sua villa chi voleva poteva trovare non solo droga, ma anche armi: che vengono scoperte dai poliziotti appostati in via Canturina. E’ il 24 ottobre 2013: Massimiliano Crocco è in sella a uno scooter, sta andando da Desiderato. Con sé ha un trolley nero. Fiuta però qualcosa di strano: se ne libera e scappa. Dentro gli agenti trovano due Akms 74 modificati, caricatori e cartucce.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/18/milano-29-arresti-per-traffico-droga-sequestro-beni-nel-nord-italia-vibo/1517615/

Parla il boss Trimboli: il più grande trafficante di cocaina della ’ndrangheta diventa “pentito”

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La scelta di collaborare con lo Stato resa pubblica durante un processo per droga che si sta celebrando nel tribunale ad Alessandria con il pm Antonio Rinaudo della Dda torinese

giuseppe legato
alessandria

Uno dei più grandi «broker» della ‘ndrangheta calabrese nel mondo sta parlando, da mesi, con la Dda di Torino e con altre autorità italiane. È diventato collaboratore di giustizia prima dell’autunno scorso, è entrato nel programma di protezione e sta raccontando quanto sa sulle proiezioni della mala, ma soprattutto sul traffico di cocaina, che è poi la sua specialità assoluta. Domenico Trimboli, alias Pasquale, nato a Buenos Aires, 61 anni, era stato arrestato il 4 giugno nel municipio di Caldas nei pressi di Medellin, in Colombia, da personale del Corpo tecnico investigativo della Fiscalia di Bucarananga su input del Ros dei carabinieri, della Dda di Reggio e della squadra mobile di Alessandria.

Latitante dal 2009

Era latitante dal 2009, da quando cioè su di lui pendeva un mandato d’arresto firmato dal gip del Tribunale reggino per traffico di stupefacenti documentato nell’operazione «Chiosco grigio» (dal nome del locale di Alessandria nel quale alcuni dei 35 indagati si riunivano per disegnare strategie criminali) messa a segno dal Goa di Catanzaro e per un cumulo pene di 12 anni.

Tremano le cosche

Tremano le cosche della fascia Jonica calabrese, ma anche le loro proiezioni dell’Alessandrino dove da tempo si sostiene esista una vera «locale» (struttura di base della ‘ndrangheta) sulla quale ancora non è stata fatta piena luce (ne ha parlato diffusamente il pentito del processo Minotauro Varacalli) e dove Domenico Trimboli è stato più volte localizzato (molti suoi parenti vivono nella provincia e in città).

Udienza per droga

La notizia della scelta del trafficante (la cui famiglia è originaria di Natile di Careri, cuore della Locride) di collaborare con lo Stato è diventata pubblica poche settimane fa in un’udienza di un processo per droga che si sta celebrando a Alessandria e in cui la pubblica accusa è rappresentata dal pm della Dda torinese Antonio Rinaudo. Nella lista dei collaboratori da escutere non c’era solo il nome di Rocco Varacalli, ma anche quello di Trimboli, che avrebbe dovuto collegarsi da una località segreta. Da qui l’ufficialità. Le dichiarazioni di Trimboli sono – ovviamente – top secret, ma il calibro del personaggio, considerato collante tra i principali cartelli colombiani e la ‘ndrangheta in Italia, fa immaginare quanto possano diventare dirompenti nei futuri scenari della lotta alla mafia anche nella provincia di Alessandria, base e crocevia, come documentato dal Goa,di affari illeciti e di pianificazioni sui grandi carichi di cocaina in arrivo in Italia. Proprio quelli in cui Trimboli era specializzato.

Maxicarichi di cocaina

All’indomani del suo arresto ne era stato tracciato il profilo: «È un broker capace di fare arrivare carichi nell’ordine di 2/3 tonnellate per volta» avevano spiegato il procuratore capo di Reggio Cafiero De Raho e l’aggiunto Nicola Gratteri. Un uomo abilissimo con le lingue e che trattava cocaina direttamente con i cartelli più potenti. Poco prima di lui era stato arrestato a Miami Luigi Barbaro (aprile 2013), residente nel Torinese coinvolto anch’egli nell’operazione Chiosco grigio di Alessandria. A Reggio Calabria, su istanza dei suoi legali Carlo e Oreste Romeo, è stata dichiarata l’incompetenza territoriale e lo stralcio del processo (Chiosco grigio si è già conclusa con pesanti condanne in Appello), è stato trasferito a Torino. Qui, il gip La Rosa nei giorni scorsi ha deciso «la scarcerazione di Barbaro – dicono allo studio Romeo – per mancanza di gravi indizi di colpevolezza in ordine a due capi di imputazione contestati in questo procedimento: il traffico di droga e il ruolo di capo promotore (insieme a Trimboli) del sodalizio criminale». Libero dunque, in attesa di essere giudicato però.

http://www.lastampa.it/2015/03/17/edizioni/alessandria/si-pentito-il-pi-grande-trafficante-di-cocaina-della-ndrangheta-parte-da-alessandria-la-confessione-del-boss-domenico-trimboli-RTAiUgHwzvIHTkwAKNwNNI/pagina.html

‘Ndrangheta, si pente il boss Domenico Trimboli: “Voglio collaborare”

Arrestato nel 2013 a Medellin, “Pasquale” – questo il suo soprannome – era considerato il broker del narcotraffico tra Europa e Sudamerica. E’ stato lui stesso a comunicare la decisione durante una udienza ad Alessandria

Si è pentito il boss dei due mondi. Lo chiamavano “Pasquale”, era stato arrestato nell’aprile 2013 a Medellin, in Colombia, dopo 4 anni di latitanza. Domenico Trimboli era uno dei più importanti narcotrafficanti della ‘ndrangheta. Capace di muoversi tra l’Europa e il Sudamerica con la stessa semplicità di chi si sposta da un quartiere all’altro di una piccola città di provincia. Un personaggio in grado di fare arrivare tonnellate di cocaina destinata non solo alla ‘ndrangheta, ma anche a Cosa nostra e alla camorra. “Ho deciso di collaborare”. La notizia l’ha data lui stesso durante un’udienza al Tribunale di Alessandria. Da mesi ormai sta riempiendo verbali della Dda di Torino e di altre Procure italiane.

Nato in Argentina, a Buenos Aires, Domenico Trimboli è originario di Natile di Careri, nella Locride. È ritenuto uno dei broker più affidabili dai narcos sudamericani. Era l’uomo di collegamento tra questi e le famiglie mafiose calabresi e siciliane. Il suo giro toccava anche il Piemonte ed è proprio seguendo la pista del nord Italia che i carabinieri del Ros e il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri sono riusciti ad arrestarlo l’ultima volta a Medellin dove era in contatto con il narcotrafficante Nelson Ybara Ramirez del quale ha sposato la sorella Valencia Silva Luz. Ma anche con un altro broker della ‘ndrangheta, quel Roberto Pannunzi detto “Bebè” arrestato nel luglio del 2013 a Bogotà.

Proprio i legami con le principali cosche della Locride e con i cartelli colombiani hanno consentito a Trimboli di continuare a gestire il narcotraffico di cocaina anche nel periodo in cui era latitante. Dopo meno di due anni di carcere, oggi ha saltato il fosso. “Pasquale”, così si faceva chiamare, ha deciso di collaborare con la giustizia mettendo a disposizione delle Procure di Reggio Calabria e Torino le sue conoscenze sui traffici internazionali di cocaina. E i due mondi tremano.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/19/ndrangheta-si-pente-boss-domenico-trimboli-voglio-collaborare/1519772/

Squarcio nel cuore della ‘ndrangheta, si è pentito
il boss e re del narcotraffico Domenico Trimboli

L’uomo è stato arrestato arrestato nel 2013 in Colombia ed ora ha deciso di collaborare. E’ considerato un “pezzo da novanta” della criminalità organizzata calabrese ed è originario della Locride

di FRANCESCO SORGIOVANNI

C’E’ un nome nuovo tra i collaboratori di giustizia. È il nome dell’ultimo pentito della ‘ndrangheta. Un nome che potrebbe conoscere molti fatti. È un pezzo da novanta, l’uomo “d’oro” delle ‘ndrine calabresi. Da mesi starebbe parlando e riempiendo verbali davanti ai magistrati della Dda di Torino e di altre autorità.

La notizia a sorpresa è arrivata durante l’udienza di un processo per droga presso il tribunale di Alessandria, come riporta oggi un ampio servizio pubblicato sull’edizione cartacea del Quotidiano. «Ho deciso di collaborare», questa la prima dichiarazione del 61enne Domenico Trimboli, alias Pasquale, uno dei più grandi narcotrafficanti mondiali della ‘ndrangheta.

LE FOTO DELL’ARRIVO DI TRIMBOLI A FIUMICINO

Trimboli, pur essendo nato in Argentina, a Buenos Aires, appartiene ad una famiglia originaria di Natile di Careri, nella Locride. L’ultima volta è stato arrestato nel 2013 a Medellin in Colombia e da circa un anno, dopo l’estradizione, è carcerato in Italia. Ora vive sotto protezione in una località segreta. Domenico Trimboli è stato per molto tempo uno “specialista” del traffico internazionale di cocaina tra il Sud America e l’Europa.

E proprio dai particolari su tali traffici sarebbe partito nelle sue dichiarazioni ai magistrati non solo torinesi. Trimboli non è un boss qualunque. Ed è per questo che la notizia della sua collaborazione con la giustizia fa tremare molte persone. Secondo quanto emerso dalle recenti attività investigative, Trimboli costituiva l’elemento di raccordo tra i gruppi fornitori colombiani e le cosche jonico-reggine della ‘ndrangheta, funzionale al traffico di ingenti quantitativi di droga.

Da oltreoceano, infatti, quando il boss era latitante continuava ad organizzare la spedizione di ingenti quantitativi di cocaina verso il mercato europeo ed italiano. Aveva rapporti commerciali non solo con le cosche della ‘ndrangheta ma anche con la camorra e la mafia siciliana.

Insomma, un uomo potentissimo, il numero uno dei trafficanti, il “boss dei due mondi” come è stato definito, che ora avrebbe deciso di chiudere con la malavita. Di lui aveva parlato il pentito Rocco Varacalli quando aveva spiegato i legami della ‘ndrangheta di Natile di Careri con Alessandria, vale a dire il primo tentativo di costituire in provincia una ‘ndrina, una filiale della cosca madre operante in Calabria. Trimboli ha saltato il fosso.

I magistrati antimafia lavorano sulle pagine dei verbali del nuovo pentito per vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni che sta facendo e trovare i riscontri. Per Trimboli è scattato il piano di protezione. È uno che sa tanto. E tremano le cosche di ‘ndrangheta, che del traffico di droga avevano fatto la principale fonte di business.

giovedì 19 marzo 2015 13:10

http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/735322/Squarcio-nel-cuore-della–ndrangheta.html

Clicca quì per leggere l’articolo dell’arrest di Trimboli

Tonni malformati: guardia costiera fa carotaggi sulle coste cosentine. Non eravamo pazzi.

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Tonni malformati
Guardia costiera
esegue carotaggi

20/03/2015
Tra Amantea e Tortora. Lo ha disposto la Procura di Paola per verificare l’eventuale presenze di materiali inquinanti

I sub del terzo nucleo subacquei della Guardia costiera di Messina eseguiranno da martedì carotaggi dei fondali lungo la costa tra Amantea e Tortora. Lo ha disposto la Procura di Paola per verificare l’eventuale presenze di materiali inquinanti dopo notizie di stampa su esemplari di tonno malformati. I carotaggi verranno consegnati all’Arpacal di Cosenza per l’analisi. Saranno anche presi campioni di pesci. Alla Guardia costiera non sono stati consegnati esemplari malformati. (ANSA)

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“Relazione sui possibili interessi della criminalità organizzata sul traffico marittimo” a cura del Comitato ristretto della Commissione antimafia

Cunsky: il certificato di demolizione è falso. Come certi politici e certi pseudo giornalisti di casa nostra

C’era rimasto solo il mare. È diventato la tomba dei veleni

Troppi tumori nel Meridione: il dossier del blog

Discariche e rifiuti interrati: petizione per bonifica siti inquinati, in Calabria sono 43 (ELENCO COMPLETO)

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Sabato, 21 Marzo 2015 10:05

CATANZARO – Circa la metà risultano essere in zone turistiche del cosentino.

Sono ben 198 le discariche abusive sparse per tutto il Paese che ogni giorno minano la salute dei cittadini e dell’ambiente, così come documenta la mappa del dipartimento Ambiente della Commissione Europea. Solo la Val d’Aosta e il Trentino Alto Adige sono fuori dalla hit parade delle zone nere che trova in prima posizione la Campania con 48 siti incriminati, seguita dalla Calabria con 43, dall’Abruzzo (28), dal Lazio (21), dalla Puglia (12) e dalla Sicilia (12). Brutte notizie anche per la citta’ di Venezia che si aggiudica da sola 5 location sulle 9 totali rinvenute nella regione Veneto.

E oltre al danno, anche la beffa: una multa dell’Unione Europea che costa alle tasche dei cittadini oltre 40 milioni di euro ogni 6 mesi in vigore fino al risolvimento della situazione. Prossima scadenza per non incorrere in ulteriori sanzioni è quella del 2 giugno 2015: entro questa data, tutte le regioni interessate dovranno aver concluso la messa in sicurezza e, se necessaria, la bonifica delle zone interessate. Su Firmiamo.it è stata quindi lanciata una petizione che chiede entro il 2 giugno 2015 la bonifica immediata di tutti i 198 siti per tutelare la salute dei cittadini, l’ambiente e fermare le multe dell’Unione Europea. ”Una soluzione concreta e tempestiva per non morire più avvelenati dalla spazzatura, per avere maggiori controlli nel futuro e per non svuotare ulteriormente le nostre tasche e quelle dello Stato”. Per aderire basta cliccare qui su “firma” o accedere al sito Firmiamo.it.

CLICCA IN BASSO PER CONSULTARE L’ELENCO COMPLETO DEI SITI DA BONIFICARE

http://www.quicosenza.it/calabria/18837-rifiuti-petizione-per-bonifica-siti-in-calabria-sono-43#.VRBYROEYHsT


Tumori: scorie radioattive in provincia di Reggio Calabria, Catanzaro e Vibo

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OO7 <SCORIE RADIOATTIVE SOTTERRATE NELLE GROTTE DI: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno>

Un carteggio iniziato almeno dal 1992. Tra gli atti desecretati sulle “navi dei veleni” e sull’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono anche quelle note dei Servizi Segreti con cui viene segnalato l’interesse delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito di rifiuti tossici e radioattivi. Tra gli atti desecretati a seguito della comunicazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, alla Presidente della Camera, Laura Boldrini, sono del resto ricorrenti le note di ringraziamento indirizzate ai Servizi dai magistrati di Reggio Calabria per la “proficua collaborazione”. Da quelle di Franco Scuderi, a quelle di Francesco Neri e lo stesso Alberto Cisterna, nella sua audizione del 1997 (anch’essa desecretata) ne parla.

Tante le note “riservate”.

La prima è del 17 novembre 1992, allorquando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, sotterrandoli lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria: i rifiuti – è scritto nella nota dei Servizi – “verrebbero sotterrato, grazie alla copertura dei predetti fratelli, lungo canali scavati la posa dei tubi del metanodotto in via di costruzione presso il fiume Mesima e più precisamente nella contrada Vasi” con camion del Comitato Autotrasportatori CAARM. Agli atti d’archivio, però, vi sono anche le parole messe nero su bianco dagli 007 nell’ambito delle indagini per la cattura del super latitante Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo, paese della Locride. E’ il 1994, Morabito verrà arrestato solo dieci anni dopo, ma già in quell’occasione i Servizi segnalano che il latitante, in cambio di una partita di armi, avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche e, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania: “Gli accertamenti e le indagini tuttora in corso – scriveranno dai Servizi – hanno consentito di acclarare che l’area interessata allo scarico del materiale radioattivo sarebbe compresa nel territorio sito alle spalle di Africo e segnatamente nella zona di Santo Stefano-Pardesca-Fiumara La Verde”. Affermazioni che verranno fatte sulla base di dati di fatto abbastanza concreti: “In contrada Pardesca è stato riscontrato un tratto di terreno argilloso rimosso di recente, verosimilmente, per l’interramento di materiale di ingombro. Nello stesso tratto è stato rinvenuto, altresì, un bidone metallico di colore rosso adagiato sul terreno”. Le notizie verranno comunicate al Ros dei Carabinieri di Reggio Calabria, che nel 2004 arriverà alla cattura del “Tiradritto”.

Delle scorie, invece, nessuna traccia.

Ma non finisce qui, perché alle fine del 1994 i Servizi Segreti segnalano l’esistenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossico-radioattivi, ubicate nella zona aspromontana e nel vibonese, dove esponenti della cosca Mammoliti avrebbero occultato sostanze pericolose provenienti dall’Est Europa, via mare e via terra. Anche in questo caso, la segnalazione verrà girata al Ros.

Gli atti desecretati a marchio SISMI e SISDE parlano anche di un colloquio informale avvenuto all’inizio del 1995 con il magistrato Francesco Neri, che coordinerà le indagini sulle “navi dei veleni” e, in generale, sugli intrighi di natura ambientale: indagini che avrebbero accertato l’esistenza di un vasto traffico nazionale riguardante lo smaltimento illecito di sostanze tossiche e radioattive attraverso il conferimento in discariche abusive per conto di tre tra le famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina, i De Stefano, i Tegano e i Piromalli. Le note dei Servizi parlano addirittura di circa settemila fusti sparsi nelle discariche del Nord Italia, a opera delle cosche. Gli 007 arrivano anche a fare una mappatura: “Nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz)”.

Un contesto in cui, oltre a quello di scorie, vi sarebbe stato anche un traffico di uranio rosso. Segreti che vengono riemergono a distanza di vent’anni. Lo stesso non può dirsi delle scorie. E questo nonostante i Servizi Segreti parlassero di “primi incoraggianti riscontri info-operativi”. Attivando le proprie fonti, infatti, gli 007 acquisiranno ulteriori dati: “Le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie site, oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, ecc.) nonché nel vibonese. In quella zona la famiglia Mammoliti, competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossici-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto in quell’area”. Rifiuti che – stando alle note dei Servizi – sarebbero arrivati dall’Est dell’Europa per mare e per terra: “Il canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni; il trasporto gommato proverrebbe da paesi del nord Europa su tir, anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi”.

Fonte : il dispaccio   Claudio Cordova

Paola: spiagge contaminate da cobalto e vanadio, vietato l’accesso nell’area ‘Pagnotta’

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Spiagge contaminate da cobalto e vanadio, vietato l’accesso nell’area ‘Pagnotta’

Scritto da  Maria Teresa Improta

PAOLA – Le sabbie rosse non sarebbero un fenomeno naturale bensì un chiaro segno dell’inquinamento da metalli pesanti del litorale paolano.

Su sollecitazione della Procura di Paola dopo i rilievi dell’Arpacal che hanno registrato la presenza di cobalto e vanadio oltre i limiti di legge il sindaco Basilio Ferrari ha emesso un’ordinanza che vieta l’accesso all’arenile cha va dal torrente Regina al torrente Laponte. Le spiagge che ricadono nell’area antistante località ‘Pagnotta’ non saranno accessibili sino all’avvenuta bonifica dei terreni. Sul caso il procuratore Bruno Giordano ha aperto un fascicolo contro ignoti interesssando sia l’assessorato regionale all’Ambiente sia quello provinciaele nonchè il dipartimento salute dell’Asp di Cosenza. Nel Luglio del 2013 fu necessario disporre un’ordinanza identica per le stesse zone ritenute contaminate oltre che da cobalto e vanadio anche da cromo e stagno cui valori erano stati ritenuti pericolosi per la salute umana. Il provvedimento emesso in piena stagione balneare fu poi ritirato sino ad arrivare alle sollecitazioni della Procura che ha imposto una nuova interdizione all’accesso all’arenile per tutelare l’incolumità dei cittadini.

http://www.quicosenza.it/provincia-cosenza/18884-spiagge-contaminate-da-cobalto-e-vanadio-vietato-l-accesso-nell-area-pagnotta#.VRHwZ-EYHsR

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Arrestato a Novara “u selvaggio”, Giuseppe Romeo, narcotrafficante latitante dal 2013

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Giuseppe Romeo si nascondeva in via Gobetti, a casa di un parente. Era ricercato dal 2013, quando aveva fatto perdere le proprie tracce dopo l’ordine di cattura emesso nei suoi confronti dal Tribunale di Brescia

Arrestato a Novara “u selvaggio”, narcotrafficante latitante dal 2013
E’ stato arrestato oggi a Novara, mentre stava uscendo per portare a passeggio il cane, Giuseppe Romeo, narcotrafficante latitante dal 2013. L’uomo si nascondeva in via Gobetti 7, a casa di un parente (finito in manette per il reato di favoreggiamento).

Romeo, che deve scontare 16 anni e 6 mesi di reclusione, è stato trovato in possesso di documenti falsi e di circa 3mila e 500 euro in contanti, “una cifra abbastanza irrisoria per un narcotrafficante”, ha commentato il comandante provinciale dei carabinieri di Novara Giovanni Spirito.

L’intervento è stato portato a termine alle 8 di questa mattina dai militari del Gruppo operativo carabinieri Calabria – Squadrone eliportato cacciatori, in collaborazione con i colleghi del Nucleo investigativo di Novara. Romeo, alias “u selvaggio” nato a Galatro (Reggio Calabria) il 18 giugno del ’60, era destinatario di un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti emesso dalla Procura della Repubblica di Brescia il 5 febbraio del 2013; provvedimento che cumulava due condanne per traffico di droga riportate nel 2006 e del 2011, e divenute definitive nel 2007 e nel 2013.

In particolare, la condanna del 2013 era riferita agli esiti dell’operazione “Centauro”, condotta dai carabinieri di Gardone Val Trompia, che aveva consentito di smantellare un’organizzazione dedita al traffico di cocaina tra la Calabria e la Valtrompia, più precisamente nella zona di Lumezzane (Brescia) dove, grazie ad una ben ramificata struttura ed i rapporti con famiglie calabresi residenti in zona e collegate alla ‘ndrangheta, giungevano periodicamente carichi di cocaina che viaggiava nascosta nell’apparato riproduttivo di bovini trasportati su camion. Romeo era stato arrestato proprio in provincia di Brescia nell’operazione “Centauro”. Il processo si era concluso con 24 condanne, sette assoluzioni, 160 anni di pene complessive e 800 mila euro di multa.

Tra le figure di spicco dell’organizzazione vi era anche quella anche di Domenico Mammoliti, esponente della famiglia Strangio, accusato di aver preso parte alla strage di Duisburg in Germania, nel Ferragosto del 2007. E proprio con Mammoliti, Romeo era entrato in contatto durante il suo “lavoro” di narcotrafficante.

Il latitante si era reso irreperibile nel gennaio 2013, in prossimità del passaggio in giudicato della condanna del 2011. Al momento dell’arresto non ha opposto resistenza. Insieme a lui è stato tratto in arresto per favoreggiamento il parente residente a Novara che aveva fornito appoggio logistico.

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‘Ndrangheta: ultimi beni sottratti alla piovra

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‘Ndrangheta. Sequestrati beni per 2 milioni a Vitaliano Grillo Brancati

Reggio Calabria. La Direzione Investigativa Antimafia di Reggio Calabria, a seguito di una proposta avanzata dal Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ha eseguito un decreto di sequestro beni emesso dal locale Tribunale – Sezione Misure di Prevenzione – nei confronti di GRILLO BRANCATI Vitaliano, 55enne, nativo di Villa San Giovanni (RC).

Il proposto è stato tratto in arresto nell’operazione “Meta”, nella quale, nel giugno del 2010, con Ordinanza emessa dal GIP del Tribunale di Reggio di Calabria, fu disposta l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di nr. 42 soggetti, facendo luce sulle molteplici attività di alcune delle principali organizzazioni criminali attive nella città di Reggio Calabria e dell’immediato hinterland, tra le quali spiccava quella capeggiata dal noto IMERTI Antonino cl’1948 e da BUDA Pasquale cl’1956, egemone nel comprensorio dei comuni di Villa San Giovanni e Fiumara di Muro.

In tale contesto investigativo, GRILLO BRANCATI Vitaliano era risultato il collettore degli interessi economici della menzionata consorteria criminale nel settore delle vendite all’incanto conseguenti a procedure fallimentari. Grazie al suo operato, infatti, i referenti dell’organizzazione criminale indagata erano riusciti a partecipare a due aste fallimentari celebratesi, negli anni 2005 e 2007, presso il Tribunale di Reggio Calabria, turbandone l’esito ed accaparrandosi la quasi totalità dei lotti all’incanto senza incontrare alcun rilancio e con esborsi relativi molto prossimi ai prezzi base dell’asta.

La Sezione Misure di Prevenzione così si è espressa, nel provvedimento odierno di sequestro, in merito alla posizione del GRILLO :” il contesto indiziario sopra riassunto, valutati unitariamente i dati di fatto e gli elementi desumibili dalle conversazioni intercettate confluite nel processo Meta, è ampiamente idoneo a sostenere un giudizio di pericolosità qualificata del proposto ai sensi dell’art. 4 comma 1 lett.a) del Dlgs 159/2011 per essere lo stesso indiziato di appartenenza alla ‘ndrangheta, nell’accezione valida nell’ambito del giudizio di prevenzione, con un ruolo determinante nella gestione concreta degli interessi della cosca legati al settore delle aste immobiliari attraverso l’attività professionale della moglie e l’apporto di un contributo determinante alla realizzazione del programma criminoso della cosca IMERTI”.

L’attività di sequestro odierna ha consentito di acclarare le modalità di acquisizione dell’ingente patrimonio accumulato nel tempo dal GRILLO, oltre ad una vistosa sproporzione tra i redditi dichiarati dal proposto e la consistenza di buona parte dei beni di cui il medesimo aveva la disponibilità, direttamente o a mezzo familiari.

Il patrimonio oggetto di sequestro, che ammonta complessivamente a circa 2 milioni di euro, è costituito in particolare da:

 - 7 immobili, tra cui 6 appartamenti di pregio ed un locale adibito ad uso commerciale ubicati in via Marina di Villa San Giovanni;

 - un’imbarcazione da diporto a motore, modello Alpa 39 Patriot, della lunghezza di circa12 metri ;

 - disponibilità finanziarie (conti correnti, depositi valori, buoni postali ect) in corso di quantificazione.

 Mercoledì 25 marzo 2015

http://www.reggiotv.it/notizie/cronaca/40271/-ndrangheta-sequestrati-beni-2-milioni-vitaliano-grillo-brancati

‘Ndrangheta: una villa sequestrata a due coniugi a Jonadi

L’immobile, del valore di trecentocinquantamila euro, è intestato a due coniugi ritenuti vicini al clan Mancuso di Limbadi

Il Tribunale di Vibo Valentia ha disposto il sequestro di un immobile del valore di 350mila euro intestato a due coniugi ritenuti vicini al clan Mancuso di Limbadi. Il provvedimento è stato eseguito stamane ad opera della polizia e scaturisce a seguito di una proposta del questore di Vibo, Angelo Carlutti, sulla base delle risultanze investigative dei poliziotti dell’ufficio misure di prevenzione della Questura, congiuntamente ai finanziari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. Oltre ad una sproporzione fra il valore dei beni posseduti con i redditi effettivamente dichiarati al fisco, è stata riscontrata la vicinanza dei proprietari dell’immobile al clan Mancuso e pertanto il bene è stato ritenuto dal Tribunale il reimpiego dei proventi derivanti da attività illecite. Nello specifico, il sequestro ha ad oggetto una villa a tre piani con ampio garage, giardino ed aree esterne, ubicata nel territorio comunale di Jonadi, confinante con Vibo Valentia.

http://www.corrierequotidiano.it/2020-cronaca/ndrangheta-una-villa-sequestrata-due-coniugi-jonadi

 

Brianza –‘Ndrangheta. Cocaina e armi sgominata la rete dei trafficanti

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di Simone Bianchin da la Repubblica

VENTINOVE ARRESTI per smantellare un’organizzazione di trafficanti di droga proveniente dalla Calabria, 51 persone indagate, criminali in contatto anche con calabresi vicini a cosche della ‘Ndrangheta e che trafficavano tra loro anche con armi da guerra che arrivavano dall’estero (sequestrati 2 kalashnikov, un fucile di precisione e una pistola). Principale base logistica al centro di incontri, trattative e scambi era la villa in via Canturina a Barlassina di Francesco Orazio Desiderato, “capo, promotore e organizzatore dell’associazione”, secondo il gip Luigi Gargiulo in riferimento al 40enne (nipote del boss Antonio Mancuso della cosca Mancuso di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia). In attesa della sentenza di Cassazione (rischia di dover scontare più di 20 anni di carcere per traffico di stupefacenti) si trovava lì agli arresti domiciliari. Altro punto in cui avvenivano scambi illeciti era l’autolavaggio Car Wash di via XXV Aprile a Limbiate, di proprietà di un 26enne di Taurianova (Reggio Calabria) residente a Bovisio Masciago che si chiama Alfonso Cuturello.

Girava con la sua Mercedes classe B (documentato un incontro a Barlassina con Desiderato) ed è il genero di Pantaleone Lisotti, 53 anni (calabrese di Limbadi, altro “capo e promotore dell’associazione”, residente in corso Vercelli a Novara) oltre ad appartamenti e attività commerciali come un bar e un distributore di benzina proprio a Novara. I criminali, tutti italiani tranne due (un tedesco e un marocchino) «si erano divisi in tre gruppi», spiega il dirigente della Squadra mobile Alessandro Giuliano. I primi sono stati individuati tra Sesto e Cinisello, dove nella zona popolare di Sant’Eusebio operavano più spacciatori che in lotta tra di loro arrivarono quasi allo scontro armato. L’indagine era nata all’inizio del 2013 in seguito alla denuncia di un tossicodipendente 40enne, che disperato dopo le estorsioni subite dal suo pusher, indebitato fino al collo a causa della dipendenza da cocaina aveva deciso di querelarlo. Ai poliziotti del commissariato diretto da Marialuisa Pellegrino l’uomo aveva spiegato di essere ricattato da uno spacciatore di 70 anni di Cinisello Balsamo che era già stato in carcere, con il quale aveva un debito «di mille euro» che nel frattempo era cresciuto a dismisura: «Mi ricatta — raccontò alla polizia — chiede sempre più soldi, mi minaccia dicendo “guarda che io sono coperto da personaggi molto potenti calabresi, quindi stai attento perché corri grossi rischi” ». Per rafforzare il peso delle sue minacce, l’anziano glieli aveva anche presentati: si trattava di Michele Zanzarelli e Claudio Favorido, 42 e 50 anni, quest’ultimo da poco uscito dal carcere per spaccio. Erano i capi del terzo gruppo, dopo quelli di Desiderato e Lisotti. Loro si rifornivano della cocaina da un ex rapinatore che nonostante fosse affidato ai servizi sociali era diventato l’uomo di fiducia di Desiderato: Michele Di Dedda, 38enne di Cinisello. Nell’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano, e guidata da Andrea Olivadese della sezione antidroga della squadra mobile, è stata ricostruita tutta la rete. Sequestrati 26 chili di cocaina, 6 di hashish, 5 armi, un ordigno esplosivo, immobili, due bar e tre società.

http://www.infonodo.org/node/41552

‘Ndrangheta a Roma, arresti nel clan Crea, boss di Primavalle. In manette anche un agente della mobile

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Il gruppo criminale gestiva diverse attività commerciali nel quartiere periferico romano. Sono accusati anche di spaccio di droga

L’operazione della polizia di Stato, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, è scattata all’alba. In manette sono finiti diversi esponenti della criminalità calabrese appartenenti alla famiglia Crea, originari dell’alto Ionio reggino e in particolare del paese di Stilo (Reggio Calabria): gestivano diverse attività commerciali nel quartiere romano di Primavalle e si erano inseriti nel tessuto economico, commerciale e sociale della zona periferica della città, imponendo la propria presenza sul territorio. Tra gli arrestati c’è anche un poliziotto, in servizio presso la squadra mobile: è ritenuto responsabile di essersi introdotto nel sistema d’indagine Interforze Sdi, “con abuso dei poteri e in violazione ai doveri inerenti il servizio”, per raccogliere informazioni sulle indagini a carico dei soggetti coinvolti.

In manette sono finite sette persone: Enrico Rocco Crea, 67 anni e suo fratello Massimiliano 44 anni. I giovani, Mario Crea, classe 1988, Mirko Bava, nato nel 1993, poi Marco Pisani, ’68, Sebastiano Cossu, del 1961 e Valter Mancini, nato nel 1965. Sono ritenuti responsabili di detenzione e spaccio di droga, detenzione abusiva di armi e accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, tutti aggravati dal concorso esterno in associazione mafiosa per aver agevolato l’attività della ‘ndrangheta, con articolazioni territoriali in Calabria e nella provincia di Roma per il controllo delle attività illecite sul territorio.

Le indagini della squadra mobile si sono concentrate sulle attività criminali dagli appartenenti al clan calabrese dei Crea, nella Capitale ormai da diversi anni, ma originari di Stilo, centro dell’alto Ionio reggino situato tra i comuni di Monasterace e Guardavalle, già teatro di violente faide tra famiglie di ‘ndrangheta e della nota ‘faida dei boschi’ che ha provocato decine di morti ammazzati tra i clan contrapposti. Proprio l’ostilità tra le famiglie di ‘ndrangheta operanti nel centro di Stilo ha determinato, alcuni anni fa, il trasferimento di alcuni membri della famiglia malavitosa fuori dalla Calabria. In primis i fratelli Adolfo Crea e Aldo Cosimo, cugini degli arrestati, che fuggiti dalla guerra di mafia contro i Gallace-Novella, si stabilirono a Torino all’inizio degli anni 2000 per poi essere arrestati l’8 giugno 2011 per il reato di associazione di tipo mafioso, nel corso dell’operazione ‘Minotauro’.

A conferma della pericolosità criminale degli arrestati sono state acquisite anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gianni Cretarola – esecutore materiale dell’omicidio di Vincenzo Femia ritenuto il ‘referente romano’ del noto clan Nirta di San Luca – che ha riferito la struttura criminale dei Crea e i suoi collegamenti operativi con altre organizzazioni presenti nella capitale, primo tra tutte il clan Alvaro di Sinopoli. In particolare è emerso il ruolo principale di Enrico Rocco Crea e del fratello Umberto che nonostante le restrizioni dello stato di detenzione in cui si trovavano, inviavano durante i colloqui in carcere le disposizioni che venivano puntualmente eseguite dagli altri componenti e affiliati della famiglia.

I componenti più giovani del clan, Mirko Bava e Mario Crea, invece, si recavano periodicamente ai colloqui in carcere, portando notizie e ricevendo le disposizioni che poi riferivano agli altri affiliati. I due sono stati arresti lo scorso 8 maggio trovati in possesso di un’arma da fuoco priva di matricola, diverse munizioni e di due manufatti esplosivi artigianali. Oltre ai fratello Umberto ed Enrico Rocco, le redini della famiglia erano tenute anche dall’altro fratello Massimiliano, che era impegnato nella gestione dei traffici di droga.

E ancora. La squadra mobile ha documentato la presenza di altre ‘giovani leve’ che si occupavano di tutte le attività della famiglia Crea: dall’incombenza di ‘fare da autista’ agli anziani del sodalizio all’accompagnare gli ‘ospiti’ che venivano dalla Calabria fino a minacciare altre persone, anche con l’uso di armi da fuoco. Tra questi, anche Jacopo Vannicola, genero di Enrico Rocco, arrestato il 22 aprile dello scorso anno per detenzione di cocaina, Valter Mancini e Sebastiano Cossu che avevano illecitamente quantità di droga destinate alla vendita. In particolare, proprio l’arresto di Vannicola creerà grande fermento all’interno della famiglia Crea confermando che il traffico di droga costituiva l’attività principale del sodalizio criminale e determinando della famiglia e i principali affiliati all’organizzazione a disporre un vero e proprio summit presso un bar in zona Primavalle.

http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/03/25/news/ndrangheta_arrestati_a_roma_esponenti_del_clan_crea-110405796/

‘Ndrangheta, omicidio Bruni, arrestato Daniele Lamanna: voleva nascondersi in monastero

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Il più classico dei metodi di investigazione ha incastrato Daniele Lamanna, il latitante della cosca Rango-Zingari di Cosenza, arrestato ieri sera dalla Squadra Mobile della Polizia. Niente cimici o intercettazione ma occhio vigile e pedinamenti. Così gli investigatori della Mobile hanno rintracciato il luogo dove si nascondeva Lamanna, ritenuto responsabile dell’omicidio di Luca Bruni, ucciso il 3 gennaio del 2012. L’uomo, infatti, è stato arrestato subito dopo aver incontrato il figlio di 9 anni ed il suocero. Da tempo gli agenti seguivano gli spostamenti della compagna di Lamanna e dei suoi congiunti. Quando hanno visto scendere il bambino hanno capito che proprio in quella palazzina di Trenta si nascondeva il latitante che, evidentemente voleva salutare il figlio che non vedeva da tempo.
Quando lo hanno ammanettato i poliziotti si sono trovati davanti un uomo diverso dalle foto segnaletiche. Barba lunga e viso segnato dalle rughe. Lamanna, infatti, temeva di essere ucciso come Bruni a causa di lotte interne al clan degli Zingari. Il suo intento, dopo molto girovagare in Italia, era stato in Versilia prima di tornare in Calabria, era quello di rifugiarsi per continuare la propria latitanza senza pensieri in un monastero e di confondersi tra i monaci. Aveva, infatti, già acquistato un saio. Durante l’arresto, inoltre, è stata sequestrata un revolver 7,65.
“L’arresto di Lamanna eseguito dalla Polizia di Stato di Cosenza – ha dichiarato il Procuratore Vincenzo Lombardo – è importantissimo perché si tratta di un soggetto coinvolto nell’omicidio di Luca Bruni che si era dato alla latitanza prima del fermo e tale è rimasto il suo stato anche dopo l’ordinanza di custodia cautelare”.

http://www.strill.it/citta/2015/03/ndrangheta-omicidio-bruni-arrestato-daniele-lamanna-voleva-nascondersi-in-monastero/

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Tirreno cosentino, si va alla ricerca della radioattività

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Tra le analisi richieste dalla Procura di Paola c’è anche la caratterizzazione di radionuclidi artificiali eventualmente presenti nelle acque e nei pesci della zona. La guardia costiera ha concluso il prelievo di acque e di sedimenti marini nei fondali

PAOLA È terminata la prima fase dell’operazione di analisi dei fondali del Tirreno cosentino messa in atto dai sub della guardia costiera. Un blitz mirato, richiesto dal procuratore capo della Repubblica di Paola, Bruno Giordano, per cercare di comprendere lo stato di salute del mare, della flora e della fauna presente nelle acque del Tirreno soprattutto alla luce della cattura di alcuni tonnetti alletterati risultati poi contaminati con Pcb e Ipa.

I sommozzatori del terzo nucleo subacquei della Guardia costiera di Messina – su delega specifica della Procura che sulla vicenda ha aperto un’inchiesta – hanno concluso i campionamenti delle acque e dei sedimenti marini prelevati – grazie anche al personale dell’Agenzia per la protezione per l’ambiente calabrese imbarcato sulla motovedetta – in sette siti individuati dalla Procura. Si tratta di campioni di acqua e di sedimenti che i sub hanno recuperato alla massima profondità possibile davanti le coste di Campora San Giovanni, Amantea, Paola, Cetraro, Belvedere Marittimo oltre alla foce del fiume Lao, davanti Scalea e alla foce del fiume Noce di fronte Tortora. Tutti questi campioni sono stati già inviati ai tecnici del dipartimento Fisico dell’Arpacal di Cosenza. Saranno loro a procedere alle analisi dettagliate per una caratterizzazione chimica completa dei reperti prelevati.

La Procura è intenzionata ad andare fino in fondo alla questione e per questo ha chiesto un dettagliato rapporto sulla presenza nelle acque e nei sedimenti marini, tra l’altro, di metalli pesanti – con particolare attenzione al cromo esavalente – ma anche di Policlorobifenili (Pcb) e di Idrocarburi policiclici aromatici (Ipa). Un’attenzione dettata anche dalla circostanza che proprio questi ultimi composti sono stati rinvenuti nelle lische dei tonnetti catturati a largo del Tirreno cosentino. Proprio per comprendere lo stato di salute anche della fauna – con la stessa delega – la Procura ha fatto richiesta di ripetere le stesse analisi anche sugli esemplari di pesci sia stanziali che pelagici presenti nella costa tirrenica cosentina. Con una speciale attenzione in questo caso anche della presenza di cadmio, mercurio, metilmercurio, selenio VI e cromo totale ed esavalente. Nonché di alluminio, di pesticidi, di piombo ed arsenico. Per questa specifica richiesta il personale della guardia costiera di Vibo Valentia procederà nei prossimi giorni a prelevare alcuni esemplari dal pescato degli operatori che lavorano nelle zone individuate dalla Procura. Questi campioni – che verranno prelevati anche grazie al supporto del personale dell’Azienda sanitaria provinciale cosentina – saranno poi inviati per le analisi specifiche all’Istituto zooprofilattico del Mezzogiorno.
Ma c’è di più.

Oltre alle analisi chimiche complete la Procura ha chiesto di effettuare su tutti i campioni prelevati una caratterizzazione radiometrica. Alla ricerca, in altre parole, della presenza o meno nelle acque, nei sedimenti marini e nella flora del Tirreno di contaminanti radioattivi artificiali o naturali. Un’operazione dunque molto dettagliata e complessa che, stando a quanto riferito dagli uomini della guardia costiera impegnata in zona, non si concluderà prima di due mesi.

 Roberto De Santo

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/31812-tirreno-cosentino,-si-va-alla-ricerca-della-radioattivit%C3%A0

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Sequestro di beni a imprenditori contigui cosche Aquino e Morabito

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I Finanzieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria e del Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata di Roma, al termine di articolate indagini – coordinate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Direzione Distrettuale Antimafia – in esecuzione di provvedimenti ablativi emessi dal Tribunale di Reggio Calabria – Sezione G.I.P., hanno sequestrato un ingente patrimonio mobiliare, immobiliare e societario, per un valore stimato di circa 50 milioni di euro, in pregiudizio di vari imprenditori, operanti nella fascia ionica della provincia di Reggio Calabria, ritenuti contigui ai locali di Africo e Marina di Gioiosa Ionica.
Le investigazioni hanno consentito di accertare come alcuni imprenditori, tra cui il noto Verdiglione Bruno, Cuppari Antonio e Muccari Domenico Antonio, avessero effettuato ingenti investimenti societari e\o immobiliari in mancanza di una lecita capacità reddituale. Le ricostruzioni effettuate dalle Fiamme Gialle hanno messo in evidenza, in particolare, il frequente ricorso al c.d. “finanziamento soci”, che, in linea generale, consente alla società di disporre di capitali senza ricorrere agli Istituti di Credito. Tale liquidità viene iniettata nelle casse della società direttamente dai soci, quale forma di auto-finanziamento a “costo zero”, non dovendone sostenere le spese per gli interessi.
La predetta operazione, se da un lato rappresenta una normale procedura societaria (destinata al raggiungimento dello scopo sociale), dall’altra può rappresentare un meccanismo di reimpiego di capitali illeciti. Infatti, attesa l’acclarata vicinanza degli imprenditori investigati alle cosche Morabito ed Aquino, è stata effettuata un’articolata ricostruzione patrimoniale che ha permesso di individuare innumerevoli acquisti di beni immobili e costituzioni societarie, attraverso cui gestire importanti complessi turistico-alberghieri, nati con i proventi di capitali illeciti.
Le successive e mirate indagini patrimoniali, nei confronti dei soggetti destinatari dei provvedimenti restrittivi nonché nei confronti dei rispettivi nuclei familiari e di persone fisiche, prestanomi e società all’uopo individuati e riconducibili – a qualsiasi titolo – ai predetti soggetti, hanno consentito, inoltre, la ricostruzione dei flussi di denaro dei soggetti monitorati, potendo così circoscrivere i singoli beni e società, che costituiscono il reimpiego dei predetti capitali illeciti.
Tra l’altro, scelta investigativa particolarmente incisiva si è rivelata la predisposizione ed acquisizione delle tavole ortografiche e fotogrammetrie satellitari su tutti i beni immobili oggetto di investigazione. Successivamente, attraverso un’accurata rielaborazione, sono stati confrontati i numerosissimi dati acquisiti, mettendo in risalto l’aspetto della sperequazione tra redditi dichiarati e l’incremento patrimoniale accertato, per poi procedere ad una nuova e definitiva analisi contabile, che ha consentito di evidenziare un eccezionale arricchimento patrimoniale dei soggetti attenzionati, realizzato nel corso dell’ultimo ventennio.
La complessa attività di ricostruzione effettuata dai Reparti della Guardia di Finanza ha portato la Sezione G.I.P. del Tribunale di Reggio Calabria a emettere i provvedimenti di sequestro eseguiti in data odierna, con i quali si è sottratto ai soggetti ritenuti contigui alla ‘ndrangheta un patrimonio illecitamente accumulato, fatto di beni mobili, immobili, attività commerciali e disponibilità finanziarie, e investito principalmente nel settore turistico-alberghiero, che ancora oggi si dimostra essere, insieme al traffico di stupefacenti, nel core business delle cosche di ‘ndrangheta.
Altresì, a fronte della stretta creditizia, che rappresenta per le imprese in libera concorrenza un ostacolo alla crescita e, in taluni casi, alla sopravvivenza della società stessa sul mercato, le società paramafiose vantano un’elevata disponibilità di capitali, che generano disquilibrio e una potenza economica in grado di fagocitare piccole-medie imprese, che non beneficiano di pari opportunità finanziarie.
In definitiva, il provvedimento eseguito nelle province di Raggio Calabria, Roma, Cosenza, Catanzaro, Mantova e Arezzo, ha portato al sequestro preventivo, ex art. 321 c.p.p, finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 12 sexies Legge 356/1992, dei seguenti beni:
a.    12 attività commerciali/quote societarie, tra cui si segnalano: il 50% delle quote societarie, rispettivamente, dell’hotel “Mediterraneo” e dell’hotel “Gianfranco”, siti in Roccella Jonica (RC); l’azienda agricola “Gonzaga” nel Mantovano, operante nel settore dell’allevamento dei suini; diverse quote societarie di importanti imprese edili operanti nell’aretino;
b.65 beni immobili (di cui nr. 33 terreni e nr. 32 fabbricati), di cui uno di particolare pregio in pieno centro a Roma;
c.   12 beni mobili registrati, tra autoveicoli e motoveicoli, dotate anche di targhe rilasciate da paesi straniere, in cui i soggetti operavano con fini speculativi; per un valore di stima complessivo di circa 50 milioni di euro.

http://www.strill.it/calabria/2015/03/ndrangheta-maxi-sequestro-di-beni-a-imprenditori-contigui-cosche-aquino-morabito/

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